Il bambino se ad un mese piange ostinatamente quando ha fame o sta scomodo, senza preoccuparsi minimamente delle esigenze dell'adulto o degli adulti che hanno cura di lui, mentre si tranquillizza solo quando è satollo e soddisfatto di tutto, successivamente comincia a regolare la sua vita ed i suoi bisogni in base alle esigenze della madre. Impara a postergare i suoi bisogni fisiologici: l'alimentazione, il sonno, i bisogni di coccole, in base alle necessità e alle richieste materne. Mostra interesse ed eccitazione al rumore dei passi che si avvicinano, al rumore dell'acqua quando la madre prepara il bagnetto quotidiano o a quello delle pentole quando appronta la pappa. Fra le sei e le dodici settimane sorride regolarmente e indiscriminatamente a tutti i visi umani e persino a illustrazioni o modelli di dimensione reali, purché siano visti di fronte e abbiano qualche movimento.[1]
Fra i tre ed i sei mesi il sorriso stereotipato diviene selettivo e si rivolge alle persone familiari. Il bambino diventa capace di rispondere con un sorriso ad uno stimolo ben specifico. Pertanto il sorriso non è più ‹‹…una semplice reazione ad eccitazioni interne od esterne, esso entra ugualmente in un quadro di relazione come metalinguaggio fornito di sottigliezze e tonalità melodiche.››[2] Il bambino a questa età riconosce i suoi genitori ed ha delle immagini mentali delle persone familiari (stadio dell’oggetto precursore).
A Cinque - sette mesi distingue la mimica degli adulti e reagisce di conseguenza: ride, vocalizza e fa vari rumori di gioia quando gli altri comunicano con lui. E’ contento e volge il suo sguardo verso la voce della mamma che gli parla da un’altra stanza. È sensibile e mostra una evidente rispondenza alle differenti intonazioni emozionali della voce di questa. A partire dai sei - otto mesi ha interesse ai giochi dei quali è fatto partecipe, tipo “Cucù – eccolo” e si riconosce allo specchio. ‹‹Accanto a questi progressi abbastanza vistosi sul piano dei rapporti del bambino con gli adulti, non si può non essere colpiti dalla relativa povertà dei rapporti con i coetanei. Contrariamente a quello che constatiamo nelle età successive, gli altri bambini della stessa età sono praticamente senza interesse per il bambino. Eccetto qualche sorriso e alcuni toccamenti, non presta loro molta attenzione. Egli non li avverte partecipi alle situazioni per lui vitali, tratta i suoi pari come oggetti: li strapazza, li tocca con le mani, strappa loro i giocattoli che lo interessano. Per Spitz a questa età compare l'angoscia degli otto mesi. Il bambino avverte paura, se non angoscia, al cospetto di estranei. Teme istintivamente e non si fida delle persone a lui non note. Alla loro vista egli si imbroncia, si nasconde o si mette a piangere, manifestando timidezza.
In questo periodo è importante la comunicazione affettiva che proviene dal volto e dai gesti materni. È da questi segnali che dà la madre che il bambino capisce se chi ha di fronte è una persona amica o nemica. Se con questa persona che si avvicina a lui si può giocare oppure è meglio restare lontani. Se è il caso di lasciarsi andare nelle sue braccia oppure rimanere stretti al collo materno.
Verso i nove mesi circa, il compagno di gioco è preso maggiormente in considerazione soprattutto in funzione delle cose che possiede. Sono frequenti le lotte e i conflitti per avere degli oggetti di interesse reciproco. Bisognerà attendere ancora parecchi mesi perché si stabiliscano contatti diversi da quelli aggressivi.[3] A questa età già vocalizza liberamente, con significato di comunicazione interpersonale. Grida per attirare l'attenzione della madre e degli altri adulti. Parlotta armoniosamente ripetendo e legando alcune sillabe come ma-ma; pa-pa. Capisce il “no” e fa “ciao” con la manina. A dodici mesi conosce già il proprio nome e si volta se chiamato. Mostra, con movimenti adeguati, che capisce molte parole del lessico familiare. Comprende semplici richieste associate ai gesti ad esempio: ‹‹Dammi››, ‹‹Fa’ ciao.›› Distribuisce baci ai genitori e alle persone care.
A mano a mano che il bambino viene riconosciuto educabile, cioè capace di apprendimento, la madre modifica sempre più le sue manifestazioni di tenerezza verso di lui. Se prima vi era il convincimento che il figlio dovesse sempre ricevere il suo aiuto ed il suo sostegno, adesso vuole che impari certe cose, per cui tende a mostrare verso di lui collaborazione e tenerezza come ricompensa quando si comporta bene o impara. [4] Pertanto è la madre la protagonista del primo anno di vita del bambino, non solo perché è lei che lo allatta e successivamente lo imbocca, ha cura di lui, lo pulisce e controlla che non si faccia del male, ma è anche lei il punto di riferimento, la stella polare del bambino quando è ferito, dolorante, triste, spaventato o quando ha bisogno di coccole.
