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Adolescenza

Adolescenza

 

LE FASI DELL’ADOLESCENZA

L’inizio della pubertà viene fissata convenzionalmente a 11-12 anni per i maschi e a 10-11 anni per le femmine. La sua fine dovrebbe avvenire verso i 15 anni. Dopo quest’età inizia l’adolescenza vera e propria che dovrebbe cessare verso i 18 – 20 anni con la fine dell’accrescimento somatico.

Mentre la pubertà sta ad indicare l’età in cui il soggetto diventa capace di riprodursi, l’adolescenza  pone l’accento sull’accrescimento somatico e sui cambiamenti intellettivi, affettivi e relazionali con i quali avviene il passaggio dall’età infantile a quella adulta.

Come si vede nell’inizio della pubertà vi è uno scarto di uno - due anni tra il maschio e la femmina. Si dice, infatti, che le femminucce tendono a maturare prima dei maschietti. Queste età possono fluttuare ampiamente in base a caratteristiche individuali, razziali e alla latitudine. La maturazione avviene prima nei paesi più vicini all’equatore, rispetto ai paesi nordici. Per tale motivo non vi dovrebbe essere alcun allarme se queste tappe non sono raggiunte nei termini indicati.

Quando inizia la pubertà si avvertono già alcuni cambiamenti nell’atteggiamento, nel comportamento e nel carattere del ragazzo e della ragazza. Anche a livello fisico si notano i segni esteriori delle modificazioni dell’assetto ormonale con la comparsa dei primi peli.

 

Aspetti psicologici dell'adozione

Aspetti psicologici dell'adozione

 

L’aumento dell’età del matrimonio e quella nella quale si ricercano i figli, lo stile di vita sessuale eccessivamente libero, l’inquinamento ormonale, nonché molti altri fattori organici che colpiscono le capacità fecondanti sia dell’uomo, sia della donna, hanno comportato un notevole incremento di coppie sterili. Ciò, insieme al desiderio di aiutare dei bambini orfani o abbandonati negli istituti, contribuisce a promuovere le adozioni sia nazionali che internazionali. [1]

Le motivazioni all’adozione.

I bisogni che spingono una coppia ad adottare un bambino sono vari.

Vi può essere un desiderio di fecondità, cioè il desiderio che una parte di noi si trasferisca e continui in un altro piccolo essere umano. ‹‹Vorrei che qualcosa di me si trasmettesse a questo bambino il quale, anche se non è portatore dei miei geni, avrà in sé alcuni dei miei modelli educativi, dei miei ricordi, dei miei valori, delle mie esperienze, della mia cultura››.

Vi può essere il piacere di godere della maternità e della paternità. È sicuramente bello pensare di accudire un bambino, sostenendolo nelle difficoltà, educando tutte le sue potenzialità umane, per vivere con lui, accanto a situazioni di difficoltà, anche tanti momenti di tenerezza e gioia reciproca. Un bambino tra le braccia, quindi, per godere dell’affetto, della gioia e dell’intesa con un piccolo essere umano, che potrebbe arricchire la propria vita personale e di coppia. Un bambino per rinsaldare l’unione familiare.

Accanto a questo vi può essere il bisogno e il desiderio del dono. ‹‹Io sono ricco. Ricco di gioia, di affetto e d’amore. Sono ricco di beni materiali, di beni spirituali, di cultura, ebbene, voglio condividere queste mie ricchezze con chi è povero, con chi è solo, con chi è triste, con chi è abbandonato, con chi non ha un affetto, una famiglia, una casa, un amore. Vorrei dare il mio sostegno a chi non ha nessuno che lo possa proteggere››.

E ancora è possibile desiderare e lottare per un figlio adottivo nonostante si abbia già uno o più figli biologici per dare più ricchezza e consistenza alla propria famiglia. ‹‹Ho già un bambino ma, se ne adotto altri due, la mia famiglia sarà più ricca e piena››. ‹‹Ho un bambino disabile, vi è il rischio che anche gli altri bambini naturali possano essere portatori di disabilità e allora preferisco adottarne uno sano››.

Altre volte le motivazioni sono molto più banali e criticabili, come il desiderare di adottare un bambino maschio in quanto già si hanno quattro femmine o l’adottare un bambino per essere aiutati nella conduzione dell’azienda o ancora l’adottare un bambino piccolo, quando gli altri figli sono già grandi, per riprovare il piacere del rapporto educativo.

Spesso nel campo dell’adozione si tendono a distinguere le motivazioni positive, che sono poi quelle ritenute utili e corrette, da quelle negative considerate pericolose ed errate, e quindi dannose alla futura relazione adottiva. È nostra opinione che nelle scelte che facciamo ogni giorno il valore della motivazione iniziale sia modesto, tanto modesto da essere superato dagli eventi che intervengono lungo il percorso della vita: soprattutto se è una vita da trascorre insieme ad un bambino. Non vi è dubbio che alcune futili o criticabili motivazioni iniziali siano presenti anche nella genitorialità biologica, senza che venga spesso alterato o compromesso il futuro rapporto genitori-figli, in quanto, molti degli stimoli iniziali hanno la possibilità di essere modificati nel tempo dalla relazione che si instaura, per cui alcune motivazioni sono abbandonate, mentre altre nuove se ne aggiungono.

Le eccessive illusioni.

Ci sembrano più influenti, invece, nelle cause che provocano il fallimento del rapporto adottivo, le eccessive illusioni. Una di queste, la più frequente, consiste nell’immaginare che il bambino adottato, poiché ha trascorso mesi o anni in situazioni particolarmente difficili, fatti di privazione affettiva e/o di violenze, sia fisiche sia psichiche, nel momento in cui viene a lui offerta la possibilità di vivere in una bella, ricca casa ed in una vera famiglia, disposta ad amarlo, rispettarlo, accudirlo, ed educarlo, brami affidarsi felice e grato nelle braccia dei genitori adottivi. In questi casi si sottovaluta il fatto che le privazioni e le ferite che a questi bambini sono state inferte, sono difficili da rimarginare, per cui continuano a manifestarsi per un tempo più o meno lungo, mediante sintomi come l’aggressività, la tristezza, l’irritabilità, l’instabilità, che lasciano nello sconforto e che mettono in crisi anche il genitore più solido e maturo.

Se potessimo leggere fino in fondo nel cuore di questi bambini, scopriremmo che ciò che si agita nel loro animo, ciò che stimola i loro pensieri ed i loro sogni è notevolmente diverso da quanto a livello conscio e inconscio è presente nell’animo dei genitori adottivi. La loro realtà interiore dipende molto dalla storia personale e quindi dalla loro età, dalle esperienze avute, dai ricordi e dalle frustrazioni provate. In definitiva, la loro realtà interiore è fatta di speranze, ma anche di sospetti. È fatta di amore per gli altri ma anche di odio verso gli altri. È fatta di gioie ma anche di sofferenze. È fatta di certezze ma anche di tante paure.

D’altra parte, così come può essere problematica la realtà interiore che si agita nel cuore dei bambini, altrettanto difficili e dolorose sono le aspirazioni dei genitori che vogliono adottare. Pertanto un’altra delle illusioni che vivono i genitori adottivi è il sognare un clima familiare nel quale questi fanciulli con la loro presenza, con i loro sorrisi, il loro affetto, le loro carezze, i loro abbracci, saranno in grado di cancellare rapidamente e completamente ogni frustrazione causata da anni di tentativi di fecondazione falliti, di speranze tradite e di inutili, dolorosi interventi attuati dalla coppia.

La relazione del bambino con i genitori adottivi

Nel momento dell’incontro la qualità della relazione può essere la più varia. La più felice situazione, ma anche la meno probabile, si ha quando un bambino molto piccolo passa, quasi senza accorgersene, dalle braccia di una madre che lo amava, lo curava e che riusciva ad aver con lui un rapporto caldo ed empatico, ad una famiglia matura, serena, pronta e felice di accoglierlo. La più difficile è invece la circostanza nella quale un bambino, per motivi diversi, al momento dell’adozione porta ancora nel proprio animo le numerose e dolorose cicatrici causate da una lunga frequenza in uno o più istituti o in un ambiente familiare improntato a tristezza, solitudine, degrado e violenza. Tra questi due estremi vi sono infinite possibili relazioni.

In alcuni casi il bambino porta nel suo animo un vuoto profondo in quanto non conosce la storia delle proprie origini. In altri casi il bambino adottivo porta ancora nel suo animo la momentanea sofferenza causata dal rifiuto e dall’abbandono. A volte i genitori adottivi sono costretti ad affrontare il dolore e la rabbia di un bambino che ha ancora bisogno di gridare la sua collera per le umiliazioni e per i traumi fisici e psichici subiti. Spesso questi genitori sono costretti ad affrontare il bisogno del bambino di ritrovare i suoi genitori biologici. Non è raro, poi, che i genitori adottivi siano chiamati al difficile compito di lenire la delusione e la sofferenza di minori che non hanno avuto accanto a sé la madre amorevole di cui avrebbero diritto insieme ad un padre serio, maturo, responsabile e protettivo nei loro confronti. Peggio ancora la famiglia adottiva si può trovare costretta ad arginare sentimenti come la collera e la sfiducia verso tutto il genere umano. Sentimenti questi presenti in bambini che hanno convissuto con madri irresponsabili ed incapaci d’amare, con padri egoisti, assenti o peggio violenti e/o con adulti indegni della loro fiducia, incapaci di dialogo, comprensione e amore.

È però altrettanto varia la situazione dei genitori adottivi. Questi, nonostante abbiano ottenuto il decreto di adozione, non sempre presentano quelle qualità un po’ al di sopra della norma che possono permettere loro di affrontare situazioni nuove e spesso complesse. Non sempre hanno la flessibilità, l’equilibrio, la serenità, la capacità di ascolto, dialogo e dono indispensabili. Non sempre hanno risolto le loro problematiche interiori. Non sempre sono supportati da una rete familiare e sociale che li possa aiutare e sostenere.

Vi sono allora: un’adozione facile e un’adozione difficile o impossibile.

È più facile l’adozione:

  • quando i genitori adottanti hanno altri figli propri. Questi genitori, avendo già alle spalle buone esperienza di cure, hanno più capacità e minori illusioni. Inoltre, non provenendo alla genitorialità da realtà stressanti e traumatiche come chi per anni ha provato, sperato e lottato per avere un bambino senza riuscirci, sono più disponibili, sereni e accettanti;
  • quando il bambino è molto piccolo.In questo caso l’attaccamento tra i genitori e il figlio adottivo è più rapido e facile, in quanto l’adattamento reciproco, indispensabile presupposto per una buona intesa, avviene quasi spontaneamente;
  • quando il bambino ha avuto nei primi anni della sua vita una madre sufficientemente capace di entrare in relazione con lui. Avere avuto da parte della madre o di qualche familiare delle cure materne attuate in modo fisiologico e sano, costituisce per il bambino una solida base di partenza per affrontare con più forza e sicurezza anche future difficoltà e traumi;
  •  quando i sentimenti di ognuno dei familiari adottanti, sono sinceri e schietti;
  • se i genitori adottivi non si creano troppe illusioni e sono stati affrontati e interiormente chiariti i loro sentimenti e le loro aspettative;
  • se non vi sono desideri ambivalenti;
  • quando il bambino da adottare non proviene da percorsi istituzionali tristi e frustranti;
  • se nei genitori adottanti sono presenti una buona maturità e serenità interiore. Serenità che potrà permettere loro di vivere con gioia i momenti lieti della vita e con tranquillità, calma, e realistico ottimismo le difficili situazioni che sicuramente non mancheranno;
  • se i genitori adottivi sono capaci di accettare il bambino per quello che è e non per quello che loro vorrebbero che fosse. Quindi, se i genitori adottivi, piuttosto che vedersi come manipolatori del destino dei loro bambini, si vedono come viandanti che accettano, lungo la strada della vita, la compagnia di una persona sconosciuta ma che vogliono scoprire, accettandone le potenzialità ma anche i limiti, consapevoli che ogni bambino, adottato o no, è particolare e originale;
  • se i genitori adottivi sono aiutati e sostenuti da una rete familiare calda, accogliente e disponibile e da servizi socio–sanitari adeguati nell’accompagnare queste particolari relazioni e, contemporaneamente, pronti ad affrontare e rapidamente risolvere le possibili difficoltà che lungo il cammino si dovessero presentare.

L’adozione risulta difficile o impossibile:

  • se il bambino proviene da percorsi affettivi particolarmente dolorosi e frustranti, e pertanto è portatore di notevoli disturbi psicologici o di handicap fisici che risultano difficilmente gestibili dalla coppia adottante;
  • se l’adozione è considerata dalla coppia adottante l’ultima spiaggia per soddisfare il piacere della maternità e della paternità;
  • se persistono nella coppia adottante motivazioni profonde e persistenti legate ad un bisogno inconscio di compensare un vissuto di menomazione della propria femminilità o della propria mascolinità;
  • se il bambino si ritrova con genitori particolarmente ansiosi o emotivamente fragili; o al contrario è costretto a relazionarsi con persone troppo dure, rigide e fredde;
  • quando l’ambiente familiare e ambientale è sospettoso e poco o nulla accettante nei confronti di un bambino diverso, per colore della pelle, per nazione, ceto sociale, credo religioso; o quando questo ambiente familiare e ambientale presenta timori profondi, legati al concetto di ereditarietà morale negativa;
  • se i genitori adottivi non sono pienamente e profondamente convinti di poter diventare genitori a pieno titolo di un bambino non procreato direttamente da loro. Se quindi non hanno fiducia nelle loro possibilità e in quelle del bambino;
  • quando i genitori adottivi non hanno a disposizione dei servizi socio–sanitari capaci di sostenere e aiutare l’instaurarsi di una relazione efficace.

