Uno degli elementi fondamentali per un'infanzia soddisfacente e ricca è la possibilità di giocare. Il gioco è forse l'elemento comune, più importante e frequente, tra gli animali superiori. Vi è, inoltre, un rapporto diretto tra sviluppo psicoaffettivo, intellettivo e cognitivo dell'essere vivente e l'attitudine a giocare. Gli animali inferiori, che hanno istinti ereditari già prefissati, non giocano affatto. I loro piccoli si comportano come gli adulti fin dall’inizio della loro esistenza e, pertanto, il patrimonio della specie non ha ulteriori sviluppi.
Le capacità degli animali superiori sono in relazione alla quantità e alla durata che essi dedicano al gioco. In quanto è attraverso questa attività che essi acquisiscono sempre di più esperienze. Il piccolo agnello gioca poco, il gattino molto di più, gli scimpanzé giocano anche da adulti, ma nessuno ha la capacità di giocare con tanta continuità ed assiduità come il piccolo dell’uomo.[1] Ma anche l'adulto, uomo o donna che sia, non riesce a fare a meno del gioco in alcuni momenti della giornata. Quest’attività gli permette alcuni necessari e indispensabili momenti di scambio, evasione, rilassamento, piacere e gioia. Per il bambino il gioco rappresenta la strada maestra per la sua crescita, in quanto quest’attività è:
• Piacere. Il bambino gode di tutte le esperienze fisiche e affettive vissute durante il gioco.
• Strumento di esplorazione e conoscenza. Del proprio corpo e del corpo degli altri, degli oggetti inanimati, del mondo che lo circonda e della natura. Il gioco è anche esplorazione e conoscenza delle emozioni e dei sentimenti.
• Stimolo allo sviluppo motorio e intellettivo. Mediante il gioco il bambino stimola e sviluppa il pensiero, il linguaggio, la progettualità, l’agilità, la forza, la memoria, la coordinazione occhio - mano, la spazialità.
• Veicolo privilegiato di comunicazione e socializzazione. Con il gioco i piccoli ampliano i contesti delle loro relazioni e apprendono a comunicare più efficacemente con gli altri. Comprendendo il punto di vista di chi hanno di fronte diventano consapevoli dei loro sentimenti e bisogni. Mediante il gioco imparano l’importanza delle regole e la loro accettazione, ampliano i primi scambi sociali con gli adulti.
• Mezzo per lo sviluppo della creatività e della fantasia. Mediante oggetti semplicissimi: qualche legnetto, poche pietre, un po’ di fango, oppure mediante una matita e qualche foglio uniti a tanta immaginazione e inventiva, il bambino riesce a costruire mille favole e infinite storie, nelle quali si muovono eroi e principesse, draghi e macchine volanti, robot e armi spaziali.
• Mezzo per il contatto e il controllo delle proprie emozioni. Giocando con gli altri coetanei e adulti il bambino riconosce la gioia della vittoria, il sapore bruciante della sconfitta, il calore dell’amicizia, dell’affetto e dell’amore. Impara ad affrontare i piccoli contrasti e le tensioni che si avvertano nel rapporto con se stessi e con il prossimo. L’attività ludica ‹‹allorché assume la veste di gioco simbolico, drammatico, di ruolo e di finzione assolve, attraverso rituali iterativi e meccanismi di identificazione e di proiezione, ad una preziosa funzione liberatoria e terapeutica, esorcizzando paure e angosce liquidando impulsi aggressivi, distruttivi e vissuti di ostilità››.[2]
• Palestra per l’autonomia personale e sociale. È anche mediante il gioco che il bambino acquista fiducia in se stesso e negli altri. Impara, quindi, a fare a meno dell’aiuto e del supporto continuo dei genitori nei suoi bisogni quotidiani.
• Occasione per la sua formazione morale e civile. Nel gioco di gruppo, governato da regole fisse e cogenti, il soggetto impara a osservare le norme e a improntare il proprio comportamento a principi di lealtà, correttezza e rispetto per l’avversario; apprende a testimoniare atteggiamenti di fedeltà al proprio gruppo o banda; riconosce l’importanza dell’avvicendamento, della cooperazione, della distribuzione dei compiti e della turnazione. Tutte queste acquisizioni confluiscono alla sua formazione di uomo e di cittadino.
