L’inserimento di bambini che presentano un qualche problema psicologico, organico o genetico nella scuola si è rivelato fin dall’inizio un progetto ambizioso. Ambizioso a causa delle enormi difficoltà che le diverse tipologie di handicap procurano a tutti gli operatori, anche ai più specializzati e preparati.
Ambizioso in quanto, un buon inserimento, per i complessi contenuti umani e civili che comporta, presuppone una crescita educativa ed una maturazione di tutte le componenti scolastiche: dirigenti, personale ausiliario, insegnanti e alunni "normali".
Ciò presuppone un impegno totale e massiccio, competenze specifiche, dedizione, studio e aggiornamento da parte dei vari operatori del settore. Pertanto, questo lavoro non può essere delegato alla sola figura dell’insegnante di sostegno la quale, sebbene abbia una sua preparazione specifica, deve potersi inserire in un gruppo operativo di cui fanno parte il dirigente scolastico (con le sue capacità e possibilità gestionali e di coordinamento degli interventi), gli insegnanti curriculari, l’équipe medico-psico-pedagogica della scuola, i genitori, ma anche gli altri servizi sociali e di volontariato presenti nel territorio.
É da questo gruppo operativo che deve scaturire un progetto educativo realistico ed incisivo, verificabile ed aggiornabile continuamente. Tale progetto, partendo da un’attenta e minuziosa osservazione della realtà familiare e sociale del bambino, deve contenere le linee operative, gli strumenti ed i tempi di attuazione.
Quale collaborazione fra gli operatori?
Quando si parla di un problema difficile da risolvere, come in realtà è l’inserimento di un bambino disabile nella scuola, si parla molto spesso di collaborazione. Collaborazione tra insegnante di sostegno e insegnante curriculare; tra insegnanti ed équipe; tra operatori e genitori.
Ma che significa collaborare? Come e quando è possibile tale collaborazione?
Sappiamo che questa disponibilità a lavorare insieme aiutandosi e sostenendosi a vicenda, in realtà nasce non dall’esterno, ma dentro di noi.
É dentro di noi, infatti, che sboccia e a volte diventa reale e concreta, mentre altre volte abortisce o viene soffocata dalla gelosia, dall’invidia o dall’aggressività nascosta o palese.
La capacità alla collaborazione è, infatti, legata alle esperienze fondamentali della nostra vita affettiva e relazionale. Le esperienze positive che nascono da momenti di amore, di gioia, di disponibilità all’interno dei primi affetti familiari, modellano la nostra personalità di base, così che questa è disponibile ad aprirsi, sostenere, aiutare e capire l’altro.
Oppure, al contrario, sono i modelli genitoriali improntati ad assenza, freddezza e chiusura, le carenze affettive e i grandi, ma anche i piccoli e ripetuti traumi infantili che accentuano le ansie, le paure e le difese e quindi ci spingono a chiuderci all’altro, a difenderci in maniera eccessiva o ad aggredire chi ci sta accanto.
Nonostante ciò, conosciamo la possibilità di sviluppare dentro di noi e accanto a noi la disponibilità alla collaborazione e quindi conosciamo la strada per renderla concreta e operante mediante modalità di rapporto che prima che esternamente devono essere vissute interiormente.
Dinamiche dell’insegnante di classe e di sostegno.
Per quanto riguarda le dinamiche degli insegnanti di classe, il rifiuto conscio o inconscio di occuparsi del bambino disabile nasce, a volte, dalla sensazione che far effettuare delle attività molto semplici e limitate sia degradante: “Io che mi sono laureata in matematica con ottimi voti e che ho insegnato per anni teoremi complessi ed equazioni, non posso mettermi a giocare con questa bambina con trenini e aeroplanini per far capire la corrispondenza delle quantità come farebbe un’insegnante di scuola materna”. “Io che sono uno studioso di Dante, io che ho scritto un saggio sulla sua vita non posso mettermi ad insegnare le vocali a questo bambino: sarebbe stupido, inutile e degradante.”
In altri insegnanti prevale invece la paura di non potersi occupare bene del problema reputandolo al di sopra delle proprie possibilità: “Io sono solo un’insegnante di lettere; non conosco nulla delle patologie e dei problemi dei bambini con handicap; non so, pertanto, cosa fare e come fare”.
Altre volte prevalgono sulla ragione i moti istintivi e le paure irrazionali. Si cede in questo modo alla istintiva ancestrale sensazione di rifiuto che ci coglie davanti a persone disabili. “Non posso farci niente ma quando vedo quel bambino mi sento male.”