Durante il primo anno inizia anche la comunicazione con il padre. Questo tipo di comunicazione ha strumenti, tempi, obiettivi e finalità diverse rispetto alla comunicazione materna.
La comunicazione paterna tende ad offrire al bambino un esempio più deciso e forte, più sereno e stabile. Per tale motivo questa comunicazione appare più stringata e lineare, più tranquilla e razionale, più ruvida e decisa. E' una comunicazione che, priva di fronzoli, con l'uso di pochi e scarni aggettivi, stimola all'azione, al fare e al creare. Il padre con il suo esempio comunica al bambino decisione, agilità, destrezza, irruenza. Con le parole gli dà la forza della razionalità, stimola in lui il controllo delle proprie emozioni, la sicurezza del proprio agire. Con i suoi comportamenti fa sorgere nel figlio il piacere della conquista, e delle rapide decisioni. In definitiva, se la comunicazione materna mette in primo piano il cuore ed i sentimenti, quella paterna mette in primo piano la ragione. Se la comunicazione materna ha lo scopo di sviluppare e confortare l’Io del bambino, quella paterna ha lo scopo di dare slancio, forza, determinazione, coraggio, sicurezza a quest’Io.
Alla fine del primo anno di vita ‹‹Guardando gli occhi, e l’espressione di chi si prende cura di lui, il bambino ottiene informazioni sui suoi stati interni - pensieri, intenzioni, credenze, desideri ed emozioni – e li usa per costruire un collegamento tra quello che potrebbe fare chi lo accudisce e quello che lui stesso progetta di fare. L’accesso ai propri stati interni è ora coordinato con l’accesso a quello di un’altra persona affettivamente significativa.››[5]
L’attaccamento
Uno degli effetti positivi consequenziali ad un ambiente favorevole e comprensivo dei bisogni del bambino è l'attaccamento che si sviluppa nei primi nove mesi di vita e perdura per vari anni. Naturalmente questo legame è maggiore verso la madre quando questa sa instaurare con il figlio, fin dalla nascita, una relazione speciale.
Si può definire l'attaccamento come quel forte legame avvertito dal bambino nei confronti di uno o di entrambi i genitori o verso persone che hanno nei suoi confronti delle cure continue e particolari. Questo legame speciale ha nell’uomo e negli animali una funzione biologica, in quanto permette di preservare i piccolo dai pericoli esterni. Chiunque più degli altri si prende cura del bambino diverrà nei suoi confronti la figura principale di attaccamento.
L’attaccamento è reciproco: del bambino verso la madre e della madre verso il bambino. Questi sentimenti materni e filiali si sviluppano non solo se tra i due vi è una continua vicinanza ma soprattutto se tra i due vi è una reciproca intesa, dialogo e scambio affettivo.
Questo legame che è molto forte dopo la seconda metà del primo anno e durante tutto il secondo e terzo anno, dal quarto anno in poi è suscitato un po’ meno facilmente di prima, anche se il cambiamento è di entità minima. Come in tutte le relazioni il legame dell'attaccamento può non instaurarsi o può andare in crisi per i motivi più vari, che possono riguardare l'uno o l'altro elemento della relazione o entrambi. Se una madre sceglie, o è costretta, a rimanere lontano dal figlio per un certo tempo, affidando questi ad altre persone o ad altre istituzioni, questo legame può non avvenire o può alterarsi. La mancanza di attaccamento può intervenire per molti altri motivi:
- · scarso interesse della madre nei confronti del figlio non voluto, non desiderato, non amato, considerato come un intralcio ai suoi interessi e obiettivi del momento;
- · insufficiente attitudine o preparazione al ruolo materno;
- · scarse capacità nell’instaurare una comunicazione efficace;
- · presenza di una intensa ansia e depressione nella madre;
- · l'attaccamento può non instaurarsi o fallire anche per cause riguardanti il bambino, quando questi presenta notevole fragilità psichica, con conseguente eccessiva debolezza di fronte alle indispensabili piccole frustrazioni presenti in ogni relazione, o quando il figlio lamenta congenite, gravi difficoltà ad instaurare una comunicazione efficace.
L’attaccamento può avvenire, come abbiamo detto, anche nei confronti di più persone ma in questo caso vi è un preciso ordine di preferenza (specificità dell'attaccamento) .
Questo legame particolare può durare, anche se con intensità diversa, per tutta la vita. I primi attaccamenti, infatti, non sono mai definitivamente abbandonati.