• Occasione per rafforzare la sua volontà. Molti giochi di pazienza, di costruzione, competitivi, di squadra, rafforzano la volontà, plasmano il carattere, servono anche ad instaurare un progressivo controllo sulle proprie emozioni e pulsioni.
• Opportunità per mettersi in contatto con la natura. Il rapporto diretto con la natura è fondamentale nello sviluppo dei minori, come degli adulti. Per milioni di anni l’essere umano si è sviluppato attraverso il contatto con i fiori e i frutti delle piante, con la vivacità e l’amore degli animali, con le acque dei fiumi e dei ruscelli.
I vari tipi di giochi
I primi giochi del bambino, che sono poi giochi di esplorazione della realtà nella quale si trova immerso, sono instaurati con la madre e con il proprio corpo. Quando la mamma lo nutre egli tocca e stringe il seno di lei e, successivamente, il viso e i capelli. Più tardi egli giocherà con le proprie mani e con i propri piedi.
Mediante i giochi sensomotori o giochi – esercizio, il bambino perfeziona i movimenti, i gesti, costruisce gli schemi motori.
Mediante l’imitazione dei suoni, della mimica facciale, e poi delle parole, impara a riconoscere e ad esprimere le emozioni. Gli aspetti presenti nel gioco possono essere quindi di vario tipo.
Diffusissimi i giochi nei quali i bambini sono stimolati a costruire qualcosa (giochi di costruzione) o quelli nei quali si cimentano e si confrontano con i loro coetanei ma anche con i genitori e gli adulti. Giochi, questi, nei quali bisogna utilizzare l'attenzione, la bravura, l'agilità e le conoscenze (giochi di abilità).
Quando imitano la mamma ed il papà nei loro lavori di casa o nelle loro attività professionali, siamo in presenza di un gioco imitativo o di un gioco sociale. In questi giochi i bambini sperimentano azioni, emozioni e comportamenti di persone, situazioni e ruoli. Pensiamo ad una bambina che chiede alla mamma una pezzuola per spolverare la casa o a un bambino che apre la scatola degli attrezzi di papà per aggiustare le porte di casa. È un gioco sociale anche quello effettuato da due amichette che si ritrovano insieme per vestire i loro “figli” e poi preparano a questi un buon pranzetto, prima di portarli a passeggio o a letto dopo averli cullati a lungo. Con tali giochi il bambino sviluppa le capacità sociali ed empatiche che gli permettono di mettersi nella prospettiva dell’altro. In quei momenti egli sente come propri il potere degli adulti e le loro numerose doti, mentre nel contempo acquisisce e perfeziona le norme che regolano la condotta umana.
Se dopo aver visto un film o un cartone animato un bambino si arma di spada e scudo spaziale ed è pronto a lottare con il suo amichetto per salvare il mondo, siamo, invece, in presenza di un gioco rappresentativo.
Quando un bambino piccolo e fragile si finge un forte adulto, così da correggere la realtà, modificandola in funzione dei suoi desideri, siamo in presenza di un gioco compensativo. Vi sono poi i giochi che hanno la funzione di eliminare le esperienze penose o inquietanti, di compensare le frustrazioni rivivendole per mezzo della finzione (giochi funzionali).
Nei giochi il bambino può attuare tutto quello che non può fare nella realtà, ed il mondo dei giochi diventa una specie di rifugio dalla continue esigenze del mondo esterno, al quale potrà tornare più disteso.[3] Ma i giochi non sono soltanto imitazione. Quando copia la mamma che cucina, cuce, fa la spesa, cura i piccoli, non solo imita la propria madre o le madri in generale, ma sperimenta nuove modalità di comportamenti ed atteggiamenti filtrati dalla sua personalità e dai bisogni individuali del momento che sta vivendo. In altri giochi è la fantasia ad essere utilizzata e messa in primo piano per costruire fortezze e castelli nei quali vivono fate, re, regine e draghi, ma anche eroi pronti a salvare i più deboli e indifesi (giochi immaginativi). Per finire, i bambini sono attratti anche dai giochi didattici nei quali è predominante il piacere di imparare.
