L’aggressività è la tendenza, che può essere presente in ogni comportamento o in ogni fantasia, volta all’etero o all’autodistruzione, oppure all’autoaffermazione[1]. Per Hacker [2]: “Noi definiamo con la parola “aggressività” quella disposizione e quell’energia propria dell’uomo che si esprimono originariamente in attività e successivamente nelle più diverse forme individuali e collettive, socialmente acquisite e trasmesse, di autoaffermazione, forme che possono arrivare fino alla crudeltà”.
Meazzini [3] distingue il comportamento aggressivo nel quale vi è un’azione intenzionalmente orientata a produrre un danno di natura fisica o morale agli altri, dall’intenzione aggressiva che è uno stato d’animo al quale può anche non seguire alcun danno. Vi sono pertanto per quest’autore due concetti diversi in questo termine. In uno, che si collega alla definizione che si trova nella psicoanalisi e nella psichiatria, è presente il concetto di comportamenti aggressivi, a volte soltanto immaginati o fantasticati, mentre in altri casi sono attuate le idee di infliggere un danno o una lesione a se stessi o a un altro individuo.
Per Andreoli [4]il concetto di aggressività è da collegare anche all’etimologia latinaadgressus - adgrediorche significa andare avanti, andare verso, avvicinarsi in modo deciso, determinato. Quest’ulteriore significato indica l’affrontare con coraggio gli ostacoli e le disavventure che nella vita si frappongono ai nostri bisogni e desideri. Quante volte abbiamo sentito dai nostri genitori, specialmente dai nostri padri, frasi come queste: “Domani sarai interrogato, mi raccomando, affronta questa prova con grinta e determinazione”. “Non avere paura del professore”. “Sii forte e deciso nelle risposte che darai; i professori non amano le persone che balbettano ed espongono i concetti in modo timido e titubante”. Anche per Ajuriaguerra l’aggressività, se non eccessiva, può essere considerata una forza dell’Io. Essa è una forza utile al bambino e all’adolescente i quali, se sono allevati al riparo da ogni frustrazione, mancheranno della grinta e dell’energia necessarie per affrontare le vicissitudini della vita [5].
Ciò che unisce tutti questi significati è l’idea di competizione, è la ricerca di un predominio o il concetto di soggiogare chi viene percepito come rivale, nemico o contrasta una nostra aspirazione, un nostro bisogno e desiderio[6].
La genesi dell’aggressività
Le idee sulla nascita dell’aggressività sono diverse e, a volte, contrastanti.
Si discute se l’istinto aggressivo sia innato o appreso e se si accetta che sia appreso, ci si chiede che cosa e quali stimoli lo fanno emergere o lo provocano. Inoltre tra gli studiosi si dibatte ancora se sia un istinto fondamentalmente utile o dannoso.
Per S. Freud l’aggressività è un istinto innato ma distruttivo. Alla base dell’aggressività vi è l’istinto di morte: il Thanatos, che si trova in contrapposizione all’istinto vitale, l’Eros. Per il padre della psicoanalisi l’aggressività è generata continuamente proprio da quel particolare istinto, che si scarica con violenza e distruttività sugli oggetti esterni che ostacolano l’Io, ristabilendo in tal modo l’equilibrio interno dell’organismo. Per tali motivi l’aggressività è in relazione sia allo stato interno dell’organismo, sia all’intensità e alla qualità degli stimoli esterni che la provocano.
Ackerman[7] invece, vede l’aggressività in modo diverso: “Non considero l’aggressività e le tendenze distruttive come l’espressione di un istinto di morte, ma piuttosto come un fuorviamento di un sano processo di adattamento, una difesa, un modo di controllare l’ambiente, di combattere la frustrazione e l’ansia e di asserire la propria identità in situazioni interpersonali”.
Anche per altri autori l’aggressività è un istinto innato ma psicologicamente utile. Ad esempio, per Slepoj[8] l’aggressività è un elemento psicologico rilevante, con molteplici scopi e funzioni. Nel suo aspetto costruttivo è, senza dubbio, uno strumento indispensabile alla difesa, all’intraprendenza e all’autoaffermazione, individuale e collettiva e consente l’esplorazione e la conquista, reale e immaginaria, permette il confronto con il limite, il pericolo e la paura che possono venire ridimensionati proprio dalla fiducia nelle proprie forze e nell’esperienza acquisita.