In questa relazione particolare è presente una dipendenza reciproca: del figlio nei confronti della mamma, per ragioni di sopravvivenza e della mamma nei confronti del figlio in quanto questi diventa un suo importante e fondamentale oggetto d’amore. È importante che tra il bambino e la madre si instauri l'attaccamento in quanto il bambino, rassicurato da questo legame speciale, può avere fiducia negli altri, in se stesso, nel mondo.
Solo il bambino forte e sicuro dell’amore dei suoi genitori è capace di camminare spedito verso l’indipendenza psicologica e materiale. La sua sicurezza gli consente di esplorare il mondo, di allontanarsi da schemi infantili o dalle persone che fino a quel momento costituivano i suoi fondamentali punti di riferimento affettivo. È, quindi, l'attaccamento che gli permette di affrontare le difficoltà della vita con forza ed equilibrio. Questo legame quando è solido, sicuro e condotto in maniera fisiologica, conduce verso una maggiore autonomia ma anche verso una superiore capacità di affrontare e resistere agli eventi stressanti o traumatici. Questa capacità, chiamata resilienza, è nettamente superiore quando il bambino ha potuto sviluppare legami affettivi significativi nella prima infanzia.[6]
Gli esempi che si potrebbero fare sulla realtà dell’attaccamento sono numerosissimi.
Chi non ha notato come il bambino si leghi fisicamente al corpo paterno o materno quando si ritrova con estranei o in situazioni insolite che giudica pericolose?
Quando ancora i bambini venivano ricoverati in ospedale senza le madri, BOWLBY aveva notato che quando i piccoli venivano ammessi in reparto, esprimevano un’intensa inquietudine e agitazione. Con il ritorno a casa poi, se inizialmente manifestavano aggressività e rifiuto verso le loro madri, quando le rivedevano, era come se le accusassero pesantemente in cuor loro per averli abbandonati.[7] Successivamente a questi traumatici distacchi, i bambini tendevano a seguire costantemente le loro madri, come per paura di perderle nuovamente e ad esse si aggrappavano aumentando le loro richieste di coccole e gratificazioni.
In questi casi, se le madri rifuggivano da queste richieste ritenute eccessive, questo rifiuto suscitava un comportamento ancora più ostile, negativo o peggio regressivo da parte del bambino. Anche per ISAAC ‹‹Fino ai tre anni è assolutamente normale che il bambino si risenta quando perde le cure esclusive di una madre o di una nurse amata, anche se questa perdita è di breve durata. Non tutti reagiscono in questa maniera ma la maggioranza lo fa.››[8]
Attaccamento sicuro ed insicuro.
Vi è pertanto un attaccamento sicuro, nel quale il bambino ha piena fiducia nella madre ma anche nel padre per cui egli sa di poter contare su di loro nel momento in cui dovesse incontrare situazioni nuove, difficili o traumatiche, ma vi è, purtroppo, anche un attaccamento insicuro o ansioso, nel quale il bambino non ha la certezza di trovarsi accanto come sostegno e presenza attiva e serena almeno uno dei genitori.
In questo senso il caso di Dario è emblematico.
Un viaggio di lavoro.
Quando la madre di Dario, per motivi di lavoro, andò in Venezuela, il figlio aveva quasi due anni. La donna pensava di averlo lasciato in buone mani in quanto aveva affidato il bambino al padre e ad una tata che viveva stabilmente in famiglia. Dopo alcuni mesi, al ritorno dall’incarico espletato brillantemente, non immaginava di dover affrontare una brutta situazione. Dario manifestava chiari segni di sofferenza e di regressione: non la guardava più negli occhi, appariva depresso, pensieroso, piangeva e gridava per un nonnulla, aveva dimenticato molte delle parole che conosceva. La madre, pensando che questi comportamenti ed atteggiamenti del figlio fossero dovuti a dei capricci, piuttosto che farsi perdonare e coccolarlo maggiormente, ha pensato bene di avere nei suoi confronti un atteggiamento più fermo e deciso, conclusosi con l’iscrizione in una scuola materna dove insegnava una maestra particolarmente burbera e severa. Infine, arguendo che la tata che aveva lasciato con lui durante la sua assenza, non avesse fatto bene il suo dovere non stimolando la comunicazione del figlio, l’aveva licenziata su due piedi. Quando verso i cinque anni arrivò alla nostra osservazione, la situazione psicologica del bambino si era ulteriormente aggravata. Egli presentava marcato disinvestimento in tutte le relazioni, sia verso i coetanei, sia verso gli adulti; momentanei ma ripetuti scollamenti con la realtà; grave instabilità ed irrequietezza motoria, atteggiamento triste; importanti disturbi nella comunicazione con un linguaggio molto ridotto e con presenza di ecolalie e uso di frasi e parole improprie. Il bambino presentava, inoltre, ecoprassie, facili crisi di pianto e, se contrariato, atteggiamenti aggressivi.