Nello spazio di due ore il bambino di due anni e mezzo partecipa in media a sei-sette situazioni immaginarie.
Importanza del “Gioco Libero Autogestito”
I giochi, come sappiamo, possono essere:
1. Guidati. In questo caso i genitori, gli insegnanti o altri adulti, in base agli obiettivi che si propongono, utilizzando strumenti e metodologie particolari guidano il gioco dei bambini così da ottenere determinati risultati.
2. Liberi. In questo caso i bambini sono totalmente indipendenti dalle indicazioni degli adulti e seguono soltanto delle norme e delle regole che essi stessi si danno giorno per giorno, momento per momento.
3. Autogestiti. I giochi possono essere gestiti da tutti i partecipanti all’attività o da uno solo di essi (gioco autogestito). In quest’ultima modalità è solo il bambino interessato alla terapia a condurre il gioco. Pertanto, quando egli coinvolge l’adulto o il terapeuta, compito di questi è solo quello di comprensione, aiuto e supporto ai suoi bisogni del momento.
Per quanto riguarda i bambini con Disturbo Autistico sono nettamente da preferire i giochi liberi e autogestiti, in quanto solo questo tipo di giochi permette loro di utilizzare questo primario strumento formativo, tenendo conto delle personali preferenze e degli individuali bisogni del momento. Bisogni che il terapeuta non dovrà mai criticare o mettere in discussione, tranne che non comportino un reale pericolo per l’incolumità del bambino o di altre persone. In definitiva, nella tecnica del “Gioco Libero Autogestito” è lui, il bambino gravemente disturbato, il vero leader, mentre il terapeuta assume il difficile ruolo di gregario.
Ciò ci permette di raggiungere due fondamentali obiettivi:
- una maggiore serenità interiore;
- una maggiore fiducia negli altri, nel mondo e in se stessi.
Nel momento in cui saremo riusciti a raggiungere, anche solo in parte, questi due obiettivi vedremo migliorare nettamente tutto il corollario di sintomi presenti nel bambino con Disturbo Autistico.
Per poter fare ciò è necessario mettere il piccolo al riparo da ogni intrusione. Ogni intervento esterno rischia, infatti, di accentuare o stabilizzare la sua ansia interiore ed il suo malessere, piuttosto che alleviarlo, in quanto, come abbiamo detto, i bambini con Disturbo Autistico sono estremamente sensibili alle frustrazioni e spesso reagiscono negativamente a tutto ciò che proviene dal mondo esterno, verso il quale nutrono una notevole diffidenza e reattività.
Pertanto ogni iniziativa del terapeuta, anche la più lodevole, che però non è stata da questi bambini richiesta e voluta in quel momento, viene vista come un’ulteriore violenza da parte del mondo esterno e ciò non fa altro che riacutizzare le loro paure e ansie, con conseguente accentuazione della diffidenza e conseguente messa in atto di ulteriori difese nei confronti degli altri e del mondo.
Inoltre se è il terapeuta a scegliere l’attività da proporre al bambino, data l’estrema varietà e complessità dei vissuti interiori presenti nella psiche di lui, è molto facile che sbagli e, sbagliando, non solo non migliorerà la condizione del bambino, ma correrà il rischio di accentuarla. Se, invece, lasciamo a quest’ultimo la scelta dell’attività o del gioco da effettuare, la possibilità di commettere questi errori si annulla e, nel contempo, si mette il bambino in una condizione di piena autonomia e libertà, condizione, questa, che gli permette di essere soggetto attivo del suo cambiamento e non più soggetto passivo.
Per evitare, quindi, di peggiorare questo loro mondo interiore e il difficile rapporto che essi hanno nei confronti degli altri esseri umani, il terapeuta si limiterà soltanto a collaborare alle attività del bambino e ai suoi giochi, anche se questi possono sembrare ripetitivi, inutili, sciocchi o peggio crudeli.