Per Alexander Mitscherlinch, l’aggressività è una capacità vitale fondamentale che fa parte dell’apparato pulsionale umano allo stesso modo degli organi di cui essa si serve.
Per gli etologi come Lorenz [9], l’aggressività è un istinto indispensabile per preservare la sopravvivenza degli uomini, come degli animali. Questi ultimi, mediante il meccanismo dell’aggressività e della difesa si cibano degli altri animali, difendono la prole, mettono in fuga gli avversari, combattono per la competizione sessuale e quindi per la riproduzione della specie. Lo stesso concetto è espresso dagli psicologi evoluzionisti per i quali il comportamento aggressivo può essere considerato un retaggio culturale arcaico che sin da epoche remote ha assolto un importante scopo adattativo.
Per altri autori invece, questo istinto è provocato dalle frustrazioni o da altri comportamenti limitativi, violenti o aggressivi che provengono dall’ambiente.
Per Alberto Bandura ( 1973, p. 128) le radici dell’aggressività umana non sono né stimoli innati verso la violenza, né pulsioni aggressive, suscitate da frustrazioni. Le persone attaccano gli altri perché hanno acquisito reazioni aggressive attraverso esperienze passate; perché ricevono o si aspettano varie forme di ricompensa nel commettere tali azioni oppure sono istigate all’aggressione direttamente da particolari condizioni sociali o ambientali.
La teoria di Dollard, et al. (1939, p. 128), una delle prime teorie psicologiche sull’aggressività, vede come causa di questa una qualunque frustrazione, cioè una situazione psicologica nella quale il soggetto non riesce a raggiungere l’obiettivo che si era prefissato. L’aggressività può quindi essere legata a un’aspettativa non realizzata ed è tanto maggiore quanto più importante è la motivazione e l’investimento presente nel soggetto che è teso a raggiungere il suo scopo. L’impossibilità di soddisfare i propri bisogni produce un cumulo di energia che deve trovare necessariamente una via di scarico attraverso un comportamento aggressivo che può essere rivolto o verso la reale causa della frustrazione o su un bersaglio secondario che nulla ha a che fare con il mancato soddisfacimento dei propri bisogni, ma che consente all’energia accumulata di liberarsi.
Anche Ajuriaguerra [10], insiste sul ruolo della frustrazione nella genesi dell’aggressività. Pertanto l’aggressività per quest’autore dipenderebbe da privazioni o carenze che alterano le pulsioni costruttive. Dice infatti, questo autore: “Se vi sono fattori ereditari dell’aggressività, come mostrano le esperienze di selezione genetica, si sa anche che l’aggressività è fortemente influenzata dall’ambiente, sia attraverso l’apprendimento, sia attraverso la mancanza di afferenze”.
Secondo il modello cognitivo-neo associazionista gli antecedenti delle condotte aggressive sono rintracciabili nei vissuti di rabbia correlati a situazioni di malessere provate dall'individuo. Bambini cresciuti in un ambiente violento e aggressivo possono reagire perpetuando questi comportamenti anche su altri oppure cercando di allontanarsi da questi. Pertanto, in alcuni casi si hanno reazioni di rabbia, aggressività e violenza, mentre in altri casi la reazione sarà di fuga. La prevalenza di una risposta o di un’altra è determinata dalla combinazione di fattori genetici, situazionali ma anche dagli apprendimenti.
Anche per Mereloo [11] l’aggressività umana non è innata, ma è il risultato della disorganizzazione degli impulsi dovuta a molteplici fattori interni ed esterni e alla mancanza di elementi culturali e di controllo. Egli considera l’aggressività come la risposta a frustrazioni quali la fame, la sete, la mancanza di affetto, di comunicazione con gli altri, di soddisfazione sessuale, di accoglimento.
Per Bonino [12] l’aggressività nasce dall’incapacità di affrontare le situazioni di frustrazione in modo non aggressivo, alla presenza di un imperativo sociale che impone sempre il successo e la massima realizzazione dei propri desideri.