Le conseguenze di tutto ciò sono estremamente negative: a quel bambino mancherà l’apporto di uno o più insegnanti curriculari e sarà molto limitata la collaborazione di questi sia con l’insegnante di sostegno che con i genitori. In realtà a quel bambino disabile, che dovrebbe avere di più, viene concesso meno che agli altri suoi coetanei.
Per quanto riguarda l’insegnante di sostegno, le dinamiche negative nascono quando l’amore e la passione per il bambino in difficoltà lo coinvolgono eccessivamente.
In questi casi egli avverte il bambino disabile che gli è stato affidato come una cosa propria o come un figlio con problemi da difendere con le unghie e con i denti, da chi non sente e pensa come lui; un figlio da tutelare da chi non se ne occupa con la stessa passione e dedizione; un figlio da preservare da chi non ha le stesse capacità.
Ogni atteggiamento di rifiuto, di indifferenza o di disimpegno da parte della scuola o degli altri insegnanti viene vissuto in modo eccessivo ed abnorme. Tutto ciò impedisce di capire i problemi e le ragioni degli altri e spinge ad una lotta senza quartiere o ad una chiusura, in quanto gli altri “non capiscono, non amano, non vogliono.”
É più rara, ma è presente, la situazione opposta e cioè l’alleanza con gli altri insegnanti curriculari contro il bambino visto come troppo disturbato, troppo grave, con troppi problemi per potersene occupare in maniera proficua.
Frequente è inoltre la gelosia nei confronti dei genitori “che non capiscono, non collaborano, non si attivano sufficientemente.” “ Io mi impegno e lotto fino allo spasimo per vostro figlio, ma voi non fate nulla per lui, anzi distruggete il mio lavoro.”
Quali gli atteggiamenti più utili?
Il primo atteggiamento interiore è, o dovrebbe essere, comune a tutti gli operatori: psicologici, medici, insegnanti ecc.. Per tutti dovrebbe valere la regola fondamentale che è giusto e sacrosanto capire, aiutare, sostenere, proteggere, la persona che ci è stata affidata o che si è affidata a noi ma mai identificarsi con essa; mai coinvolgersi e vivere come propri i suoi problemi; mai assumere un ruolo non proprio: di padre, madre, fratello, sorella, amico. É indispensabile, infatti, restare sereni, equilibrati e liberi, nel rapporto con ogni persona a cui diamo il nostro apporto professionale.
Nei confronti di tutte le forze che identifichiamo attorno a noi e che potrebbero essere utili per i nostri obiettivi, come gli altri insegnanti e operatori, è bene assumere un atteggiamento intelligentemente affettuoso.
In tal modo potremo identificare, scoprire e poi stimolare, valorizzare e aiutare a crescere, tutti quegli elementi positivi che si trovano nell’animo, nella cultura e nell’intelligenza di ogni persona con cui ci saremo trovati a collaborare.
Possiamo imparare a porci nei confronti di chi dovrebbe o potrebbe aiutarci, non come chi giudica, chiede e pretende, ma come colui che comprende e dirime le altrui difficoltà, scopre e valorizza le altrui capacità. E quindi non io che giudico te, non io che chiedo a te, non io che pretendo da te, ma io che aiuto te a capire e valorizzare le tue capacità. Io che aiuto te a scoprire gli strumenti più idonei ed i mezzi più opportuni per fare bene il tuo e nostro lavoro.
Il primo ostacolo che gli insegnanti sono costretti a superare è certamente dovuto alla diversa formazione. Per un grave errore del nostro Ministero della Pubblica Istruzione, che solo con le nuove leggi si sta cercando di correggere, solo gli insegnanti di sostegno avevano l’obbligo di effettuare un corso di specializzazione che li avrebbe dovuto rendere non solo più idonei ad affrontare i problemi dell’handicap, ma anche più sensibili verso questa realtà.
Questa scelta operativa ha reso molto difficile non solo la collaborazione ma anche un proficuo dialogo tra le due categorie di insegnanti, per cui è facile trovare, nonostante la legge dica il contrario, una netta divisione di ruoli: “ Io mi occupo dei miei bambini normali“, dicono gli insegnanti curriculari, “tu occupati del tuo bambino handicappato” .
E a nulla valgono leggi, circolari o reprimenda dei superiori.
A questo grave peccato originale di impostazione bisogna che siano gli insegnanti stessi, coordinati dai dirigenti scolastici, a porre rimedio mediante una serie di attività comuni come la ricerca e l’aggiornamento; come l’osservazione, la programmazione e la valutazione di ogni bambino con problemi. Infine ancora insieme, con entusiasmo, creatività e fantasia nel momento dell’attuazione del programma educativo concordato e nella verifica e valutazione dei risultati ottenuti.