I vissuti dei genitori adottivi

Alcuni genitori adottivi consciamente o inconsciamente si rimproverano ingiustamente di non avere i requisiti necessari per essere una buona madre o un buon padre, in quanto incapaci di potere risolvere abbastanza rapidamente i problemi psicologici presentati dal bambino, soprattutto se questi manifesta le sue sofferenze mediante accuse e continue lagnanze. Da ciò l’autosvalutazione ma anche i sentimenti depressivi.

In altri casi, al contrario, i genitori adottivi sembrano consapevoli solo del bene che hanno fatto al bambino prendendolo in casa e negano decisamente e non accettano che, con il loro modo di porsi nei suoi confronti, possano fargli o avergli fatto del male e quindi essere in parte responsabili del suo cattivo comportamento. Da ciò l’accusa al bambino di non essere a posto, di non essere come gli altri, di non avere quelle qualità e capacità che avrebbe dovuto avere. Questi genitori, pertanto, scaricano su di lui la loro frustrazione mediante continui rimproveri, punizioni e minacce come quelle di riportarlo in istituto. Contemporaneamente accusano l’ente che li ha aiutati nell’adozione di averli “truffati e imbrogliati” dando loro un bambino non perfettamente sano, com’era descritto nella relazione che era stata loro consegnata. In queste occasioni, spesso, si rimproverano di aver fatto delle scelte sbagliate riguardanti l’ente al quale si sono affidati, il paese d’adozione, l’età del bambino, il suo sesso, il periodo nel quale si sono decisi ad iniziare le pratiche per averlo e così via.

Altri genitori adottivi invece temono di aver sopravvalutato la gioia di avere un figlio rispetto ai problemi che questi comporta. Si convincono, inoltre, che il bambino non potrà mai ricambiare tutto l’amore e l’impegno a lui donato e tutte le spese sostenute: sia per le pratiche burocratiche, sia per la sua cura ed educazione.

Vi sono poi dei genitori che amano collegare i comportamenti disturbanti del figlio, i suoi atteggiamenti o le sue frasi “cattive”, la sua irrequietezza, la scarsa disponibilità nei loro confronti, ai geni dei suoi genitori: “immorali, caratteropatici, malati mentali, delinquenti”. ‹‹Come potrebbe essere diverso il figlio di una prostituta?›› ‹‹Cosa aspettarsi dal figlio di un padre ubriacone e da una madre così incosciente da mettere al mondo un bambino per poi abbandonarlo per strada?››

Altri genitori, infine, imputano le difficoltà educative e la difficile intesa con il figlio alla incontestabile realtà che tra di loro non vi è un legame di sangue. Questa mancanza di affinità biologica li rende incerti nei loro comportamenti ed atteggiamenti. Di fronte alle richieste del bambino non sanno come regolarsi. Temono di causare delle frustrazioni ad un essere già provato ma, nel contempo, hanno anche paura che egli possa approfittare delle loro concessioni. Pertanto temono che il comportamento del figlio possa, nel tempo, peggiorare.

Questi ed altri vissuti possono essere anche causa di conflitti tra i coniugi: ‹‹Tu hai voluto per forza questo bambino e mi hai costretto all’adozione. È colpa tua se ci troviamo in queste grosse difficoltà››. Oppure: ‹‹Sei stato superficiale perché ti sei lasciato convincere ad adottare un bambino ucraino quando mio padre ti aveva detto più volte che era meglio un bambino messicano››.

Infine, non sono poche le difficoltà nel fare accettare il bambino adottato quando si hanno già altri figli. Molte volte non basta parlarne prima con loro. Non basta l’informazione, come non basta il loro assenso. Nel momento in cui pensiamo di avviare la procedura di adozione è fondamentale porre attenzione e valutare in maniera sincera, approfondita, seria e senza pregiudizi di sorta, il possibile impatto psicologico che avrà l’inserimento di un nuovo fratello o di una nuova sorella nell’animo e nella vita degli altri figli. Se valutiamo che questo impatto sarà positivo, il loro contributo ed il loro appoggio alla riuscita dell’adozione sarà vero, reale e sostanziale.

I vissuti dei bambini adottati

Poiché l’attività educativa comporta la necessità di dare dei limiti, delle norme ma anche, quando sono indispensabili, delle punizioni, quando i bambini adottati provano rabbia o manifestano reazioni aggressive, è spesso presente in loro il timore di essere ingrati verso chi sta facendo loro del bene. Questo timore può comportare dei sensi di colpa difficilmente gestibili in quanto, pur sforzandosi di essere dei buoni figli, difficilmente possono evitare contrasti, rimproveri, ma anche sentimenti e situazioni di scontro. Da questi contrasti possono nascere delle paure: di non essere pienamente accettati dai nuovi genitori, dai parenti e familiari, dai compagni di scuola, a causa delle loro origini; di essere rimandati e respinti così come hanno fatto i loro genitori naturali o altre famiglie adottanti prima di questa; di non riuscire ad inserirsi in un mondo molto, troppo diverso dal loro per lingua, religione, colore della pelle, abitudini, cultura ecc.

Altri bambini, invece, rimangono come invischiati nei legami affettivi del passato, sia quando questi legami sono stati veri e reali sia se sono stati solo immaginati e sognati. Spesso, nel loro animo rimane stabile e immutato il volto di un padre o una madre buona che non possono e non vogliono tradire inserendo al loro posto un altro padre e un’altra madre, per cui negano nel loro animo di essere stati da questi genitori abbandonati. Altre volte si tratta di una sorellina o fratellino più piccolo del quale si sentono in qualche modo responsabili. In altri casi il saldo e forte legame che rimane nel loro cuore non è quello con i genitori biologici ma quello ancora presente con una o più persone della loro famiglia o dell’istituto dove essi hanno trascorso qualche tempo della loro vita, per cui, ad esempio, temono di tradire le puericultrice che si è occupata di loro nell’istituto dov’erano ricoverati. È come se rimanessero nel loro cuore, acquistando con il tempo una valenza sempre maggiore, gli occhi dolci e affettuosi di quell’educatrice che aveva cura di loro da piccoli o le braccia del compagnetto più grande che, in un momento di tristezza, li aveva consolati o le promesse della zia, del fratello o della sorella maggiore i quali si erano solennemente impegnati ad aver cura di loro.

Queste realtà affettive del passato li fanno sentire come ospiti momentanei nella nuova casa che li accoglie. Anche se a volte queste realtà sono obiettivamente vaghe come fantasmi, rendono difficile l’instaurarsi di un vero e solido legame con i nuovi genitori e con la nuova famiglia, tanto da non riuscire a superare e a scacciare gli altri elementi negativi dovuti all’istituzione. Per tale motivo questi bambini rifiutano consciamente o inconsciamente l’allontanamento e l’adozione per cui, non riuscendo a legarsi ai nuovi genitori, rimangono come in attesa di un evento fortuito che li riporti alla condizione precedente o peggio, con il loro comportamento disturbante ed irrequieto, a volte inconsciamente ricercano e fanno di tutto per essere riportati ai legami e alla realtà del passato.

Queste ed altre dinamiche interiori presenti sia nei genitori adottivi sia nei bambini adottati impongono l’aiuto di esperti psicologi o neuropsichiatri infantili, i quali hanno il compito di individuare e poi risolvere le varie problematiche personali e familiari presenti e attive, non solo al momento dell’adozione ma anche, a volte per anni, lungo tutto il corso della vita del minore.

Adozione felice e adozione problematica.

Adozione felice

Un’adozione che si instaura in modo positivo e soddisfacente dà abbastanza rapidamente i suoi frutti. Il bambino impara gradualmente ma anche velocemente la lingua del luogo. Dopo qualche tempo, a volte pochi giorni altre volte qualche mese, già si lega a uno o ad entrambi i genitori: li cerca nel gioco, li interpella quando ha dei dubbi, esprime loro, chiaramente, i propri desideri, i propri sogni, i propri crucci e le proprie aspirazioni. Se femminuccia imita la madre in alcuni suoi comportamenti e occupazioni. Lo stesso avviene per i maschietti nei confronti del padre. Se grandetto fa già dei progetti per il futuro. Comunica affetto ed ha interesse anche nei confronti degli altri familiari e parenti. Quando al momento dell’adozione sono presenti dei sintomi di sofferenza, questi diminuiscono gradualmente, sebbene possano ripresentarsi in alcuni momenti di crisi.

Allo stesso modo, anche da parte della famiglia adottiva si notano immediatamente dei segnali positivi. Si avverte in uno o in entrambi i genitori il piacere di intrattenersi con il loro figlio nei giochi, nelle uscite, nel dialogo o semplicemente stando abbracciati davanti alla tv. Nei colloqui con gli altri parenti e amici questi genitori, soddisfatti della relazione, tendono a sottolineare le conquiste effettuate dal figlio e gli aspetti positivi del suo carattere e dei suoi atteggiamenti, piuttosto che i problemi che provoca o ha provocato nella coppia e nella famiglia. Questi genitori, inoltre, quando si presenta qualche difficoltà, si attivano rapidamente a risolverla senza lamentarsene con amici e parenti. Pensano di essere stati fortunati nella loro scelta. A volte temono che, per qualche motivo burocratico, il figlio adottivo possa essere loro sottratto e sono pronti a ribellarsi a questa eventualità.

È facile capire dal racconto che l’adozione di Giulia è stata un’adozione felice.

 

Un signore buono che sa perdonare

 

‹‹Un giorno c’era una bellissima giornata in cui c’era un bel sole che splendeva, con delle nuvole tutte insieme in cielo. Poi c’era un albero che dava tanti frutti, l’erba che cresceva velocemente, e c’era un’erba che è cresciuta tutta in una volta. C’erano tante rondini che erano molto grandi, crescevano i fiori ed erano di tanti colori.

C’era un signore che dava tanta acqua e sono cresciute tutte le erbe e gli alberi.

Nell’albero sono cresciute tante arance. Poi c’era il cane che si mise a pestare tutta l’erba, aveva fatto i suoi bisogni e aveva rovinato tutte le cose. Ma il signore non lo rimproverò perché era buono ma il cane non era suo. Il cane era di una bambina che gli aveva dato botte. Il signore le chiese “perché? e lei disse che gli aveva dato botte perché aveva rovinato il giardino. Il signore rimproverò la bambina, dicendole che il cane poteva fare ciò. Da quel giorno la bambina tenne il cane in casa con lei››.

Il disegno che effettua Iulia, una bambina adottata, è come diviso in due da una linea azzurra. Nella parte alta gli uccelli neri troppo grandi, il sole di un colore eccessivamente sanguigno, le tante nuvole, fanno pensare alle tensioni e alle tristezze del suo passato. Mentre la parte inferiore con l’albero che si innalza maestoso verso il cielo, il grande fiore, l’erba e lo sproporzionato fungo, rimandano al suo presente che appare sostanzialmente molto migliore del passato. Dal racconto si evince facilmente che la bambina ha trovato nell’attuale famiglia adottiva qualcuno capace di dare affetto. Affetto che fa crescere bene. (C’era un signore che dava tanta acqua e sono cresciute tutte le erbe e gli alberi). Questo signore viene descritto come buono ecapace di comprendere i comportamenti distruttivi (Poi c’era il cane che si mise a pestare tutta l’erba, aveva fatto i suoi bisogni e aveva rovinato tutte le cose. Ma il signore non lo rimproverò perché era buono). Un signore che era anche capace di comprendere l’aggressività della bambina e la sua facile irritabilità (Una bambina aveva dato botte al cane). Ed è proprio per questa comprensione che la bambina, essendo più serena e sicura ha la possibilità di modificare le sue relazioni e riesce a contenere l’aggressività (Da quel giorno la bambina tenne il cane in casa con lei).

Adozione problematica

Un’adozione si preannuncia problematica quando comporta frequentemente delle sofferenze notevoli sia per i genitori sia per i minori. In questi ultimi, i sintomi presentati al momento dell’adozione, piuttosto che diminuire si accentuano. Cresce l’instabilità, l’irritabilità, la chiusura, la sfiducia negli altri, la dolorosa sensazione di sentirsi abbandonati. Questi bambini hanno difficoltà ad addormentarsi; la quantità ma anche l’intensità delle paure, o peggio delle fobie, non tende a diminuire nel tempo ma anzi si accentua; non avendo fiducia nell’ambiente che li circonda ma anche in se stessi, rifiutano di imparare la lingua del paese in cui si trovano; non vogliono andare a scuola; hanno un comportamento oppositivo, irritante, irriguardoso e, a volte, aggressivo e violento con gli oggetti ma anche con gli animali, le persone e gli stessi genitori. Se sono stati adottati due fratelli questi tendono a chiudersi in coppia piuttosto che a cercare, anche con manifestazioni di gelosia, l’amore o l’attenzione esclusiva di uno o di entrambi i genitori. Questi ultimi, d’altra parte, non mancano di manifestare in molte occasioni il loro disappunto per i tanti comportamenti giudicati impropri, anormali o semplicemente disturbanti e se ne lamentano tra di loro, con i parenti e gli amici. I genitori adottivi nel momento in cui consultano un neuropsichiatra, un pediatra o uno psicologo, durante il colloquio non riescono a trovare che disabilità, limiti e problemi nelle caratteristiche del figlio adottato. Poiché questi limiti e questi problemi sono giudicati difficilmente superabili o gestibili, si sentono non protagonisti di una relazione anche se difficile, ma ignare e inconsapevoli vittime di questa. Pertanto agli specialisti più che consigli sulle modalità migliori per rapportarsi con il figlio, chiedono decisive terapie psicologiche o farmacologiche atte a risolvere in breve tempo i tanti problemi lamentati.