Per i comportamentisti qualsiasi comportamento umano sarebbe acquisito attraverso un processo di apprendimento. Pertanto i comportamenti aggressivi potrebbero essere rafforzati o repressi con un adeguato addestramento. Secondo quest’approccio la risposta aggressiva del soggetto può essere mantenuta come stile abituale d’interazione, nel momento in cui permette di raggiungere un obiettivo desiderato. In pratica, quando il comportamento aggressivo procura al soggetto una conseguenza che lo premia, questa situazione agisce da rinforzo. Pertanto molti comportamenti aggressivi sono rinforzati, più o meno consapevolmente, dall’ambiente di vita del soggetto. Se ad esempio, un bambino con il suo comportamento aggressivo verso il fratellino ha ottenuto il giocattolo di questi, impara che essere aggressivi premia chi si comporta in tal modo. Il comportamento aggressivo può inoltre essere rinforzato quando riesce a evitare una conseguenza sgradita. Così, ad esempio, se con la sua aggressività verbale il bambino ha ottenuto di non eseguire il compito richiesto dai suoi genitori, egli avrà appreso che questo comportamento è un’ottima strategia per evitare incarichi indesiderati.
Per Scott citato da Ajuriaguerra[13] il comportamento aggressivo è appreso e l’abitudine di attaccare non compare se non progressivamente nel corso della giovinezza dell’animale, quando questi fa le sue esperienze lottando per il cibo e scontrandosi con i giovani della sua età.
Per Hacker [14] l’aggressività può nascere dall’invasione dello spazio vitale e personale: “Ogni individuo e ogni civiltà considerano uno spazio vitale personale, la cui invasione genera una sensazione di perdita di autonomia e della dignità, come una cosa sacrosanta e sacra, così come considerano santificatrice l’aggressione necessaria per la difesa della sua inviolabilità”.
Per lo stesso autore[15]: “Per una sorta di costrizione biologica l’uomo tenderebbe al possesso nonché al massimo prestigio possibile. La conquista del rispetto dei suoi simili, acquisibile soltanto con la lotta violenta, sarebbe una necessità naturale, istintiva”.
La funzione adattativa spiegherebbe i livelli elevati di aggressività presenti tra i maschi di varie specie animali nei quali è uno strumento per difendersi dagli attacchi, per intimidire gli altri maschi o le femmine rivali, al fine di evitare tradimenti sessuali, ma sarebbe anche un mezzo per acquisire risorse che si ritengono utili o indispensabili per sé o per la comunità nella quale il soggetto vive. Tuttavia, mentre negli animali il comportamento aggressivo si manifesta con condotte stereotipate e ripetitive, nell’uomo questo istinto può e dovrebbe essere modulato dai centri corticali superiori, che sono nettamente influenzati dai valori morali, sociali e religiosi.
Infine per Bollea [16]: “L’aggressività può dare comportamenti negativi e più tardi distruttivi, solo ed essenzialmente come reazione ad un conflitto esterno o interno, conflitto che, a seconda del periodo evolutivo in cui è sorto, fissa, in parte, anche per i periodi successivi la modalità dell’aggressività propria di quel periodo”.
Per concludere, anche se è difficile dire quanto “d’innato" e "quanto di reattivo e/o acquisito" possiamo riconoscere nel comportamento aggressivo dell'uomo e nonostante che sulla nascita e sulla funzione dell’aggressività non tutto sia chiaro, qualcosa tuttavia conosciamo:
· Sappiamo che esiste. Le guerre presenti costantemente in ogni periodo storico in molte parti del pianeta, le continue uccisioni, i ferimenti e gli altri segnali, anche se non sempre cruenti, dell’aggressività, presenti in ogni città, in ogni condominio come in tante famiglie, costellano la storia dell’umanità fin da Caino e Abele.
· Sappiamo che è presente in ognuno di noi. Chi non ha provato risentimento e appunto aggressività, quando qualcuno ci ha fatto volutamente del male fisico o morale, ci ha sottratto qualcosa che ci apparteneva o non ci ha dato quanto ci spettava?