Le difficoltà nell’attuare il “Gioco Libero Autogestito”
Le maggiori difficoltà nell’attuare la terapia del “Gioco Libero Autogestito” non risiedono nel bambino ma nell’adulto: non importa se genitore, insegnante, psicologo o medico.
È l’adulto, purtroppo, che tende a giudicare il bambino come un essere il quale, essendo per definizione immaturo e con scarse conoscenze, non solo non è in grado di capire il suo stato fisico e psichico ed i suoi problemi, ma soprattutto non è in grado di aiutare se stesso, mentre la persona adulta, essendo più ricca di cultura e conoscenze, sa cosa va bene per ogni bambino, in ogni momento della vita di lui. L’adulto pensa di sapere sempre cosa è utile al bambino e cosa gli è dannoso, per cui erroneamente desume che il suo compito e ruolo non possono prescindere dall’indirizzare ed educare ogni minore con il quale si rapporta. Se poi il bambino è gravemente disturbato non vi è alcun dubbio: solo un adulto e per giunta molto colto e preparato, può conoscere ciò che al bambino è utile, ciò che lo farà stare bene, ciò che risolverà i suoi problemi.
Nei rapporti con i bambini che presentano Disturbo Autistico questo atteggiamento e questa presunzione sono assolutamente errati, in quanto le conoscenze che ha l’adulto, anche se molto preparato, della vita intima di un bambino sono molto scarse e incomplete. Già per l’adulto è difficile conoscere le emozioni, le paure ed i bisogni che si agitano, in alcuni momenti e periodi della vita dentro l’animo di un bambino “normale”, in quanto le capacità dei piccoli di tradurre in parole i loro stati d’animo sono molto scarse e limitate. A maggior ragione è estremamente difficile e quasi impossibile, per l’adulto conoscere quello che si agita dentro l’animo di un bambino affetto da un grave disturbo psichico.
E ciò per vari motivi:
1. La sua visione di adulto, le sue informazioni, ma anche i suoi bisogni personali del momento, collaborano a deformare l’immagine della realtà presente nella vita intima di questi bambini, impedendogli di vedere al di là delle proprie conoscenze razionali e dei propri canoni.
2. Le numerose emozioni presenti in ogni momento nella psiche di questi bambini sono talmente lontane dalla realtà vissuta quotidianamente dagli adulti, sono tanto intense, mutevoli e spesso anche tanto confuse e contraddittorie, da risultare, per gli adulti, come dei rebus di difficile, se non impossibile soluzione.
3. Non è infrequente, inoltre, constatare che gli adulti vogliono vedere nel bambino ciò che preferiscono o ciò che in quel momento è per loro più conveniente. Per cui, ad esempio, un bambino che soffre, in quanto ha dovuto subire giornalmente le influenze negative dei disturbi psicologici dei genitori, la loro scarsa e saltuaria presenza affettiva e relazionale o peggio i loro conflitti, le aggressioni reciproche, il loro allontanamento, diventa un bambino aggressivo, capriccioso o scioccamente geloso, bisognoso soltanto di essere messo in riga con sacrosanti rimproveri e castighi. Per non parlare dell’altro escamotage, oggi così diffuso nel mondo degli adulti, che è quello di vedere, nei bambini che presentano dei disturbi psicoaffettivi, una serie di deficit da correggere, piuttosto che da capire. Pertanto se il bambino manifesta instabilità, tristezza, disturbi del comportamento, chiusura, difficoltà nella comunicazione, la causa è sicuramente da ricercarsi in qualche gene difettoso o in un misterioso disturbo psico-neuro-biologico. Di conseguenza, questo bambino ha bisogno solo di assistenza, educazione o “rieducazione" da parte di qualche servizio, generosamente reso disponibile dalle ASP o dai privati.