Lo scarso legame esistente tra loro ed il figlio si manifesta anche con dei comportamenti con i quali cercano di diminuire al massimo il rapporto con quest’ultimo: lo iscrivono immediatamente a scuola, cercano per lui una ‹‹buona sistemazione›› per le ore pomeridiane mediante l’aiuto di un’insegnante di doposcuola, di un logopedista o di un psicologo. Oppure più semplicemente lo iscrivono in un club sportivo o in una scuola di musica o danza. In alcuni casi il rifiuto diventa netto, per cui si sentono costretti a chiedere all’ente che li ha assistiti nell’adozione un bambino migliore e più sano.

 

[1] Nel 2010 sono stati adottati 4130 bambini provenienti dall’estero. Nel 2006 è stata rilasciata l’autorizzazione d’ingresso in Italia a 3188 bambini stranieri.

Il bambino ed il gioco

Emidio Tribulato "Il bambino ed il gioco"

 

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Uno degli elementi fondamentali per un'infanzia soddisfacente e ricca è la possibilità di giocare. Il gioco è forse l'elemento comune più importante e frequente tra gli animali superiori. Vi è, inoltre, un rapporto diretto tra sviluppo intellettivo e cognitivo dell'essere vivente e l'attitudine a giocare. Gli animali inferiori, che hanno istinti ereditari già prefissati, non giocano affatto. I loro piccoli si comportano come gli adulti fin dall’inizio della loro esistenza e pertanto il patrimonio della specie non ha ulteriori sviluppi. Inoltre, le capacità degli animali sono in relazione alla quantità e alla durata che essi dedicano al gioco, in quanto è attraverso di questo che essi acquisiscono sempre di più esperienze. Il piccolo agnello gioca poco, il gattino molto di più, gli scimpanzé giocano anche da adulti, ma nessuno ha la capacità di giocare con tanta continuità ed assiduità come il piccolo dell’uomo.[1]

Ma anche l'adulto, uomo o donna che sia, non riesce a fare a meno del gioco in alcuni momenti della giornata, in quanto questa attività gli permette alcuni necessari e indispensabili momenti di scambio, evasione, rilassamento, piacere e gioia. Mediante il gioco, inoltre, l'adulto cerca di tenere ben allenato sia il cervello sia il corpo.

Per il bambino il gioco rappresenta la strada maestra per la sua crescita. Pertanto il gioco è:

  • ·         Piacere. Il bambino gode di tutte le esperienze fisiche e affettive vissute durante il gioco.
  • ·         Strumento di esplorazione e conoscenza. Del proprio corpo e del corpo degli altri, degli oggetti inanimati, del mondo che lo circonda e della natura. Il gioco è anche esplorazione e conoscenza delle emozioni e dei sentimenti.
  • ·         Stimolo allo sviluppo motorio e intellettivo. Mediante il gioco il bambino stimola e sviluppa il suo pensiero, la progettualità, l’agilità, la forza, la memoria, la coordinazione occhio-mano, la spazialità.
  • ·         Veicolo privilegiato di comunicazione e socializzazione. Con il gioco il bambino allarga il contesto delle sue relazioni; apprende a comunicare più efficacemente con gli altri. Comprendendo il punto di vista di chi ha di fronte, diventa consapevole dei suoi sentimenti e dei suoi bisogni. Impara l’importanza delle regole e la loro accettazione. Il gioco allarga i primi scambi sociali del bambino con gli adulti e, fino ai tre anni, è la sua sola modalità relazionale.
  • ·         Mezzo per lo sviluppo della creatività e della fantasia. Mediante oggetti semplicissimi: qualche legnetto, poche pietre, un po’ di fango, oppure mediante una matita e qualche foglio uniti a tanta immaginazione e inventiva il bambino riesce a costruire mille favole e mille storie, nelle quali si muovono eroi e principesse, draghi e macchine volanti, robot e armi spaziali.
  • ·         Contatto e controllo delle proprie emozioni. Giocando con gli altri il bambino riconosce la gioia della vittoria, il sapore bruciante della sconfitta, il calore dell’amicizia, dell’affetto e dell’amore. Impara ad affrontare i piccoli contrasti e le tensioni che si avvertono nel rapporto con se stessi e con il prossimo. ‹‹Allorché assume la veste di gioco simbolico, drammatico, di ruolo e di finzione assolve, attraverso rituali iterativi e meccanismi di identificazione e di proiezione, ad una preziosa funzione liberatoria e terapeutica, esorcizzando paure e angosce e liquidando impulsi aggressivi, distruttivi e vissuti di ostilità››.[2] 
  • ·         Palestra per l’autonomia personale e sociale. È anche mediante il gioco che il bambino acquista fiducia in se stesso e negli altri e quindi impara a fare a meno dell’aiuto e del supporto continuo dei genitori nei suoi bisogni quotidiani.
  • ·         Occasione per la sua formazione morale e civile. Nel gioco di gruppo, governato da regole fisse e cogenti, il soggetto impara a osservare le norme, a improntare il proprio comportamento a principi di lealtà, di correttezza e di rispetto per l’avversario. Apprende a testimoniare atteggiamenti di fedeltà al proprio gruppo o banda. Riconosce l’importanza dell’avvicendamento, della cooperazione, della distribuzione dei compiti, della turnazione. Tutte queste acquisizioni confluiscono nel più ampio capitolo della formazione dell’uomo e del cittadino. 
  • ·         Occasione per rafforzare la volontà. Molti giochi di pazienza, di costruzione, competitivi, di squadra, rafforzano la volontà, plasmano il carattere, servono anche ad instaurare un progressivo controllo sulle proprie emozioni e pulsioni. 
  • ·         Opportunità per recuperare un contatto con la natura.  Il rapporto diretto con la natura è fondamentale nello sviluppo dei minori, come degli adulti. Per milioni di anni l’essere umano si è sviluppato attraverso il contatto con i fiori e i frutti delle piante, con la vivacità e l’amore degli animali, con le acque dei fiumi e dei ruscelli.

I vari tipi di giochi

 

 

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I primi giochi del bambino, che sono poi giochi di esplorazione della realtà nella quale si trova immerso, sono fatti con la madre e con il proprio corpo. Quando la mamma lo nutre egli tocca e stringe il seno di lei e, successivamente, il viso e i capelli. Più tardi egli giocherà con le proprie mani e con i propri piedi. Sono i giochi sensomotori o giochi – esercizio, mediante i quali il bambino perfeziona i movimenti, i gesti, costruisce gli schemi motori.

Il bambino, inoltre, mediante l’imitazione dei suoni, della mimica facciale, e poi delle parole, impara a riconoscere e poi ad esprimere le emozioni. Gli aspetti presenti nel gioco possono essere quindi di vario tipo. Diffusissimi i giochi nei quali i bambini sono stimolati a costruire qualcosa (giochi di costruzione) o quelli nei quali si cimentano a confrontarsi con i loro coetanei ma anche con i genitori e gli adulti, nei quali bisogna utilizzare l'attenzione, la bravura, l'agilità, le conoscenze (giochi di abilità). Se un bambino, mentre la sua mamma spolvera o lava la casa, le chiede una pezzuola per aiutarla, siamo in presenza di un gioco imitativo. Lo stesso quando due amichette si ritrovano insieme per vestire i loro “figli” e poi preparare loro un buon pranzetto e infine portarli a passeggio o a letto dopo averli cullati a lungo. Se dopo aver visto un film o un cartone animato, un bambino si arma di spada e scudo spaziale ed è pronto a lottare con il suo amichetto per salvare il mondo, siamo in presenza di un gioco rappresentativo. Quando un bambino piccolo e fragile si finge adulto forte, così da correggere la realtà modificandola in funzione dei suoi desideri, siamo in presenza di un gioco compensativo. Vi sono poi i giochi che hanno la funzione di eliminare le esperienze penose o inquietanti, di compensare le frustrazioni rivivendole per mezzo della finzione (giochi funzionali).

Nei giochi sociali il bambino sperimenta azioni, emozioni e comportamenti di persone, situazioni e ruoli. Quando gioca alla mamma e al papà assume gli stessi atteggiamenti dei genitori, e acquista una certa comprensione di quello che loro dicono e fanno. Si sviluppano in tal modo le capacità empatiche che permettono di mettersi nella prospettiva dell’altro. In quei momenti sente come propri il loro potere e le loro infinite doti. Questo tipo di giochi sviluppa le abilità sociali, il senso del sé, acquisisce e perfeziona le norme che regolano la condotta umana.

Nei giochi il bambino può attuare tutto quello che non può fare nella realtà. Ed è lo stesso mondo dei giochi che diventa una specie di rifugio dalle continue esigenze del mondo esterno, al quale potrà tornare più disteso.[3] Ma i giochi non sono soltanto imitazione. Quando copia la mamma che cucina, cuce, fa la spesa, cura i piccoli, non solo imita la propria madre o le madri in generale, ma sperimenta nuove modalità di comportamenti ed atteggiamenti filtrati dalla sua personalità e dai suoi bisogni individuali. In altri giochi è la fantasia ad essere utilizzata e messa in primo piano per costruire fortezze e castelli nei quali vivono fate, re, regine e draghi, ma anche eroi pronti a salvare i più deboli e indifesi (giochi immaginativi). Nello spazio di due ore il bambino di due anni e mezzo partecipa in media a sei - sette situazioni immaginarie. Per finire egli ama anche i giochi didattici nei quali è predominante il piacere di imparare (giochi di acquisizione).

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Giochi guidati

 Giochi liberi

Giochi liberi autogestiti

I giochi possono essere liberi o guidati dai genitori o da altri adulti.

Entrambi sono utili ma sono nettamente da preferire i giochi liberi, in quanto permettono al bambino di utilizzare questo primario strumento formativo tenendo conto dei suoi reali bisogni del momento. La capacità e la disponibilità dell'ambiente che circonda il bambino nel permettere e favorire il gioco libero è, pertanto, fondamentale non solo per lo sviluppo delle sue qualità motorie: riflessi, rapidità, gradualità e coordinazione motoria, ma anche per l'acquisizione di elementi di tipo culturale, psicoaffettivo e sociale, indispensabili per stabilire con i coetanei, con gli adulti e con l'ambiente nel quale vive, un rapporto sereno e dialogante.

 

Il Gioco Libero Autogestito


In questo particolare tipo di gioco il protagonista il bambino. Egli sceglie il gioco da effettuare, il tempo da dedicare a questo gioco, con quale altro gioco o attività sostituirlo, se fare giocare l'adulto oppure no. L'adulto, quando richiesto o accettato dal bambino collabora con lui, lo aiuta nel gioco scelto dal minore.

Questo tipo di gioco è indispensabile attuarlo quando il disturbo psicologico del bambino è particolarmente importante (bambini con sintomi di autismo, bambini con disturbi comportamentali, bambini gravemente instabili) per cui non riuscirebbe a giocare in modo costruttivo con  i propri coetanei, utilizzando il gioco libero oppure non accettano e rifuggono dal gioco guidato con gli adulti.

Per quanto riguarda i compagni di gioco questi possono essere della stessa età (giochi con i pari) o di età diverse. Anche in questo caso le modalità e gli scopi del gioco sono differenti. Quando i compagni di gioco hanno la stessa età o sono di età vicina alla sua, il bambino può attivarsi in modo più libero, sviluppando la fantasia e, durante la rappresentazione del gioco, può effettuare delle esperienze di relazioni sociali.[4] In tutte le società dov’è possibile il gioco libero con i coetanei, si forma una spontanea cultura dei giochi che si tramanda da una generazione all’altra. Ciò purtroppo non avviene quando il gioco è organizzato dagli adulti o ancor peggio, è imposto dagli strumenti elettronici o dalle mode del momento.

Bisogna, inoltre, valorizzare anche il gioco solitario. Se il bambino ha bisogno del contatto con gli altri ha anche bisogno di solitudine, di tranquillità, di attività autonome durante le quali, pasticciando nel suo angolino, con i suoi tesori personali, egli fa importanti scoperte e impara ad agire senza essere motivato o guidato dagli altri.[5]

Il gioco dei bambini oggi

Nelle cosiddette “società avanzate” le possibilità di gioco dei bambini sono drasticamente diminuite. Tutto sembra concorrere a limitare i giochi liberi con il gruppo dei pari.

Intanto sono diminuiti notevolmente i cortili e gli spazi attorno alle case e vicino alle case dove i bambini potevano, in passato, organizzandosi per conto proprio, giocare liberamente con materiali scelti da loro stessi sul posto.

Anche l’utilizzo degli spazi verdi predisposti dai Comuni richiede ai genitori una disponibilità che spesso non hanno, in quanto è necessario che almeno uno dei genitori sia libero. Ciò è sempre più difficile in una società nella quale il lavoro ha invaso, con Internet, anche il tempo libero e le domeniche. Inoltre, a causa delle aumentate ansie dei genitori per la salute fisica dei bambini, per uscire di casa non vi deve essere troppo freddo ma neanche troppo caldo ed è necessario avere la macchina a disposizione. Ma anche quando il bambino viene portato presso la villetta del paese o della città, non riesce ad organizzare dei giochi liberi e spontanei, a causa della presenza di coetanei sempre diversi. Il più delle volte, non avendo alcuna possibilità di vera socializzazione e reale scambio comunicativo, il bambino è costretto, in modo anonimo, a servirsi dei soli giochi messi a disposizione dal Comune.

In compenso, è aumentato il traffico di auto che rendono pericolose le strade e di moto le quali riescono a entrare rombando anche nei luoghi più difficili e delimitati.

A causa del calo delle nascite, dei compiti scolastici sempre più numerosi e delle varie attività sportive, musicali o sociali che il bambino deve effettuare in quanto programmate dai genitori o dalle scuole, scarseggiano i bambini della stessa età e dello stesso sesso con i quali poter giocare.