· Sappiamo che in vario modo è presente in tutte le persone che stanno accanto a noi, tanto che possiamo tranquillamente affermare che buona parte delle sofferenze subite nella nostra vita sono state causate da persone che hanno sfogato su di noi le loro emozioni negative.
· Sappiamo che in varie forme è presente in tutte l’età e in tutti i sessi. Emozioni, pensieri e azioni aggressive sono presenti, fin dalla nascita e in tutti i periodi della nostra vita. Esistono nel bambino piccolo, ad esempio quando è rimproverato, punito o quando non accetta i “no” e le imposizioni degli adulti, anche dettate a fin di bene, come esistono nell’adolescente, nel giovane o nell’anziano. Allo stesso modo l'aggressività esiste negli uomini come nelle donne, negli omosessuali come nei transessuali.
· Sappiamo che l’aggressività è legata molto all’educazione ricevuta ma anche ai profondi vissuti interiori, all’ambiente di vita e alle sofferenze subite soprattutto nell’infanzia. Pertanto il nostro passato insieme all’ambiente nel quale abbiamo condotto le nostre esperienze condiziona pesantemente le motivazioni che portano a comportamenti aggressivi, la loro gravità e frequenza ma anche i modi scelti per esprimerla.
Aggressività fisiologica e patologica
In base alla gravità e alla modalità con la quale si manifesta possiamo distinguere l’aggressività fisiologica da quella patologica.
L’aggressività fisiologica è un’emozione, un pensiero o azione dannosa che si mette in atto quando vogliamo difendere dagli altri qualcosa che ci è caro, qualcosa che per noi è molto importante. Negli esseri umani l’aggressività fisiologica si attiva ogni volta che è necessario difendere il proprio corpo, i propri beni, la propria onorabilità, la propria famiglia, la nazione nella quale si vive, il proprio status sociale, il proprio lavoro o altri beni ritenuti essenziali o importanti, senza che si voglia o si possa affidare questa difesa ad altri o alla legge.
Questa difesa può attivarsi anche soltanto con una modalità mentale ed emotiva, per cui non è assolutamente detto che si traduca in un’azione violenta nei confronti degli altri. Molti animali ottengono lo scopo di difendere il proprio territorio, il cibo trovato o ancor più i propri cuccioli indifesi, utilizzando semplicemente dei comportamenti capaci di far capire agli intrusi la disponibilità alla difesa attiva. Allo stesso modo anche i genitori, con un’occhiataccia o con un tono di voce particolare, spesso minacciano di punire i figli quando questi non ubbidiscono o hanno un comportamento non opportuno. Lo stesso fanno i fratelli maggiori quando vogliono intimidire i fratellini prepotenti.
Si parla di aggressività patologica quando i pensieri o i comportamenti aggressivi sono sproporzionati, persistenti e si manifestano verso persone o animali che non ci hanno procurato alcun danno fisico o morale, né hanno cercato di impossessarsi dei nostri beni, né avevano alcuna intenzione di fare ciò. Nel caso dei genitori è aggressività patologica quella che si manifesta verso i figli con continui e ingiustificati rimproveri, minacce e punizioni o parole di discredito. In tutti questi casi tuttavia, come vedremo inseguito, qualcosa o qualcuno ha aggredito, tormentato e fatto soffrire il soggetto, animale o persona che sia, nel passato; pertanto è da considerarsi solo apparentemente immotivata quella collera, che è esplosa in seguito.
Aggressività patologica è anche quella rivolta verso se stessi (aggressività autodiretta o centrifuga). In questi casi la sua forza distruttiva si ripercuote e si dirige verso il proprio corpo: il soggetto si strappa i capelli, si morde le mani, si schiaffeggia il viso, si ferisce le braccia, le gambe o altre parti del corpo e, a volte arriva anche ad uccidersi.
Gli scopi dell’aggressività autodiretta o centrifuga, possono essere diversi:
• Comunicare nel modo più drammatico a chi ci sta vicino la presenza in noi di problematiche psicologiche rilevanti o l’intima sofferenza provata in quel momento o in quella fase della vita.