La madre cercava di contenere con un atteggiamento sempre più deciso e fermo i comportamenti più disturbanti di Dario, ma con scarso o momentaneo risultato.
Non vi è dubbio che alla base dei problemi di questo bambino vi fosse l’allontanamento precoce della madre per alcuni mesi, ma altresì non vi è alcun dubbio che il successivo comportamento della donna, poco incline a farsi perdonare dal bambino il suo errore, ma anzi tendente a controllare e punire le manifestazioni di sofferenza di Dario, non solo non era un atteggiamento adeguato a risolvere i problemi del bambino, ma, senza volerlo, li aveva notevolmente aggravati.
Se l’attaccamento è un processo fisiologico, la sua patologia si ha soltanto quando la madre o il padre, pur di sentirsi sicuri e sereni loro, cercano in ogni modo di impedire al figlio di muoversi in modo autonomo legandolo a sé mediante le loro ansie o le loro paure. Alcuni genitori, infatti, soprattutto le madri, vorrebbero che il figlio restasse piccolo e quindi lavorano contro il processo di maturazione, nel tentativo di mantenere il figlio in una condizione infantile per un periodo il più lungo possibile.
Fino alla fine dei tre anni l'attaccamento permane in modo intenso, pertanto è altrettanto negativo il comportamento opposto di quei genitori, e oggi sono tanti, che prematuramente spingono o costringono il figlio ad una autonomia e ad una responsabilità non adeguate e non confacenti alla sua età o al suo sviluppo psicoaffettivo. Questi genitori spesso ottengono l’effetto opposto, in quanto il figlio che non si sente supportato dall’attaccamento genitoriale ha maggiori difficoltà ad affrontare il mondo circostante; pertanto rimane ancorato ad un livello di sviluppo non adeguato alla sua età cronologica.
Un fallimentare piano pedagogico
Luisa, una giovane madre che insegnava in una scuola elementare, quando seppe di aspettare un bambino studiò un preciso piano pedagogico per stimolare nel figlio, il più rapidamente possibile, una buona autonomia, così da potersi dedicare tranquillamente al suo lavoro. Il suo piano prevedeva, intanto, di evitare di stare sempre con il bambino anche nei primi giorni di vita. Voleva che lui si “abituasse” a prendere il latte e ad essere curato, non solo da lei ma anche dagli altri familiari, così da evitare proprio uno specifico attaccamento. Inserendolo poi, dopo il primo anno, in un ambiente estraneo come quello di un asilo nido e poi, a due anni e sei mesi, in una scuola materna, pensava di aver raggiunto l’obiettivo che si era prefissato: far maturare rapidamente la sua autonomia. Ma a cinque anni, mentre ancora il figlio frequentava la scuola materna, le insegnanti con molto tatto, trattandosi di una collega, cominciarono a riferirle che ‹‹il bambino aveva forse qualche problema: non socializzava con gli altri, giocava da solo in un angolo, e si avvicinava ai suoi compagnetti solo per strappare loro qualche giocattolo che lo interessava particolarmente, ma non riusciva a costruire con questi un vero gioco. Anche il suo linguaggio era strano. Ripeteva benissimo ogni parola che sentiva ma la inseriva in contesti non idonei. Vi erano poi delle frasi che ripeteva di continuo.›› A casa bastava poco per farlo gridare e così, sia la madre che i nonni, “per farlo stare buono” lo mettevano spesso davanti alla TV, dove egli preferiva vedere sempre le stesse cassette, con gli stessi cartoni animati, per ore e ore. La notte poi, non si voleva assolutamente staccare dal letto dei genitori e stava abbracciato alla madre come ad un’ancora di salvezza ma, contemporaneamente, la tormentava tirandole i capelli e le ciglia.
È evidente che il piano materno era fallito su tutta la linea! Lo sviluppo dell’autonomia del bambino non può essere accelerato di molto. Ma soprattutto non si può ottenere questo obiettivo senza tenere nella giusta considerazione i bisogni primari dell’animo del minore, in caso contrario si rischia di conseguire l’effetto opposto.
Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente"
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[1] Wolff S. (1970), Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma, p. 16
[2] J. De AJURIAGUERRÁ, Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, 1993, p. 118.
[3] Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 59.
[4] Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 184.
[5] L. BARONE - D. BACCHINI, Le emozioni nello sviluppo relazionale e morale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, p. 26.
[6] D. OVADIA “Mi piego ma non mi spezzo”, in Mente e cervello, n° 67, 2010, p. 52.
[7] Cfr. J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982, p 10
[8] S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 138.