Sono notevolmente aumentate le paure dei genitori e familiari a causa di trasmissioni televisive che amano ripercorrere per mesi i più truci fatti di cronaca, specie quando a questi fatti sono interessati dei minori. Per non parlare del pericolo dei pedofili che, in base a quanto viene riferito in certi periodi dalla TV e dai giornali, sembrano nascondersi dietro ogni angolo di casa. Ciò comporta un’amplificazione notevole di ansie e paure che impediscono a molti genitori di lasciare giocare liberamente i propri figli vicino o attorno alla propria casa o nel proprio quartiere.

È notevolmente aumentato il tempo trascorso dai bambini davanti alla TV, alla consolle dei videogiochi, o alla tastiera del computer, del telefonino e degli altri strumenti elettronici.

È diminuita la presenza dei genitori in casa, sia a causa del lavoro, sia per le sempre più numerose separazioni e divorzi che comportano spesso, per la gestione del minore, la presenza di un solo genitore.

Anche a voler giocare all’interno delle case queste, proprio perché più ricche di ninnoli e oggetti di pregio come tappeti, quadri, mobili costosi, mal si adattano all’impeto infantile e accentuano nei genitori il timore che il piccolo possa danneggiare questi pregiati oggetti. Ciò spinge i genitori a limitare notevolmente il gioco libero, preferendo che i bambini stiano “buoni e tranquilli” davanti ad uno schermo, non importa quale.

 Le conseguenze.

La notevole diminuzione se non la scomparsa, del gioco libero tra pari ha una notevole ripercussione sia sulle capacità motorie dei bambini sia soprattutto sul loro sviluppo sociale, relazionale ed affettivo.

Poiché sempre più spesso essi sono lasciati a casa, liberi di utilizzare anche per ore solo i vari strumenti elettronici, o sono lasciati a scuola per il tempo pieno, il tempo prolungato o presso insegnanti di doposcuola, si evidenziano sempre più frequentemente numerosi segnali di stress o chiari disturbi psicoaffettivi con ansia, irritabilità, instabilità motoria, disturbo delle capacità di attenzione, scarso rendimento scolastico.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -(Volume unico)

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[1] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 21.

[2]  A. NOBILE, “Gioco e famiglia” In La famiglia, anno XXVIII, luglio – agosto, 1994, p. 52.

[3]  Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 71.

[4]  Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 104.

[5]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 136-137.

 

 

Il bambino durante l'età scolare

Emidio Tribulato

L'età scolare

 

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Quando il bambino passa dalla scuola dell'infanzia alla scuola elementare, sperimenta un'ulteriore trasformazione della sua vita sociale. Le sue energie si distolgono dai rapporti intimi con la sua famiglia e sono investite in due attività principali: i rapporti tra pari e l’istruzione. Questo periodo, che va dai sei –sette anni, ai dodici anni, si chiama periodo di latenza in quanto i desideri erotici, le gelosie e le paure della prima infanzia ad esse collegate non si evidenzieranno più, finché i mutamenti psicologici e sociali della pubertà li faranno di nuovo rivivere.

Nell’età scolare il bambino è costretto ad adattarsi a persone diverse dai suoi genitori, la cui immagine si riduce progressivamente. In questo periodo, inoltre, egli perde l'egocentrismo, l'animismo, la logica precausale e la morale autoritaria. Nei suoi rapporti sociali può manifestare un atteggiamento democratico e cooperativo.[1] Diventano possibili le discussioni, per cui il bambino dà valore non solo alle idee proprie ma anche a quelle degli altri bambini. Nei suoi ragionamenti tiene conto di ciò che osserva. Comincia a capire che le parole, le regole e i pensieri, sono distinti dagli oggetti e dalle attività concrete del mondo. Nelle spiegazioni dei fenomeni fisici usa i concetti di tempo, forze e utilizza la logica reale. [2] Scopre la vita sociale ed il rispetto reciproco,[3] in quanto è costretto ad adattarsi ad un contesto ampio e variegato con delle persone diverse. Fa l’esperienza di un ambiente che si presenta, dal punto di vista affettivo, molto più indifferente verso di lui rispetto a quello vissuto in famiglia con i suoi genitori. Nella classe e nella scuola egli è solo uno dei tanti, fa parte di un gruppo, è alla pari con gli altri e non è più, com’era prima in famiglia, l’oggetto preferito di tenere premure. Deve adattarsi a inevitabili costrizioni cui non è abituato. Questo svezzamento affettivo, se non è eccessivo e se il bambino è abbastanza forte per sostenerlo, lo rende più vigoroso ed autonomo. A questa età la competizione diventa intensa. I paragoni con i suoi compagni riguardano l'intelligenza, la simpatia e la bravura. [4]

 Le amicizie.

Questa è anche l’età nella quale entrano in gioco dei forti legami affettivi e di intimità con l’amico o l’amica del cuore con i quali è bello parlare, sedere accanto nello stesso banco, ritrovarsi dopo la scuola a casa dell’uno o dell’altro, vivere insieme le feste di compleanno. In tal modo viene ad essere rafforzato il senso di sicurezza: ‹‹Oltre la mamma e il papà vi è anche Giulio che mi può aiutare e sostenere perché è mio amico .›› A ciò si aggiunge una chiara e netta identità e ruolo sessuale. Noi siamo maschi e quindi…ci comportiamo da maschi.

La preadolescenza.

Nella preadolescenza, che inizia verso gli otto anni e mezzo, gli amici assumono sempre più importanza. Essi non sono solo utili per giocare, ma diventano affettive realtà, preziose per il dialogo ed il confronto. Gli amici ci permettono di vederci con gli occhi di un altro coetaneo. Con loro è possibile parlare di tutto: ci si può confidare della propria vita intima, dei rapporti con i genitori e con gli insegnanti. Con loro è anche possibile discutere delle difficoltà che si possono incontrare con il gruppo dei pari. Agli amici si vuole bene e, pertanto, vi è da parte del preadolescente lo sforzo di venire incontro ai loro bisogni e alle loro necessità. Il legame che li unisce a loro è saldo, forte e intenso di emozioni. Quando essi si allontanano, per percorrere altre strade con altri coetanei, il preadolescente avverte gelosia e dolore. Invece quando preferiscono loro ad altri compagni di gioco, si sentono orgogliosi e sicuri. Con gli amici collaborano per risolvere i problemi che possono farli soffrire. Con essi riescono a trovare dei compromessi anche perdendo qualcosa di proprio. Soprattutto nel gruppo dei maschi, con gli amici si organizzano dei giochi o si formulano dei piani per raggiungere determinati obiettivi, nei quali si mette a confronto forza, agilità, coraggio, intraprendenza.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -(Volume unico)

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[1]  Cfr. J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 47.

[2] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando Armando Editore, 1970, p. 21

[3] Cfr. J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 63.

[4] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando Armando Editore, 1970, p. 28.

 

 

 

 

Il bambino dai tre ai cinque anni

Emidio Tribulato

Durante tutta l’età evolutiva vi è fame affettiva.

Questa sarà soddisfatta fino ai diciotto venti mesi prevalentemente dalla madre; successivamente le richieste affettive del bambino coinvolgono tutto il nucleo familiare: padre, zii, fratelli, cugini. A questa età egli non è più membro di una coppia, ma membro di un gruppo. Soddisfare questa sua fame affettiva è condizione necessaria ed indispensabile per una normale crescita psicologica. Quando ciò non avviene la carenza affettiva si manifesterà con i sintomi caratteristici dell’età. Ad esempio, con atteggiamenti di opposizione, ansia, insicurezza, comportamenti aggressivi, enuresi, encopresi, crisi di pavor nocturnus, isolamento ecc..

Mentre fino ai tre anni, come abbiamo detto, il rapporto con i coetanei è modesto e poco produttivo, dal terzo anno in poi il bambino inizia a prenderli in considerazione in modo positivo e riesce a scambiare e comunicare con loro in modo efficace e sereno. Con i suoi compagni, che prima vedeva come elementi di disturbo, adesso riesce ad organizzare qualche gioco semplice. Ad essi può, ora, spiegare i suoi bisogni ed i suoi svaghi. Può raccontare quanto avviene attorno a lui, nella sua casa e nella sua famiglia. Può proficuamente attirare la loro attenzione.

L’età dei perché.

È sempre a questa età che il bambino non cerca soltanto il nome degli oggetti ma la loro funzione ed il loro uso. È l’età dei perché. Con le domande il bambino acquisisce una miriade di informazioni, ma nel contempo ha la possibilità di attirare l’attenzione degli adulti e di dialogare con loro, così da trovare mediante il contatto affettivo serenità e sicurezza. [1]

In questo periodo la madre cerca di insegnare al figlio il controllo delle feci, così da rimanere pulito. Il bambino, pertanto, capisce che le feci possono essere trattenute e lasciate andare. Se la madre è buona con lui e se vi è un buon rapporto tra i due, è bello soddisfare i suoi desideri e ciò dà soddisfazione e orgoglio al bambino in quanto, se non si sporca, la madre lo approva ed elogia e lui si sente fiero.  Ma se ciò non avviene, se la cacca gli scappa ancora nel pannolino e la madre è costretta a pulirlo prova vergogna e umiliazione in quanto avverte la disapprovazione della madre e degli altri familiari. [2]

In questo periodo il bambino è in grado di ricordare i divieti dei genitori ogni qualvolta sorge nella sua mente un impulso proibito. I suoi genitori e le norme e regole ad essi collegati, diventano, gradualmente, la voce della sua coscienza. Pertanto il senso di colpa diventa grande quando le norme, le direttive ed i divieti, sono eccessivi e gli atteggiamenti autoritari sono frequenti. Poiché, inoltre, per il bambino di questa età, ogni misfatto presuppone una giusta punizione, in quanto per lui vige la legge del taglione, egli si aspetta la giusta sanzione e quando questa non viene dall’esterno si autopunisce.[3]  

A questa età il suo mondo interiore comprende ora anche il futuro. Il bambino impara, pertanto, a rimandare la immediata soddisfazione dei suoi desideri. Egli è capace di attendere: ‹‹dopo››, ‹‹domani››, ‹‹quando sarò cresciuto››, ‹‹quando sarò grande.››

I confronti.

Sempre a questa età i bambini cominciano a confrontarsi e a confrontare. Confrontano, rispetto a quella degli altri compagnetti, la propria statura, i propri muscoli, l’età, il sesso, la composizione della propria famiglia: ‹‹Io sono più forte.›› ‹‹Io sono più grande di te.›› ‹‹Mio padre è più forte del tuo.›› ‹‹Io ho tre fratelli, tu ne hai uno solo.›› Nel contempo acquistano consapevolezza della propria identità sessuale: ‹‹Sono maschietto››, ‹‹Sono una femminuccia.›› Questa consapevolezza li spinge ad esplorare il proprio corpo e quello degli altri. Ad imitare il genitore dello stesso sesso e a provare verso il genitore del sesso opposto un vivo desiderio di avere con lui un rapporto esclusivo: inizia la fase edipica.

Fase edipica.

In questa fase dello sviluppo psicologico il bambino per Freud sviluppa un intenso amore nei confronti del genitore di sesso opposto. Nel caso del bambino maschietto questi, amando la madre, è geloso del padre del quale vorrebbe la morte. Ma poiché questo suo amore è impossibile, in quanto la madre ama e continua ad amare il padre e poiché da quest’ultimo egli teme la violenza sul suo corpo (minaccia di castrazione), il bambino si trova costretto a rivolgere altrove i suoi desideri amorosi mentre nel contempo è stimolato a recepire tutte le caratteristiche paterne (identificazione con il padre), per poi proporre con successo le profferte amorose al di fuori della sua famiglia.

Il processo di identificazione è importante in quanto mediante l’identificazione il bambino prende su di sé le caratteristiche della persona adulta del suo stesso sesso e quindi assimila la dolcezza, le capacità di cura, la tenerezza materna oppure la forza, la determinazione, la sicurezza, paterna. In ogni caso egli si sente più adulto e quindi più adeguato e capace.[4]

La fase edipica, che ha importanti risvolti positivi in quanto migliora e definisce meglio sia l’identità sia il ruolo sessuale, mancherà delle sue funzioni se tra i genitori non vi è l’armonia e la stima dovuta e se il genitore dello stesso sesso non ha una buona accettazione della sua mascolinità o femminilità. Per OSTERRIETH ‹‹Esistono pochi altri momenti nella vita del bambino in cui è ugualmente importante per lui avere dei genitori affettivamente equilibrati, che formino una coppia unita: il padre veramente virile, la madre veramente femminile; entrambi sufficientemente sicuri di se stessi da accogliere, con la stessa calda serenità la espressione dei sentimenti, a volta a volta teneri o ostili del bambino, e capaci di non fissare malaccortamente il bambino nel suo complesso edipico, accrescendo sia la sua aggressività sia il suo attaccamento e, in ogni modo, il suo sentimento di colpa.››[5]

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -(Volume unico)

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[1] Cfr. P. A. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 91.

[2] Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970, p. 24

[3] Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970, p. 27.

[4]  R MILITERNI, Neuropsichiatria infantile, Editore Idelson Gnocchi, Napoli, 2004, p. 98.

[5]  P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 120.

 

 

 

Il secondo anno di vita del bambino

La conquista del linguaggio.

Nel secondo anno di vita, che coincide con l'inizio della fanciullezza, si fa strada il linguaggio verbale infantile. Già nei primi mesi, ancor prima di emettere parole che abbiano un senso compiuto anche per gli adulti, il bambino per giocare si serve della sua voce, ripetendo continuamente dei suoni che impara imitando i suoni della voce emessi dalle persone del suo ambiente.