• Ci si autopunisce per sensi di colpa veri o presunti; per azioni, pensieri o comportamenti ritenuti gravemente ingiusti, sciocchi, inopportuni o sconsiderati. In questi casi il soggetto si colpevolizza, si auto-rimprovera, si auto-accusa, si fa del male e rischia di perdere in modo stabile la stima di sé, giacché non trova, o preferisce non trovare, un obiettivo esterno su cui orientare il proprio scontento, mentre aumentano i sintomi depressivi e i sentimenti d’inferiorità. Quando l’Io non riesce più a gestire questi conflitti, ne può soffrire il corpo, per cui si potranno manifestare alcune affezioni psicosomatiche, come la cefalea, la nausea, le gastroenteriti, il vomito ecc. In questi casi possono anche diminuire le difese immunitarie e, conseguentemente, è facilitata l’insorgenza delle malattie virali e batteriche.
• Altre volte il farsi del male, mediante il dolore fisico, serve a diminuire o distrarre l’attenzione del soggetto dalla sofferenza psicologica interiore vissuta in quel momento.
• Nei casi più drammatici, con la propria morte si vuole eliminare del tutto la sofferenza fisica o quella psicologica.
In tutti i casi di aggressività patologica, quanto più i pensieri o gli atti aggressivi sono immotivati, intensi, frequenti o distruttivi, tanto più il disturbo psicologico potrebbe essere importante e grave. Pertanto il soggetto che reagisce violentemente in maniera ingiustificata e, almeno apparentemente incomprensibile, sia verso gli altri sia verso se stesso, necessita di particolari attenzioni e cure adeguate.
Le manifestazioni dell’aggressività
L’astio e il rancore. Il rimuginare i torti e le offese subite per molto tempo porta al rancore e all’astio. In alcuni casi la persona offesa, derubata o in qualche modo ferita, non sa decidersi se attuare o no la vendetta, tuttavia non riesce lo stesso a perdonare l’offesa ricevuta, per cui la sofferenza per il torto subìto è continuamente autoalimentata. In questi casi il tempo trascorso serve solo a trovare il modo migliore e più efficace per attuare le ritorsioni più volte immaginate.
L’aggressività ostile. Al contrario, quando l’aggressività nasce da un’intensa emozione di disprezzo, odio, rivalsa o vendetta verso chi ci ha fatto del male e si manifesta a caldo si ha l’aggressività ostile. La maggior parte degli omicidi rientra nella categoria dell’aggressività ostile. Circa la metà di questi avviene a causa di liti, il resto per motivi passionali, per uso/abuso di alcool e narcotici. La natura emotiva di tali omicidi ci fa capire come la scelta della pena di morte ancora presente in molte nazioni, non sia uno strumento efficace di dissuasione dal commettere tali reati.
L’impotenza. Un altro percorso dell’aggressività può portare all’impotenza. In questi casi il soggetto non riesce a reagire all’offesa o danno subito, per cui tende a deprimersi e chiudersi in se stesso, manifestando un comportamento apatico e stanco. Nello stesso tempo può lamentare mal di testa, inappetenza e stanchezza. Pertanto la sua aggressività si nasconde dietro i lamenti, le lagne e lo scoraggiamento.
Aggressività sublimata. La sublimazione dell’aggressività permette la trasformazione dell’energia aggressiva in energia neutra a disposizione dell’Io[17].
Le funzioni dell’aggressività
L’aggressività, a seconda dei vari scopi, può essere:
Predatoria o strumentale. Questa viene attuata al fine di ottenere dagli altri qualcosa che potrebbe esserci utile o servirci. Essa nasce con lo scopo di sopraffare l’altro per raggiungere determinati scopi e obiettivi: religiosi, politici, sessuali, economici, terroristici o di conquista. Pertanto questo tipo di aggressività è orientata a risolvere un problema od ottenere un vantaggio. Per tali motivi è premeditata e non è condizionata dalla rabbia.
Competitiva. Questa si attua nei confronti degli altri esseri umani o anche nei confronti degli animali o verso elementi naturali che ostacolano i nostri bisogni o desideri. Ad esempio, bruciare o distruggere le foreste per piantare dei cereali oppure allontanare gli animali e gli indigeni che abitano un territorio ricco di minerali preziosi, per poi poterli sfruttare.