Facciamo qualche esempio di quanto abbiamo detto:
Lui non ci guarda direttamente negli occhi, non accetta la nostra vicinanza fisica, né tantomeno sopporta l’essere abbracciato. Questo suo comportamento ci umilia, ci confonde, ce lo fa sentire lontano, per cui cerchiamo di fare la cosa che ci sembra più giusta e corretta: ci impegniamo a farci guardare interpellandolo continuamente o mettendoci davanti a lui chiedendogli direttamente di guardarci negli occhi quando desidera qualcosa. Allo steso modo cerchiamo di superare le sue ritrosie nell’abbracciarci, stringendolo di più a noi.
Per l’adulto che si pone in funzione educativa è difficile capire ed è ancora più difficile accettare che il bambino con Disturbo Autistico non ci guarda in quanto il suo animo è sconvolto da infernali emozioni, da ansie, paure e tensioni inaudite. È difficile capire e accettare che dentro di lui vi è l’angosciosa sensazione che il mondo, le persone che lo popolano, ma anche gli oggetti siano la causa del suo malessere e siano là, ancora pronti a continuare a fargli del male. Per cui a questo bambino, pervaso e scosso dall’angoscia e dalle paure, è impossibile guardare negli occhi, sorridere ed abbracciare chi ritiene gli abbia fatto e gli continua a fare dei torti gravissimi.
Lui non parla, ma noi vogliamo che comunichi e dialoghi con noi e questo ci spinge a fare di tutto per insegnargli il linguaggio. Lo stimoliamo a ripetere le nostre parole, non gli diamo qualcosa a cui lui tiene se non lo chiede verbalmente, lo portiamo due, tre volte la settimana ad effettuare logoterapia, ma abbiamo difficoltà a pensare, a capire e ad accettare che in realtà lui non ha alcun bisogno che qualcuno gli insegni a parlare. Se potesse esprimere i propri desideri, ci chiederebbe soltanto di allontanare dalla sua mente e dal suo animo le nere, paurose angosce che lo disturbano. Ci chiederebbe soltanto di fargli avere un pizzico di serenità in più, un po’ più di gioia, maggiore senso di sicurezza e fiducia nel mondo ed in se stesso, maggiore equilibrio e chiarezza interiore. Perché solo dopo queste premesse, le sue parole sarebbero pronte a sgorgare dalle sue labbra e dal suo cuore.
Se parla, ma ripete in modo sgrammaticato le frasi che ha udito dalla mamma o da altri adulti, come trattenersi dal correggerlo e dal cercare di fargli pronunziare le frasi in modo corretto? Anche in questo caso è difficile accettare che quel suo strano modo di parlare in terza persona è uno dei tanti segnali che evidenziano la presenza in lui di un Io ancora molto immaturo e notevolmente disturbato.
Se ride quando non dovrebbe e in modo improprio, come non cercare di correggerlo affinché manifesti la sua allegria nei modi corretti e nei momenti opportuni? certamente gli adulti si comporterebbero diversamente se capissero che quel suo atteggiare i muscoli facciali al riso e al sorriso, indipendentemente dalle situazioni esterne ed interne, è il modo migliore che il bambino ha trovato per diminuire, almeno momentaneamente e parzialmente, la sua ansia e, nello stesso tempo, farsi più facilmente accettare dagli altri.
Noi non vogliamo che faccia gesti e comportamenti ripetitivi, che ci mettono in imbarazzo ed in difficoltà davanti agli amici ed ai parenti e allora lo preghiamo, lo minacciamo, lo puniamo, lo blocchiamo, affinché smetta di compiere quei movimenti inutili, sempre uguali che ci esasperano come operatori e che ci umiliano come genitori. Eppure, almeno in questo caso, non dovrebbe essere difficile capire che questi movimenti ripetuti sono, in fondo, il miglior sistema che egli è riuscito a trovare per non essere sommerso dall’angoscia e per proteggersi dalle paure, così da trovare un minimo di serenità interiore.