Si accorge del valore sociale dei suoni che emette quando, ad esempio, si mette a piangere e a strillare e la mamma accorre verso di lui; o quando vagisce e gorgoglia e lei ride contenta. Dalle reazioni delle persone ai suoi versi egli comincia a collegare determinati suoni con determinati effetti. Impara anche a riconoscere questi stessi suoni quando sono emessi dagli altri. Apprende a distinguere se una voce è ansiosa, arrabbiata, triste o carezzevole. Riesce a discriminare un sorriso od un volto rabbuiato da uno giocoso e sereno. Cosicché ad ogni tipo di comunicazione verbale, gestuale o mimica, reagisce in maniera adeguata. Ben presto comincia a servirsi di suoni abbastanza determinati per esprimere sensazioni e desideri precisi. In una fase successiva è pronto ad usare un vero e proprio linguaggio.[1]

Il bambino è stimolato ad apprendere i suoni e a parlare, spinto dal bisogno di comunicare meglio con gli altri così da poter chiedere, cercare, raccontare. Egli, essendo un essere umano, non si accontenta di conoscere il sapore, l'odore, la consistenza o il peso, egli ha fame di sapere e di conoscere anche il nome degli oggetti, delle persone, degli animali e degli elementi della natura che sono attorno a lui e che con lui interagiscono. Il poterli denominare sazia il suo bisogno di conoscenza, ma ha anche lo scopo di avere un controllo e un potere su di loro. Se conosce i loro nomi è come se potesse direttamente o indirettamente gestirli.

Accanto al linguaggio verbale e mimico i genitori, ma soprattutto la madre, costruiscono anche il linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Questo tipo di comunicazione è indispensabile per entrare in contatto vero e profondo con gli altri, così da capirli, amarli, ed essere loro vicini. Da questo tipo di comunicazione più intima e profonda si sviluppa il mondo del cuore, dal quale scaturiscono i sentimenti di amicizia, di amore, ma anche la futura disponibilità, generosità, sensibilità, accoglienza, fiducia e tenerezza. Il linguaggio serve quindi anche a costruire e sviluppare nel bambino il mondo dei sentimenti e delle emozioni, il mondo degli affetti e delle relazioni, il mondo delle cure e delle attenzioni.

Anche se il bambino non è mai totalmente passivo, è con lo sviluppo del linguaggio verbale che la sua azione sul mondo diventa più decisa ed incisiva. Non è solo la madre o gli altri che lo curano che ha il potere di scegliere cosa è bene per il suo bambino, ma è lui che comincia a selezionare ciò che gli piace e ciò che non gli piace, ciò che lo rende felice e ciò che lo intristisce, ciò che lo entusiasma e ciò che lo annoia.

Quando allontana deciso la tazza nella quale la madre ha messo il latte e chiede “Tazza zia”, dà agli altri, alle persone che gli vogliono bene e che sono a lui vicine, una indicazione ben precisa, non solo di ciò che non desidera ma anche su cosa è caduta la sua scelta: ‹‹Io voglio il latte nella tazza che mi ha regalato la zia.››

In un momento successivo, poiché ha bisogno di capire il mondo che lo circonda e come meglio rapportarsi con esso, non gli interessa soltanto il nome degli oggetti ma anche il loro uso ed il loro scopo. ‹‹A che serve? ›› ‹‹Come funziona? ›› ‹‹Com’è fatto?›› ‹‹Cosa c'è dentro?›› Egli si interessa anche dei rapporti che esistono tra gli oggetti, le persone e gli animali che lo circondano o suscitano il suo interesse: ‹‹Chi è più grande? Chi è più piccolo? ›› ‹‹Chi è più buono? Chi è più cattivo?.›› ‹‹Chi è più forte, chi è più debole?›› In tal modo scopre i legami che esistono tra le persone, gli animali e le cose. E’ interessato, inoltre, a capire il rapporto che hanno tutti gli oggetti nei suoi confronti o nei confronti della sua famiglia. E se noi siamo disponibili all’ascolto, per lui non vi è niente di più bello che farci partecipi delle sue scoperte, delle sue conoscenze e dei suoi trionfi.

In definitiva, nell'uomo, sono i vari tipi di comunicazione: verbale, mimica e gestuale gli strumenti indispensabili per la crescita e per la formazione del nuovo essere vivente.

Il suo mondo interiore

Nel momento in cui il bambino inizia a parlare e a comunicare i suoi pensieri, si evidenzia il suo mondo interiore in cui prevale l'animismo, l'egocentrismo e la logica precausale.

Nella fase dell’ animismo[2]ai suoi occhi le cose non solo sono viventi ma possiedono anche intenzionalità, sentimenti e pensieri propri. Il mondo psicologico ed il mondo fisico sono tutt’uno. Non vi sono cause naturali. Il vento soffia perché lo desidera. Il tavolo contro cui il piccolo ha battuto la testa è cattivo perché gli ha fatto male e quindi merita una giusta punizione.

Nella fase dell’egocentrismo che per Piaget si prolunga fino ai sette anni, vi è la tendenza da parte del bambino a ricondurre tutto alla propria persona e alle proprie esperienze. In questa fase i piccoli credono che ciò che li riguarda occupi un posto privilegiato nella mente degli altri. A questa regola non si sottraggono neanche le cose inanimate: ‹‹Perché, papà, quando cammino la Luna mi segue?›› ‹‹E' vero! la Luna è gentile ad illuminarci durante la notte se no dovremmo restare al buio, e lei sa che io ho paura del buio! .›› ‹‹Perché, mamma, la palla non vuole rotolare verso di me?.›› ‹‹Sai papà la sedia, poverina, si è rotta e soffre: tu che sei medico la puoi sicuramente aggiustare, vero?››

La sua logica è di tipo precausale, e quindi non scientifica in quanto il bambino non ragiona a partire dalle sue osservazioni, ma in base a un modello interiore del mondo. Egli accetta spiegazioni false, sia che provengano dai genitori sia che nascano dai suoi personali desideri o dalle sue aspirazioni. Fino ai tre anni il bambino vive come in un mondo di fiaba in cui gli animali, le piante ma anche gli oggetti possono parlare, avere una loro volontà, essere buoni o cattivi. Inoltre, poiché i bambini di questa età credono nella magia delle parole, queste hanno lo stesso potere delle azioni. Se il bambino pensa che la madre muoia o che al padre succeda qualcosa di male, ne avrà un senso di colpa in quanto i suoi pensieri potrebbero tradursi in realtà.

 La comunicazione

La comunicazione con se stesso e con i coetanei ha caratteristiche particolari: monologo, monologo intellettivo e monologo collettivo.

Per PIAGET ‹‹Il bambino piccolo non parla soltanto agli altri, parla in continuazione anche con se stesso, con monologhi variati che accompagnano i suoi giochi e le sue azioni. Questi monologhi sono paragonabili a quello che sarà più tardi il continuo linguaggio interiore dell’adulto e dell’adolescente, questi soliloqui ne differiscono tuttavia per il fatto che sono pronunciati ad alta voce e per il loro carattere rafforzativo dell’azione immediata.››[3]

Nella fanciullezza il bambino può utilizzare la sua fantasia per calmare la sua ansia, per lenire le sue frustrazioni, per soddisfare i suoi bisogni. Si vedrà allora il bambino lottare e distruggere immaginari nemici utilizzando un giocattolo o un oggetto qualsiasi. Allo stesso modo lo si vedrà costruire, con materiali assolutamente informi, castelli e reami dove si muovono dame e cavalieri, principi e regine, draghi e supereroi.

Nei confronti dei compagni parla solo delle sue esperienze (monologo intellettivo). Gli argomenti di discussione sono pochissimi. Inoltre in compagnia dei coetanei, per PIAGET, ciascun bambino parla soltanto di ciò che lo concerne personalmente (monologo collettivo). È infatti facile constatare quanto restino rudimentali le conversazioni fra bambini, legate come sono all’azione concreta in sé.

Le regole e la moralità autoritaria.

Le regole sono per i bambini di quest’età sacrosante e non possono essere cambiate. Fonte delle regole sono i loro genitori, i quali hanno sempre ragione (moralità autoritaria).

Soltanto in un’età successiva i bambini riescono a concepire una cooperazione democratica e una reciproca modificazione delle regole nelle quali anch’essi hanno un ruolo attivo da svolgere. Sempre in questa fase ogni misfatto, per essere perdonato o cancellato, ha bisogno di una punizione che estingua il reato. E poiché il bambino vive in un mondo egocentrico si tratta di una punizione per qualcosa di sbagliato che ha fatto lui.[4] Se un bambino correndo disubbidisce a sua madre e cade, egli è caduto perché è stato monello.[5] Gli atteggiamenti appresi attraverso le reazioni dei genitori sono fondamentali per l’idea che il bambino ha di sé: quando egli è rifiutato ‹‹è perché non vale molto.›› In questo periodo le minacce che i genitori possono fare verso di lui possono essere prese alla lettera.[6]

Soltanto ad un’età successiva i bambini riescono a concepire una cooperazione democratica e una reciproca modificazione delle regole nelle quali anch’essi hanno un ruolo attivo da svolgere.

Nei primi anni di vita il bambino raccoglie una quantità impressionante di informazioni e ogni esperienza e conoscenza nuova che egli assimila, non va soltanto ad aggiungersi alle altre ma le modifica e ne è a sua volta modificata. Per cui vi è continuamente una riorganizzazione e una modificazione dei rapporti e delle prospettive.[7]

 Il rapporto con i genitori.

 Nel momento in cui comincia a parlare e a camminare, il bambino riesce a riconoscere il padre e la madre come delle persone con una propria vita e una propria volontà ed è in grado di amarli come individui diversi e distinti da sé. Ma il suo non è un affetto tranquillo e sereno. Mentre accetta mal volentieri che la madre si allontani da lui anche per poche ore, acconsente a che il padre rimanga lontano anche per tutta la giornata o anche per qualche giorno. Ma non di più! Quando egli manca per molti giorni, quell’attaccamento che sembrava focalizzato solo sulla madre, si rende evidente anche verso il padre con tutto il suo corollario di sofferenze, paure, inquietudini, ma anche rabbia quando il comportamento di questi non è adeguato alle sue aspettative.

Anche durante il secondo anno di vita, nonostante apprezzi i giochi molto più vivaci e impetuosi con il padre, la madre continua ad avere una valenza prioritaria. E’ certamente a lei che il bambino rivolge le sue richieste ed è a lei che dà maggiormente il suo amore ed il suo attaccamento. Nonostante egli abbia imparato a considerarla quale persona esterna a lui e differente, ha sempre più bisogno di rassicurarsi del suo affetto e della sua presenza.[8]

La fase esplorativa.

 

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E' sempre nel secondo anno di vita che il bambino acquista la deambulazione e, con la deambulazione, acquisisce la possibilità di muoversi indipendentemente e liberamente nel suo ambiente. Il suo spazio fisico si allarga. Inizia la fase esplorativa. E non vi è esploratore più intraprendente, furbo, coraggioso, veloce, ma anche minuzioso, scrupoloso e purtroppo anche temerario, di un bambino a questa età. Ogni oggetto presente nella casa attira la sua attenzione ed è sottoposto ad una indagine minuziosa: viene valutato il suo peso, la sua consistenza, il suo sapore e odore, ma anche la sua più o meno grande possibilità di fare rumore, di rimbalzare, di rompersi, di colpire.

Il suo campo si allarga dalla stanza a tutta la casa. Nella scoperta del mondo nulla viene sottovalutato o trascurato. Ogni cosa acquista valore. I cassetti sono scrigni da svuotare per carpirne i tesori nascosti. Gli sportelli della cucina sono porte segrete che lo conducono a scovare e far propri i giocattoli più interessanti. Dentro questi sportelli vi sono le pentole da far rotolare o da riempire con carta, tubetti, cubi e ogni ben di Dio. Vi sono i coperchi da sbattere l'uno contro l'altro. Le padelle da brandire come armi segrete ma anche da sbattere a terra per avvertirne il rumore assordante. Vi sono gli imbuti, ottimi per metterli in bocca e soffiarci dentro e scoprire le alterazioni che provocano alla propria voce. E poi vi sono i portauovo con i quali giocare a provare a metterli uno dentro l'altro.

L'esplorazione della casa non si ferma alla cucina. Da questa si passa al bagno, dove la carta igienica sembra messa apposta per essere tirata fino in camera da letto! La tazza del bidè riempita d'acqua è un'ottima vasca nella quale far nuotare le barchette di carta costruite dal papà. Aprendo il rubinetto dello spruzzo si forma una splendida fontana che può far concorrenza a quelle di Roma. Più affascinanti ma anche più rischiose sono le camere dei fratelli e delle sorelle maggiori. Queste stanze, non essendo affatto ordinate, mettono a disposizione mille oggetti proibiti da rubare correndo, per poi nasconderli prima che il germano infuriato si accorga del furto.

È a questa età che il rapporto con gli altri diventa più interessante, ma anche più traumatico per il bambino, in quanto egli non capisce bene perché, in un mondo così ricco e così interessante, fatto di mille oggetti pronti per esser ghermiti e utilizzati per i suoi giochi e per le sue scoperte, vi siano altrettanti limiti, pericoli, impedimenti e consequenziali sgridate e punizioni.

Egli si aggira per la casa come un ladro che, per la prima volta, entra in un supermercato. Non riesce proprio a comprendere il motivo per il quale non è possibile appropriarsi di tutta quella mercanzia che si trova esposta ed è là, invitante, quasi a chiedere di essere presa e portata via. E invece... E invece vi è sempre qualche bruto che te lo impedisce, che ti dice di no e che ti punisce per averlo fatto. Pertanto le occasioni di conflitto tra i desideri dei piccoli e quelli dei genitori e dei fratelli e sorelle maggiori aumentano sensibilmente.[9]

Il periodo di opposizione.

L’estendersi dei contatti con il mondo, durante i quali sono registrati successi e insuccessi, soddisfazioni e frustrazioni, conducono il bambino a scoprire il proprio potere sulle persone e sulle cose, ma anche la resistenza che il mondo degli adulti oppone alle sue necessità. Mondo con il quale è costretto a lottare continuamente soprattutto durante il periodo di opposizione.  