Difensiva o reattiva. Si attua quando mettiamo in atto un comportamento o un atteggiamento aggressivo nel momento in cui gli altri pretendono, richiedono o potrebbe ledere qualcosa che ci appartiene, qualcosa che potrebbe essere utile per noi, per i nostri cari o la comunità alla quale apparteniamo: un oggetto, un amore, una casa, un ruolo e così via. Questo tipo di aggressività è frequentemente associato a sentimenti di rabbia e alla perdita del controllo emozionale.
Territoriale. L’aggressività si manifesta per difendere la comunità della quale facciamo parte oppure un territorio nel quale viviamo e dal quale ricaviamo il nostro sostentamento.
Apparente. È quella che si attua quando si fa soffrire o si fa del male fisico o morale a qualcuno per gioco, senza volerlo o senza esserne consapevoli. Aggressività apparente è quella molto spesso presente nelle zuffe tra fratelli o nelle lotte attuate tra maschietti nei cortili o sui lettoni dei genitori. Questi comportamenti spesso hanno semplicemente degli intenti di tipo ludico oppure servono a dimostrare e mettere a confronto la propria forza, la propria agilità, la potenza virile o il proprio coraggio. Aggressività apparente è anche quella presente nei bambini, quando questi rompono un giocattolo per capire com’è fatto o per capire il suo funzionamento. È sempre aggressività apparente quella presente nei bambini o nei soggetti disabili quando, in maniera maldestra, in un eccesso d’amore stringono eccessivamente un pulcino o un animaletto, fino a fargli male o quando utilizzano questi per giocare, scoprire, conoscere e capire come sono fatti, senza tuttavia avere la consapevolezza di procurare, alle loro povere vittime, dolore, danno o perfino la morte Anche noi adulti non siamo esenti dai gesti di aggressività apparente quando facciamo del male fisico o morale ad altre persone per disattenzione, noncuranza, sbadataggine o per eccessiva imprudenza, senza tuttavia provare alcun sentimento negativo nei confronti delle vittime.
Tutti i tipi di comportamenti aggressivi sia negli animali che negli uomini non sono presenti nella stessa misura e, in base all’età, al sesso e alle esperienze avute, differiscono anche tra individui della stessa specie.
Tratto dal libro di Emidio Tribulato: “Ti odio!”- Conflitto e aggressività e violenza tra i sessi”.
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[1] Galimberti U. (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, Vol. 1, p. 35.
[2]Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 66.
[3] Meazzini P. (2006), L’ira di Achille, come dominare la collera, quando è necessario, Milano, Giunti, pp. 8-9.
[4] Andreoli, V. (1995), La violenza – dentro di noi, attorno a noi, Fabbri editore Corriere della sera, Milano, p. 9.
[5] Ajuriaguerra J.(1993), Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, p. 474.
[6] Galimberti U. (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, Vol. 1, p. 35.
[7] Ackerman N.W., (1968), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Bollati Boringhieri, p. 79.
[8] Slepoj V. (2005), (Milano), Le ferite degli uomini, Arnaldo Mondadori Editore, p. 165.
[9] Lorenz K. (1997),Vorrei diventare un'oca. L'autobiografia e la conferenza del Nobel, a cura di Elena ed Enrico Alleva, Franco Muzzio Editore, Padova.
[10] Ajuriaguerra J.(1993), Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, p. 472.
[11] Mereloo J.A.M., (1968), La violence humaine opposée à l’aggressivité animale, Med et Hyg. 821, 457- 462.
[12] Bonino S., (2012), “L’assurdità delle punizioni fisiche: Ti picchio per insegnarti a non picchiare”, Psicologia contemporanea, gennaio-febbraio, p. 14.
[13] Ajuriaguerra J. (1993), Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, p. 471.
[14] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 88.
[15] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 83.
[16] Bollea G., (1985), “L’aggressività nell’età evolutiva”, Federazione medica, XXXVIII – 3, p. 267.
[17] Ajuriaguerra J.(1993), Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, p. 474.