Noi non vogliamo che faccia del male e tantomeno possiamo tollerare che si faccia del male. Quale genitore, quale insegnante o adulto può rimanere indifferente davanti ad un bambino che sbatte la testa sul muro, che si dà pugni sul viso o sul corpo, che si lacera la pelle con le unghie, che si morde le dita. In questi casi cosa c’è di più logico e umano che intervenire in tutti i modi possibili, anche bloccandolo fisicamente, affinché smetta questo suo comportamento, togliendogli le mani dal viso o dalle braccia per evitare che si graffi o allontanandolo dalla parete su cui sbatte il capo? Allo stesso modo non vogliamo che si comporti in modo sadico e crudele verso le povere, innocenti bambole sbattendole a terra, così come inorridiamo quando aggredisce gli altri bambini e gli altri adulti, anche per futili motivi. In tutti questi casi ci sembra logico e naturale rimproverarlo aspramente e punirlo severamente, oppure nel momento in cui riusciamo a contenere la sua e la nostra rabbia, dirgli e fargli capire in maniera dolce e delicata che questi gesti non si fanno, che non è bello, che non è giusto, che i bambini buoni ed educati non fanno queste cose. Purtroppo, però, l’aggressività continuerà a persistere o si accentuerà, fino a quando non troverà qualcuno che, rispettando fino in fondo i suoi stati d’animo ed i suoi bisogni interiori, gli permetterà di esprimere sotto forma di gioco l’aggressività che come un fuoco interiore lo pervade e lo sconvolge.
Noi vogliamo che socializzi con gli altri bambini della sua età. È così bello vedere dei bambini che giocano e ridono insieme! È così bello vedere dei bambini che imparano dal rapporto con altri coetanei il rispetto reciproco. È così triste vedere il nostro bambino seduto in un angolo della casa in compagnia soltanto di una rotellina da far girare per ore! E allora il più presto possibile, anche prima dei tre-quattro anni lo inseriamo in un asilo nella speranza che il rapporto con altri suoi coetanei lo stimoli ad aprirsi al gioco e alla relazione. Per quanto riguarda, poi, i bambini affetti da problematiche psicoaffettive essi, già provati e affettivamente traumatizzati, rischiano di aggravare la loro condizione in quanto, il legame difficile, patologico, scarso o assente con i loro genitori può peggiorare a causa dell’ulteriore sofferenza e frustrazione dovuta all’inserimento in un asilo nido.
Purtroppo i risultati sono raramente positivi in quanto questo ambiente troppo rumoroso e ricco di stimoli piuttosto che rasserenarlo spaventa il bambino e lo sconvolge ancora di più. Ed inoltre si rischia di aggiungere alle esperienze negative che abbiamo descritto precedentemente: di non essere ben capito, accettato e curato da parte dei suoi genitori o della sua famiglia, una nuova e traumatizzante esperienza. Infatti, per un bambino che già vive tormentato dalle ansie, dalle paure, dai conflitti e dalle tristezze, acquista un significato ben preciso di segno negativo, l’essere allontanato dal suo ambiente naturale, dalla casa, dalla stanza e dagli oggetti che gli procurano un minimo di serenità, per essere inserito, senza tener assolutamente conto dei suoi bisogni, in un luogo sconosciuto, con altri bambini e altri adulti altrettanto sconosciuti, i quali non sono in grado di mitigare i suoi problemi, le sue ansie e le sue paure. Ai suoi occhi e al suo cuore questo comportamento dei genitori conferma la sensazione di non essere un bambino buono, bravo, desiderato e degno di amore. Pertanto la necessità di allontanarlo dalla sua famiglia può assurgere ai suoi occhi al valore di una punizione per i suoi pensieri negativi o i suoi comportamenti di bambino “cattivo”.