In questo periodo, verso i due anni e sei mesi, anche a scapito dei suoi bisogni affettivi e protettivi, il bambino più che dare soddisfazioni all’adulto sente la necessità di affermare la propria personalità ed il proprio Io, mediante il rifiuto di ubbidire sempre e comunque ai genitori e agli adulti in genere. Egli diventa più ribelle, cocciuto ed intrattabile. Fa il contrario di quanto gli si chiede. Si confronta con le imposizioni degli adulti. Piange e strilla per avere qualcosa che, subito dopo, abbandona con indifferenza. Con gli adulti sembra ricercare più lo scontro che l’incontro, più la polemica che l’intesa. Nella ricerca di una maggiore fiducia in se stesso e nel desiderio di una maggiore indipendenza ed autonomia, il bambino vuole fare tutto e tutto da solo.

Avverte continuamente che i suoi bisogni si scontrano con quelli degli altri. Non sopporta di iniziare un’attività e di non riuscire spesso a portarla a termine in quanto vi sono delle esigenze superiori, quelle dei genitori, dei nonni e degli zii, che lo costringono ad interromperla bruscamente.

Pertanto sente spesso i propri familiari come dei guastafeste che si inseriscono indebitamente nei suoi giochi e nelle sue esplorazioni. In questa fase, come dice la ISAACS: ‹‹Non si potrebbe dire ai bambini una cosa più crudele o più stupida di: ‹‹Non toccare.›› Questo equivale a dire: ‹‹Non imparare, non crescere, non essere intelligente.››[10] In quanto gli si impedisce di scoprire, imparare e crescere.›› Il bambino, infatti, impara soprattutto scoprendo le cose e non attraverso le nostre spiegazioni.[11]

A questo proposito ci sembra illuminante l'osservazione di questa autrice la quale afferma: ‹‹Quale piacere perdono, per se stessi e per i loro figli, quei genitori che lasciano passare inosservata questa appassionata urgenza di costruire e di fare, e che, invece di provvedere al materiale e allo spazio necessario, cercano di comprimere questa energia costringendo i bambini a “stare seduti tranquilli” o a tenere “puliti i vestiti”.›› Il bambino ha bisogno di spazio per muoversi, agire, effettuare dei giochi creativi, correre, arrampicarsi.[12]

Accanto allo spazio fisico si allarga anche il suo spazio psicologico. Il bambino acquisisce la capacità di comprendere la successione cronologica degli avvenimenti. Inoltre la conquistata produzione del linguaggio gli consente di simbolizzare e rappresentare la realtà.

Le richieste degli adulti e le punizioni.

E' sempre a questa età che aumentano le richieste da parte del mondo esterno. Gli adulti chiedono al bambino una maggiore collaborazione. Si aspettano che egli faccia quanto gli viene detto e che abbia anche un maggior controllo dei suoi atti e dei suoi comportamenti.

Poiché il suo rapporto principale è con la madre, che è anche la sua figura di riferimento, è lei che comincia ad insegnargli il comportamento che la società si aspetta da lui e quindi le regole sociali. E' lei che dice i tanti “no”, aiutata dall’autorità paterna, per alcune sue iniziative pericolose, rischiose o inopportune e pertanto, gli sforzi per ‹‹essere buono›› sono fondamentali per avere l'affetto e la comprensione della mamma.

E se alcune madri, dopo il primo anno, vorrebbero che il figlio restasse piccolo e quindi le ricompense lavorano contro il suo processo di maturazione nel tentativo di mantenerlo piccolino, altre mamme per diminuire il loro carico di lavoro e di impegno vorrebbero che il bambino acquisisse il più presto possibile quelle autonomie, soprattutto nel controllo sfinterico, che ritengono indispensabili. Pertanto utilizzano in modo eccessivo rimproveri e punizioni se il bambino non si adegua ai loro bisogni, alle loro richieste e ai loro desideri.

L’asilo nido

Uno dei servizi offerti alle famiglie e al bambino a questa età è l’asilo nido. Questa istituzione, è sempre più utilizzata dai genitori soli, dalle famiglie dove entrambi i genitori lavorano, ma anche da quei papà e quelle mamme di bambini piccoli con ritardo mentale, autismo e altre patologie invalidanti. Questi vedono nel nido un luogo più ricco di stimoli culturali, linguistici, educativi, rispetto ad una normale famiglia e, quindi, una maggiore opportunità offerta dalle istituzioni pubbliche e private per i loro piccoli. [1]

Negli ultimi anni anche le famiglie nelle quali la donna non lavora e che non hanno bambini problematici bussano alla porta di queste strutture, in quanto sono convinte che l’asilo nido possa dare più di una normale famiglia.

Per tale motivo, da parte di molte componenti della società: famiglie e associazioni, sindacati e politici, medici e amministratori, è sempre più pressante la richiesta di più asili nido, così da soddisfare il “bisogno” di ogni comune, di ogni quartiere, di ogni famiglia e di ogni donna che intende o è costretta a “realizzarsi” nel lavoro. E non importa che questi servizi abbiano un costo notevole. “Se sono utili ai bambini, ai genitori, soprattutto alle madri, al mondo del lavoro ed in definitiva alla società, tali costi vanno affrontati. Se i soldi necessari sono ben utilizzati vanno trovati”.

Abbiamo però il dovere di chiederci: Quanto l’asilo nido è utile al bambino normale? Quanto è adatto al soggetto disabile? Quanto è valido e necessario ai genitori, al mondo del lavoro e alla società?

 

purtroppo l’asilo nido non è un vero nido in quanto:

  1. Il bambino ha bisogno di una figura materna. Ma non sempre nell’animo del giovane personale femminile adibito nei nidi è maturata questa istintiva e basilare realtà interiore che prescinde e travalica la preparazione professionale. Teniamo presente che ogni cura fisica prestata al bambino ha per lui anche dei risvolti psicologici ai quali bisogna rispondere adeguatamente (Winnicott, 1973, p.14).
  2. Il bambino ha bisogno della propria madre. La sua serenità e sicurezza interiore sono legate ad una figura ben precisa che ha un suo viso, un suo odore, una sua specifica caratteristica individuale che la distingue da tutte le altre donne.
  3. Il bambino ha bisogno di una persona con la quale si sia stabilito un legame d’amore reciproco. Per Winnicott:[2] “Il modo di trattare un bambino molto piccolo è al di là del pensiero cosciente e delle intenzioni. È qualcosa che diviene possibile solo grazie all’amore. Talvolta affermiamo che il bambino piccolo ha bisogno di amore, ma quello che intendiamo dire è che solo qualcuno che lo ama è in grado di appagarne i bisogni e di graduare il mancato appagamento in base allo sviluppo della capacità da parte del bambino stesso di utilizzarlo positivamente”. Questo legame d’amore tra il bambino e il personale del nido è molto difficile che si instauri in quanto mancano i presupposti indispensabili, dati non solo dal legame di sangue ma anche dalla diversa responsabilità e ruolo esistente. Il bambino ha bisogno che questo legame sia stabile e non venga mai tradito da lunghi periodi di lontananza fisica. Le esperienze passate del bambino rivestono un ruolo vitale per lo sviluppo e continuano ad influenzarlo, pertanto bisognerebbe garantire, per quanto possibile, che ogni bambino riceva cure regolari sempre dalla stessa persona. In caso contrario in lui si manifestano collera e rabbia oltre che ansia e angoscia. E ciò è impossibile garantirlo per le necessità personali e per i diritti sindacali di ogni lavoratore.
  1. Il bambino ha bisogno di una madre che abbia con lui effettuato un cammino e un percorso. Una madre con la quale ha maturato reciproche esperienze ed intese. Una madre che cresca ed impari insieme al suo bambino. E ciò è molto difficile che possa avverarsi con il personale di un’istituzione.

5. Il bambino ha bisogno di una figura di riferimento principale.

Se questa figura cambia nel tempo, non si riesce a stabilire un legame profondo. Ma anche quando si concretizzassero i fattori più favorevoli, per cui questo legame e questa intesa dovessero diventare realtà, saranno legami ed intese destinate a spezzarsi dopo pochi anni o pochi mesi, con conseguente frustrazione e dolore per tali perdite. Mentre, durante la frequenza di questa istituzione, non potranno mancare i sensi di colpa e i conflitti che nasceranno dalla difficoltà di vivere con chiarezza ruoli e realtà diversi e contrastanti. Se il bambino si lega con un legame forte e speciale alla “zia” del nido, tradisce il legame precedente con la propria madre. Se, al contrario, permane in lui il legame con la propria madre, nonostante la frustrazione di essere ogni giorno, a volte per anni, allontanato dal proprio ambiente familiare per essere portato in un luogo sconosciuto, in compagnia di coetanei e di adulti sconosciuti, gli sembrerà di fare un torto alla persona che nel nido si occupa di lui con amore ed affetto, come fosse una madre vera.

Le conseguenze di un allontanamento precoce dalla figura materna possono essere molto gravi tanto da alterare ea volte rompere del tutto il rapporto di fiducia che il bambino ha verso la madre e verso ciò che la madre per lui rappresenta: il mondo intero. La rottura di questo rapporto di fiducia può comportare numerosi e a volte anche gravi disturbi psichici.

Le punizioni.

Ed è sempre a questa età che le punizioni si fanno più frequenti e dolorose! Le punizioni possono essere di vario tipo. Alcune consistono nell’infliggere un dolore fisico, altre si propongono di procurare una sofferenza psicologica, ad esempio, limitando il piacere dell’attività motoria: ‹‹Stai con la faccia contro il muro.›› Alcune punizioni consistono nel rifiutare o proibire un oggetto amato e desiderato. Altre volte i genitori puniscono ritirando, almeno momentaneamente, la stima, la fiducia, il contatto e la carezza stessa della madre o del padre. Non sempre le punizioni sono utili. Quando sono frequenti ed eccessive accentuano l’irritabilità, l’instabilità, l’irrequietezza ma anche l’atteggiamento scontroso ed ostile.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -(Volume unico)

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[1] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 31.

[2]  Cfr. J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 34.

[3]  J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 29.

[4]  Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970,  p. 21.

[5]  Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970, p. 21

[6]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 98.

[7]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 38.

[8] Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 58.

[9] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 74.

[10] S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 68.

[11] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 69.

[12] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 70.

 

 

Il primo anno di vita del bambino

Emidio Tribulato: "IL PRIMO ANNO DI VITA"




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Il bambino se ad un mese piange ostinatamente quando ha fame o sta scomodo, senza preoccuparsi minimamente delle esigenze dell'adulto o degli adulti che hanno cura di lui, mentre si tranquillizza solo quando è satollo e soddisfatto di tutto, successivamente comincia a regolare la sua vita ed i suoi bisogni in base alle esigenze della madre. Impara a postergare i suoi bisogni fisiologici: l'alimentazione, il sonno, i bisogni di coccole, in base alle necessità e alle richieste materne. Mostra interesse ed eccitazione al rumore dei passi che si avvicinano, al rumore dell'acqua quando la madre prepara il bagnetto quotidiano o a quello delle pentole quando appronta la pappa. Fra le sei e le dodici settimane sorride regolarmente e indiscriminatamente a tutti i visi umani e persino a illustrazioni o modelli di dimensione reali, purché siano visti di fronte e abbiano qualche movimento.[1]

Fra i tre ed i sei mesi il sorriso stereotipato diviene selettivo e si rivolge alle personefamiliari. Il bambino diventa capace di rispondere con un sorriso ad uno stimolo ben specifico. Pertanto il sorriso non è più ‹‹…una semplice reazione ad eccitazioni interne od esterne, esso entra ugualmente in un quadro di relazione come metalinguaggio fornito di sottigliezze e tonalità melodiche.››[2] Il bambino a questa età riconosce i suoi genitori ed ha delle immagini mentali delle persone familiari (stadio dell’oggetto precursore).

A Cinque - sette mesi distingue la mimica degli adulti e reagisce di conseguenza: ride, vocalizza e fa vari rumori di gioia quando gli altri comunicano con lui. E’ contento e volge il suo sguardo verso la voce della mamma che gli parla da un’altra stanza. È  sensibile e mostra una evidente rispondenza alle differenti intonazioni emozionali della voce di questa. A partire dai sei - otto mesi ha interesse ai giochi dei quali è fatto partecipe, tipo “Cucù – eccolo” e si riconosce allo specchio. ‹‹Accanto a questi progressi abbastanza vistosi sul piano dei rapporti del bambino con gli adulti, non si può non essere colpiti dalla relativa povertà dei rapporti con i coetanei. Contrariamente a quello che constatiamo nelle età successive, gli altri bambini della stessa età sono praticamente senza interesse per il bambino. Eccetto qualche sorriso e alcuni toccamenti, non presta loro molta attenzione. Egli non li avverte partecipi alle situazioni per lui vitali, tratta i suoi pari come oggetti: li strapazza, li tocca con le mani, strappa loro i giocattoli che lo interessano. Per Spitz a questa età compare l'angoscia degli otto mesi. Il bambino avverte paura, se non angoscia, al cospetto di estranei. Teme istintivamente e non si fida delle persone a lui non note. Alla loro vista egli si imbroncia, si nasconde o si mette a piangere, manifestando timidezza.

In questo periodo è importante la comunicazione affettiva che proviene dal volto e dai gesti materni. È da questi segnali che dà la madre che il bambino capisce se chi ha di fronte è una persona amica o nemica. Se con questa persona che si avvicina a lui si può giocare oppure è meglio restare lontani. Se è il caso di lasciarsi andare nelle sue braccia oppure rimanere stretti al collo materno.

Verso i nove mesi circa, il compagno di gioco è preso maggiormente in considerazione soprattutto in funzione delle cose che possiede. Sono frequenti le lotte e i conflitti per avere degli oggetti di interesse reciproco. Bisognerà attendere ancora parecchi mesi perché si stabiliscano contatti diversi da quelli aggressivi.[3] A questa età già vocalizza liberamente, con significato di comunicazione interpersonale. Grida per attirare l'attenzione della madre e degli altri adulti. Parlotta armoniosamente ripetendo e legando alcune sillabe come ma-ma; pa-pa. Capisce il “no” e fa “ciao” con la manina. A dodici mesi conosce già il proprio nome e si volta se chiamato. Mostra, con movimenti adeguati, che capisce molte parole del lessico familiare. Comprende semplici richieste associate ai gesti ad esempio: ‹‹Dammi››, ‹‹Fa’ ciao.›› Distribuisce baci ai genitori e alle persone care.

A mano a mano che il bambino viene riconosciuto educabile, cioè capace di apprendimento, la madre modifica sempre più le sue manifestazioni di tenerezza verso di lui. Se prima vi era il convincimento che il figlio dovesse sempre ricevere il suo aiuto ed il suo sostegno, adesso vuole che impari certe cose, per cui tende a mostrare verso di lui collaborazione e tenerezza come ricompensa quando si comporta bene o impara. [4] Pertanto è la madre la protagonista del primo anno di vita del bambino, non solo perché è lei che lo allatta e successivamente lo imbocca, ha cura di lui, lo pulisce e controlla che non si faccia del male, ma è anche lei il punto di riferimento, la stella polare del bambino quando è ferito, dolorante, triste, spaventato o quando ha bisogno di coccole.

Durante il primo anno inizia anche la comunicazione con il padre. Questo tipo di comunicazione ha strumenti, tempi, obiettivi e finalità diverse rispetto alla comunicazione materna.

La comunicazione paterna tende ad offrire al bambino un esempio più deciso e forte, più sereno e stabile. Per tale motivo questa comunicazione appare più stringata e lineare, più tranquilla e razionale, più ruvida e decisa. E' una comunicazione che, priva di fronzoli, con l'uso di pochi e scarni aggettivi, stimola all'azione, al fare e al creare. Il padre con il suo esempio comunica al bambino decisione, agilità, destrezza, irruenza. Con le parole gli dà la forza della razionalità, stimola in lui il controllo delle proprie emozioni, la sicurezza del proprio agire. Con i suoi comportamenti fa sorgere nel figlio il piacere della conquista, e delle rapide decisioni. In definitiva, se la comunicazione materna mette in primo piano il cuore ed i sentimenti, quella paterna mette in primo piano la ragione. Se la comunicazione materna ha lo scopo di sviluppare e confortare l’Io del bambino, quella paterna ha lo scopo di dare slancio, forza, determinazione, coraggio, sicurezza a quest’Io.

 

Alla fine del primo anno di vita ‹‹Guardando gli occhi, e l’espressione di chi si prende cura di lui, il bambino ottiene informazioni sui suoi stati interni - pensieri, intenzioni, credenze, desideri ed emozioni – e li usa per costruire un collegamento tra quello che potrebbe fare chi lo accudisce e quello che lui stesso progetta di fare. L’accesso ai propri stati interni è ora coordinato con l’accesso a quello di un’altra persona affettivamente significativa.››[5]    

L’attaccamento

 

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Uno degli effetti positivi consequenziali ad un ambiente favorevole e comprensivo dei bisogni del bambino è l'attaccamento che si sviluppa nei primi nove mesi di vita e perdura per vari anni. Naturalmente questo legame è maggiore verso la madre quando questa sa instaurare con il figlio, fin dalla nascita, una relazione speciale.

Si può definire l'attaccamento come quel forte legame avvertito dal bambino nei confronti di uno o di entrambi i genitori o verso persone che hanno nei suoi confronti delle cure continue e particolari. Questo legame speciale ha nell’uomo e negli animali una funzione biologica, in quanto permette di preservare i piccolo dai pericoli esterni. Chiunque più degli altri si prende cura del bambino diverrà nei suoi confronti la figura principale di attaccamento.

L’attaccamento è reciproco: del bambino verso la madre e della madre verso il bambino. Questi sentimenti materni e filiali si sviluppano non solo se tra i due vi è una continua vicinanza ma soprattutto se tra i due vi è una reciproca intesa, dialogo e scambio affettivo.

Questo legame che è molto forte dopo la seconda metà del primo anno e durante tutto il secondo e terzo anno, dal quarto anno in poi è suscitato un po’ meno facilmente di prima, anche se il cambiamento è di entità minima. Come in tutte le relazioni il legame dell'attaccamento può non instaurarsi o può andare in crisi per i motivi più vari, che possono riguardare l'uno o l'altro elemento della relazione o entrambi. Se una madre sceglie, o è costretta, a rimanere lontano dal figlio per un certo tempo, affidando questi ad altre persone o ad altre istituzioni, questo legame può non avvenire o può alterarsi. La mancanza di attaccamento può intervenire per molti altri motivi:

  • ·         scarso interesse della madre nei confronti del figlio non voluto, non desiderato, non amato, considerato come un intralcio ai suoi interessi e obiettivi del momento;
  • ·         insufficiente attitudine o preparazione al ruolo materno;
  • ·         scarse capacità nell’instaurare una comunicazione efficace;
  • ·         presenza di una intensa ansia e depressione nella madre;
  • ·         l'attaccamento può non instaurarsi o fallire anche per cause riguardanti il bambino, quando questi presenta notevole fragilità psichica, con conseguente eccessiva debolezza di fronte alle indispensabili piccole frustrazioni presenti in ogni relazione, o quando il figlio lamenta congenite, gravi difficoltà ad instaurare una comunicazione efficace.

 

L’attaccamento può avvenire, come abbiamo detto, anche nei confronti di più persone ma in questo caso vi è un preciso ordine di preferenza (specificità dell'attaccamento) .

Questo legame particolare può durare, anche se con intensità diversa, per tutta la vita. I primi attaccamenti, infatti, non sono mai definitivamente abbandonati.

In questa relazione particolare è presente una dipendenza reciproca: del figlio nei confronti della mamma, per ragioni di sopravvivenza e della mamma nei confronti del figlio in quanto questi diventa un suo importante e fondamentale oggetto d’amore. È importante che tra il bambino e la madre si instauri l'attaccamento in quanto il bambino, rassicurato da questo legame speciale, può avere fiducia negli altri, in se stesso, nel mondo.

Solo il bambino forte e sicuro dell’amore dei suoi genitori è capace di camminare spedito verso l’indipendenza psicologica e materiale. La sua sicurezza gli consente di esplorare il mondo, di allontanarsi da schemi infantili o dalle persone che fino a quel momento costituivano i suoi fondamentali punti di riferimento affettivo. È, quindi, l'attaccamento che gli permette di affrontare le difficoltà della vita con forza ed equilibrio. Questo legame quando è solido, sicuro e condotto in maniera fisiologica, conduce verso una maggiore autonomia ma anche verso una superiore capacità di affrontare e resistere agli eventi stressanti o traumatici. Questa capacità, chiamata resilienza, è nettamente superiore quando il bambino ha potuto sviluppare legami affettivi significativi nella prima infanzia.[6]

Gli esempi che si potrebbero fare sulla realtà dell’attaccamento sono numerosissimi.

Chi non ha notato come il bambino si leghi fisicamente al corpo paterno o materno quando si ritrova con estranei o in situazioni insolite che giudica pericolose?

Quando ancora i bambini venivano ricoverati in ospedale senza le madri, BOWLBY aveva notato che quando i piccoli venivano ammessi in reparto, esprimevano un’intensa inquietudine e agitazione. Con il ritorno a casa poi, se inizialmente manifestavano aggressività e rifiuto verso le loro madri, quando le rivedevano, era come se le accusassero pesantemente in cuor loro per averli abbandonati.[7] Successivamente a questi traumatici distacchi, i bambini tendevano a seguire costantemente le loro madri, come per paura di perderle nuovamente e ad esse si aggrappavano aumentando le loro richieste di coccole e gratificazioni.

In questi casi, se le madri rifuggivano da queste richieste ritenute eccessive, questo rifiuto suscitava un comportamento ancora più ostile, negativo o peggio regressivo da parte del bambino. Anche per ISAAC ‹‹Fino ai tre anni è assolutamente normale che il bambino si risenta quando perde le cure esclusive di una madre o di una nurse amata, anche se questa perdita è di breve durata. Non tutti reagiscono in questa maniera ma la maggioranza lo fa.››[8]

Attaccamento sicuro ed insicuro.

Vi è pertanto un attaccamento sicuro, nel quale il bambino ha piena fiducia nella madre ma anche nel padre per cui egli sa di poter contare su di loro nel momento in cui dovesse incontrare situazioni nuove, difficili o traumatiche, ma vi è, purtroppo, anche un attaccamento insicuro o ansioso, nel quale il bambino non ha la certezza di trovarsi accanto come sostegno e presenza attiva e serena almeno uno dei genitori.

 

In questo senso il caso di Dario è emblematico.

Un viaggio di lavoro.

Quando la madre di Dario, per motivi di lavoro, andò in Venezuela, il figlio aveva quasi due anni. La donna pensava di averlo lasciato in buone mani in quanto aveva affidato il bambino al padre e ad una tata che viveva stabilmente in famiglia. Dopo alcuni mesi, al ritorno dall’incarico espletato brillantemente, non immaginava di dover affrontare una brutta situazione. Dario manifestava chiari segni di sofferenza e di regressione: non la guardava più negli occhi, appariva depresso, pensieroso, piangeva e gridava per un nonnulla, aveva dimenticato molte delle parole che conosceva. La madre, pensando che questi comportamenti ed atteggiamenti del figlio fossero dovuti a dei capricci, piuttosto che farsi perdonare e coccolarlo maggiormente, ha pensato bene di avere nei suoi confronti un atteggiamento più fermo e deciso, conclusosi con l’iscrizione in una scuola materna dove insegnava una maestra particolarmente burbera e severa. Infine, arguendo che la tata che aveva lasciato con lui durante la sua assenza, non avesse fatto bene il suo dovere non stimolando la comunicazione del figlio, l’aveva licenziata su due piedi. Quando verso i cinque anni arrivò alla nostra osservazione, la situazione psicologica del bambino si era ulteriormente aggravata. Egli presentava marcato disinvestimento in tutte le relazioni, sia verso i coetanei, sia verso gli adulti; momentanei ma ripetuti scollamenti con la realtà; grave instabilità ed irrequietezza motoria, atteggiamento triste;  importanti disturbi nella comunicazione con un linguaggio molto ridotto e con presenza di ecolalie e uso di frasi e parole improprie. Il bambino presentava, inoltre, ecoprassie, facili crisi di pianto e, se contrariato, atteggiamenti aggressivi.

La madre cercava di contenere con un atteggiamento sempre più deciso e fermo i comportamenti più disturbanti di Dario, ma con scarso o momentaneo risultato.

 

Non vi è dubbio che alla base dei problemi di questo bambino vi fosse l’allontanamento precoce della madre per alcuni mesi, ma altresì non vi è alcun dubbio che il successivo comportamento della donna, poco incline a farsi perdonare dal bambino il suo errore, ma anzi tendente a controllare e punire le manifestazioni di sofferenza di Dario, non solo non era un atteggiamento adeguato a risolvere i problemi del bambino, ma, senza volerlo, li aveva notevolmente aggravati.

 

Se l’attaccamento è un processo fisiologico, la sua patologia si ha soltanto quando la madre o il padre, pur di sentirsi sicuri e sereni loro, cercano in ogni modo di impedire al figlio di muoversi in modo autonomo legandolo a sé mediante le loro ansie o le loro paure. Alcuni genitori, infatti, soprattutto le madri, vorrebbero che il figlio restasse piccolo e quindi lavorano contro il processo di maturazione, nel tentativo di mantenere il figlio in una condizione infantile per un periodo il più lungo possibile.

Fino alla fine dei tre anni l'attaccamento permane in modo intenso, pertanto è altrettanto negativo il comportamento opposto di quei genitori, e oggi sono tanti, che prematuramente spingono o costringono il figlio ad una autonomia e ad una responsabilità non adeguate e non confacenti alla sua età o al suo sviluppo psicoaffettivo. Questi genitori spesso ottengono l’effetto opposto, in quanto il figlio che non si sente supportato dall’attaccamento genitoriale ha maggiori difficoltà ad affrontare il mondo circostante; pertanto rimane ancorato ad un livello di sviluppo non adeguato alla sua età cronologica.

 

Un fallimentare piano pedagogico

Luisa, una giovane madre che insegnava in una scuola elementare, quando seppe di aspettare un bambino studiò un preciso piano pedagogico per stimolare nel figlio, il più rapidamente possibile, una buona autonomia, così da potersi dedicare tranquillamente al suo lavoro. Il suo piano prevedeva, intanto, di evitare di stare sempre con il bambino anche nei primi giorni di vita. Voleva che lui si “abituasse” a prendere il latte e ad essere curato, non solo da lei ma anche dagli altri familiari, così da evitare proprio uno specifico attaccamento. Inserendolo poi, dopo il primo anno, in un ambiente estraneo come quello di un asilo nido e poi, a due anni e sei mesi, in una scuola materna, pensava di aver raggiunto l’obiettivo che si era prefissato: far maturare rapidamente la sua autonomia. Ma a cinque anni, mentre ancora il figlio frequentava la scuola materna, le insegnanti con molto tatto, trattandosi di una collega, cominciarono a riferirle che‹‹il bambino aveva forse qualche problema: non socializzava con gli altri, giocava da solo in un angolo, e si avvicinava ai suoi compagnetti solo per strappare loro qualche giocattolo che lo interessava particolarmente, ma non riusciva a costruire con questi un vero gioco. Anche il suo linguaggio era strano. Ripeteva benissimo ogni parola che sentiva ma la inseriva in contesti non idonei. Vi erano poi delle frasi che ripeteva di continuo.››  A casa bastava poco per farlo gridare e così, sia la madre che i nonni, “per farlo stare buono” lo mettevano spesso davanti alla TV, dove egli preferiva vedere sempre le stesse cassette, con gli stessi cartoni animati, per ore e ore. La notte poi, non si voleva assolutamente staccare dal letto dei genitori e stava abbracciato alla madre come ad un’ancora di salvezza ma, contemporaneamente, la tormentava tirandole i capelli e le ciglia.

 

È evidente che il piano materno era fallito su tutta la linea! Lo sviluppo dell’autonomia del bambino non può essere accelerato di molto. Ma soprattutto non si può ottenere questo obiettivo senza tenere nella giusta considerazione i bisogni primari dell’animo del minore, in caso contrario si rischia di conseguire l’effetto opposto.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -(Volume unico)

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[1]  Wolff S. (1970), Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma, p. 16

[2]  J. De AJURIAGUERRÁ, Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, 1993, p. 118.

 

[3]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 59.

[4]  Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 184.

[5]  L. BARONE - D. BACCHINI, Le emozioni nello sviluppo relazionale e morale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, p. 26.

[6]  D. OVADIA  “Mi piego ma non mi spezzo”, in Mente e cervello, n° 67, 2010, p. 52.

[7]  Cfr. J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982, p 10

[8]  S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 138.

 

 

 

I giudizi sul bambino

"I giudizi sul bambino"

EMIDIO TRIBULATO 

Così come il bambino individua dalle caratteristiche dell’ambiente se questo è adeguato o non ai suoi bisogni e alle sue esigenze, anche le persone che stanno accanto a lui: la madre, il padre, gli altri familiari e l’ambiente sociale nel quale egli vive, danno il proprio giudizio sul neonato, come aveva già dato una propria valutazione ancor prima che egli nascesse, sull’opportunità di questo evento.

Questi giudizi e queste valutazioni hanno dei tratti oggettivi ma hanno anche molti elementi soggettivi legati alle persone che si confrontano con il nuovo essere umano. E così come agli occhi del bambino vi può essere una madre buona o una cattiva, agli occhi dei genitori e degli altri familiari vi può essere un bambino facile o un bambino difficile, in definitiva un bambino buono o un bambino cattivo. Gli elementi che concorrono a designare agli occhi e al cuore delle persone che stanno accanto al piccolo essere umano, una maggiore o minore sottolineatura degli aspetti positivi o negativi e quindi una maggiore o minore accettazione, sono numerosissimi ma anche di difficile valutazione, non solo da parte di chi esamina il problema dall’esterno ma anche e soprattutto da chi è coinvolto nella relazione.

Per SULLIVAN ‹‹La personificazione del bambino fatta dalla madre non è il bambino ma bensì un’organizzazione di esperienze in sviluppo che ha luogo nella madre e che comprende molti fattori il cui rapporto con il bambino reale è remotissimo.››[1] Nella personificazione sono compresi molti elementi. Certamente hanno influenza le sue caratteristiche genetiche: vi sono neonati che accettano molto più di altri gli errori e le mancanze di attenzione della madre, mentre vi sono bambini che protestano e si arrabbiano per un nonnulla. Accanto alle caratteristiche che il bambino porta nei suoi geni, l’immagine che noi abbiamo del bambino è influenzata da molti altri elementi.

  1. 1.      Vi è intanto la maggiore o minore desiderabilità dell’evento. Questo bambino era desiderato o no? E da chi era desiderato? Solo dalla madre, solo dal padre, da entrambi? Era desiderato dai nonni? Oppure essi temevano che questa gravidanza, che in qualche modo li avrebbe coinvolti nell’aiuto e nell’assistenza alla madre e al piccolo, fosse inopportuna? Ma anche la società, nel suo complesso, come vede la nascita di un nuovo essere umano? Come un nuovo problema da affrontare, in quanto già prima di nascere questo evento comporta impegni e spese per la comunità, oppure come un dono del quale la società civile può godere?
  2. 2.      Il secondo elemento, altrettanto importante, è legato alle conseguenze immediate della sua presenza. La sua esistenza, a partire dai primi mesi o giorni della gravidanza cosa ha provocato? Cosa ha modificato in senso positivo o negativo? La descrizione di Anna è sintomatica di una buona accoglienza. ‹‹Prima di attendere Mario ero nervosa e irritabile in quanto, fin da piccola, avevo paura di non poter avere dei bambini ai quali invece tenevo molto. Nel momento in cui, invece, ho saputo di aspettarlo mi sono rasserenata, anzi ero così felice che mi sembrava di poter toccare il cielo con un dito. Anche lui, Giulio, mio marito, era contento e non sapeva cosa fare per farmi capire la sua gioia. Mai avevo avuto da lui tante attenzioni prima di allora: mi coccolava, mi diceva che ero diventata più bella, più dolce, mi ha fatto subito un regalo importante. Ma anche i suoi genitori sono stati dolcissimi. Prima di sposarci e anche dopo, mi sentivo guardata da loro in modo strano, con sospetto. Come dire: ‹‹Vediamo chi è questa qua, vediamo cosa sa fare.›› Nel momento in cui ho comunicato loro che aspettavo un bambino, che è stato poi il loro primo nipotino, sono cambiati radicalmente. Mi hanno cominciato a trattare come fossi una regina. Mia suocera mi portava quasi ogni giorno qualcosa di buono da mangiare che lei aveva preparato e hanno subito detto che ci tenevano a regalarci la culla e il passeggino. Per la prima volta nella mia vita ero al centro dell’attenzione di tutti, tranne che del principale del negozio dove lavoro. Ma non mi importava molto di lui! Stavo bene anche perché non ho avuto quei vomiti e quei disturbi di cui si lamentano tante donne. ››        

 Molto diversa la descrizione di Roberta: “Volevo un bambino a tutti i costi. Anche lui, mio marito, lo avrebbe voluto, ma non faceva nulla e non era disposto a fare nessun sacrificio per averlo. Ogni cosa che i medici ci dicevano di fare: esami, terapie, indagini, protestava. Quando poi ci hanno proposto l’inseminazione artificiale ed io ero d’accordo, mi ha presa per pazza. Sono riuscita a convincerlo e abbiamo provato più volte fino a quando sono rimasta incinta. Io ero contenta perché avevo raggiunto quanto desideravo, ma lui e anche i suoi mi facevano il muso. Non capivano che io mi stavo sacrificando anche per loro. Anche durante la gravidanza i problemi non sono mancati. Avevo paura di perderlo e quindi il minimo accenno di qualcosa che non andava per il verso giusto, mi faceva correre dal ginecologo. Lui e anche i suoi mi accusavano di sperperare i soldi per le mie “fisime”. Abbiamo cominciato a litigare. Io lo incolpavo di non voler bene a me e al bambino che aspettavo. Lui mi accusava di essere una pazza nevrotica per aver fatto tutte quelle cose pur di rimanere incinta di Roberta. Avevamo comprato una casa e c’era da pagare il mutuo e lui mi ripeteva che sarebbe stata colpa mia se, non riuscendo a pagare la rata, avessimo perduto anche la casa. Insomma, un inferno che ha raggiunto il culmine quando ho scoperto, dai numerosissimi messaggini del suo telefonino, che mi tradiva con una ragazza molto più giovane di me. Capisce?Mentre io mi sacrificavo nel fare terapie ed esami per rimanere incinta, lui stava con una ragazza che aveva conosciuta al lavoro e di cui era innamoratissimo, almeno così sembrava dai vari SMS.››

  1. 3.      Le considerazioni sul bambino si accentuano già dopo il parto. Questo evento è stato facile, difficile o chiaramente patologico, per cui sono stati necessari interventi dolorosi e penosi che hanno provocato nella madre ma anche nel padre e nei familiari emozioni negative? La madre ha sofferto di depressione post partum oppure no? E complessivamente quanto hanno inciso sui genitori ed i familiari il dolore, la sofferenza e la paura e quanto la gratificazione e la gioia?
  2. 4.      Al desiderio o non di avere un bambino, ai problemi vissuti durante la gravidanza, ai rapporti che si sono modificati o non dopo l’inizio di questo evento o anche prima, bisogna aggiungere le attese nei riguardi del sesso. Il nascituro ha il sesso desiderato da uno degli elementi della coppia, da entrambi, o da nessuno dei due? Ha il sesso che i nonni attendevano o no?
  3. 5.      Sul giudizio dei familiari, ma soprattutto della madre assume, inoltre, molta importanza la facilità o la difficoltà di governo e di cura del bambino. Il bambino facile acquista rapidamente le abitudini regolari di sonno, veglia, alimentazione; si adatta facilmente alle abitudini e agli orari e alle necessità dei genitori e della famiglia; piange poco, accetta i nuovi alimenti che gli vengono proposti e aumenta regolarmente il suo peso; non si sporca in continuazione. Il bambino difficile, invece, si alimenta male, piange frequentemente, non aumenta di peso come dovrebbe; i suoi momenti di sonno e di veglia non coincidono con le esigenze e le abitudini dei genitori; ha la necessità di essere pulito e cambiato continuamente perché si sporca facilmente. Accanto al bambino facile, al bambino difficile, vi è purtroppo anche il bambino problematico. La presenza di una malattia o di una disabilità complica ancor più l’immagine che di lui ne hanno i genitori con possibili sentimenti di incapacità, delusione, rabbia, colpa e/o accuse reciproche.
  1. 6.      Sul giudizio dei genitori e dei familiari incide poi l’aspetto esteriore del neonato. Stimolano sentimenti, riflessioni ed emozioni, il suo peso alla nascita, il colore dei capelli e della pelle, i tratti del viso, i particolari del corpo. Intanto vi è il gioco, che non è proprio un gioco in quanto le sue conseguenze possono essere rilevanti, sulle sue somiglianze: ‹‹Somiglia a mio marito che amo o a mia suocera che non posso sopportare? ›› ‹‹Somiglia al bambino che avevo sempre immaginato oppure è molto diverso, addirittura è l’opposto a quello sognato? ›› ‹‹È un bambino giudicato bello dagli altri, oppure le persone che vengono a farmi visita lo guardano con mal celato disappunto? ›› Queste ed altre mille domande non sono ininfluenti nel momento in cui si instaurano i primi rapporti con il figlio. Le conseguenze possono essere notevoli. Poiché, spesso, noi troviamo negli altri quello che cerchiamo, se pensiamo che quel bambino che abbiamo in braccio debba essere buono come suo padre,  quel bambino sarà buono come il padre. Ma se immaginiamo che debba essere una “peste” come il nonno, la nonna o lo zio al quale somiglia, egli con molte probabilità ci apparirà e forse lo diventerà veramente un bambino “pestifero”. Sarà il bambino cattivo che ‹‹ non mi fa dormire nelle ore in cui sono abituata a riposare.›› Sarà il bambino che provoca problemi: ‹‹Non si attacca bene al seno e mi costringe a usare il fastidioso tiralatte.›› Sarà il bambino aggressivo: ‹‹Gioca a graffiarmi e farmi male, mordendomi i capezzoli.›› Sarà il bambino capace di generare ansia perché ”non aumenta di peso e vomita quanto ingerito.›› In seguito sarà il bambino capriccioso che ‹‹piange continuamente e continuamente si ammala e mi costringe a rinunziare a tutti i piccoli piaceri della vita.››

Da quanto abbiamo detto si può dedurre facilmente che così come per il bambino vi sono una madre molto buona e una molto cattiva e tra queste due categorie vi sono tutti gli altri tipi di madri, il giudizio sul bambino potrà oscillare tra un bambino molto buono e uno molto cattivo e tra questi due estremi vi sono molti altri giudizi intermedi. Se nei confronti del bambino buono i genitori si sentono gratificati e soddisfatti, lo stesso non avviene nei confronti del bambino cattivo, difficile o problematico verso il quale essi possono avvertire risentimento, aggressività, sensi di colpa, sentimenti di impotenza.

I giudizi su se stessi - L'autostima

Altrettanto importante è il modo con il quale i genitori ed il bambino giudicano se stessi. Il giudizio di sé nasce dalla relazione e condiziona la relazione stessa. ‹‹Se io, madre, non riesco a tranquillizzare il bambino sarà per colpa sua oppure sarà per colpa mia?›› Lo stesso potrà dire il bambino: ‹‹Se io faccio disperare la mamma, può darsi che sia per colpa sua ma può darsi che sia colpa mia, perché io, come a volte lei dice, sono un bambino monello e cattivo.››

Gli effetti [2]di una valutazione positiva di se stessi li conosciamo bene: ‹‹Se io sono bello, buono e bravo, sicuramente rendo contenti mamma e papà, gli altri familiari, e tutti quelli che si avvicinano a me e, quindi, io valgo molto.›› Una buona valutazione di sé rafforza l’Io, stimola la maturazione, fortifica il piacere del rapporto e della collaborazione con gli altri, aumenta la sensazione di serenità, calma e pace interiore, con la conseguenza che migliorano le capacità e la disponibilità verso tutti gli apprendimenti: linguaggio, motilità, autonomia ecc.. 

Se invece vi è una valutazione negativa di se stessi, è come se il bambino dicesse: ‹‹Io sono uno che fa soffrire, sono cattivo, sono brutto, valgo poco, per cui non sono uno da stimare, non sono uno d’amare e da avvicinare ma da allontanare.›› In questi casi la sofferenza che il bambino immagina di trasmettere agli altri, si rivolge come in uno specchio verso di lui. Aumentano l’ansia, la paura degli altri e del mondo, aumenta la chiusura, diminuiscono le capacità relazionali, si altera il rapporto con la realtà, peggiorano le capacità di apprendimento.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -(Volume unico)

Per scaricare gratuitamente questo libro clicca qui.

 


[1]  H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962,  p. 135.

[2]  Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 188

 

 

 

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