Per non parlare delle attività didattiche. Se ha tre quattro anni il nostro impegno didattico si concentrerà su tutte le attività che possono preparare le sue mani e la sua mente al grafismo, alla lettura, alle quantità e numeri, alle relazioni spazio temporali e così via. Se ha compiuto cinque – sei anni, ci sentiamo responsabilmente impegnati affinché apprenda la tecnica della lettura, della scrittura e dell’aritmetica. Così come ci sembra importante che conosca alcuni degli argomenti studiati nella sua classe di appartenenza. In questo caso siamo molto lontani dal capire che i suoi problemi veri non stanno in un libro da leggere o in un quaderno su cui scrivere. I suoi problemi veri sono dentro il suo animo sconvolto. Per cui il saper leggere, scrivere e far di conto, non solo non gli è di alcuna utilità, ma lo stress dovuto alla necessità di affrontare gli apprendimenti, per giunta in un luogo sconosciuto, come la scuola, troppo ricco di stimoli da fronteggiare ma anche troppo frustrante per un bambino che ha notevoli difficoltà a rapportarsi con gli altri, non farà altro che accentuare il suo malessere.
Come operare in un setting di “Gioco Libero Autogestito”
1. Approfondiamo la sua storia personale e familiare.
Spesso l’esame di un bambino affetto da autismo appare più un elenco di comportamenti strani e inusuali che non un esame della realtà di questi piccoli esseri umani e dell’ambiente dove essi hanno vissuto e vivono. L’esame della sua realtà interiore e dell’ambiente di vita è, invece, essenziale, in quanto ci permette di approfondire tutti gli aspetti della sua vita familiare, personale e relazionale. Solo conoscendo tutto ciò sarà possibile capire che cosa ha contribuito al suo grave malessere psicologico attuale, che cosa lo tiene ancora attivo e quali modifiche è possibile apportare a questo ambiente, così da renderlo adeguato ai suoi bisogni.
2. Cerchiamo di rendere consapevoli i familiari, gli insegnanti ed i vari operatori, che il bambino che hanno di fronte a loro è un bambino che soffre notevolmente.
Abbiamo detto più volte che la sofferenza del bambino, anche se nascosta, pervade il suo animo fin nelle più intime fibre. È una sofferenza fatta di paure, di ansie, di conflitti, di insicurezze, di impulsi contrastanti a volte aggressivi altre volte teneri e passivi. È una sofferenza fatta di rabbia, sospetto, sfiducia negli altri e nel mondo e in se stessi. È, pertanto, indispensabile che gli adulti che per qualunque motivo si rapportano con lui abbiano la consapevolezza di questa sua sofferenza così che ogni loro azione si prefigga lo scopo di diminuirla e mai di accentuarla o esacerbarla.
3. Aiutiamo i genitori a superare i sensi di colpa
Questo approccio terapeutico inevitabilmente presuppone la consapevolezza che in qualche momento della vita del bambino le persone a lui più vicine hanno assunto dei comportamenti e degli atteggiamenti non idonei al suo benessere interiore. Accettare di aver commesso degli errori non deve però comportare sensi di colpa, i quali possono bloccare e limitare il nuovo approccio relazionale che i genitori ed i familiari saranno stimolati ed aiutati ad avere nei confronti del bambino.
Per limitare o diminuire i sensi di colpa può essere importante la consapevolezza e la certezza che quasi tutti gli errori dei genitori e dei familiari non sono quasi mai voluti, in quanto è raro che un genitore voglia coscientemente far del male al proprio bambino. Buona parte di questi errori sono dovuti a caratteristiche di personalità che, volente o nolente, hanno la capacità di influenzare in modo negativo l’approccio nei confronti del piccolo. D’altra parte bisogna anche considerare la difficoltà di essere genitori in un ambiente sociale, come quello odierno, che confonde al posto di chiarire, che influenza negativamente al posto di aiutare, che provoca contrasti e disunione al posto di creare armonia e unione.
4. Riscopriamo il bambino che è in noi.
Riscoprire il bambino che vive dentro l’animo di ogni adulto, ci aiuterà a capire meglio la realtà infantile. Il ricordare ed il ripensare alle piccole gioie della nostra infanzia, al piacere che provavamo per le piccole conquiste e per i gesti degli adulti che arricchivano di serenità, sicurezza e gioia il nostro cuore, così come il riscoprire le nostre paure infantili, le tante delusioni subìte, gli insoliti dispiaceri, i facili momenti di collera e rabbia, tutti questi ricordi saranno importanti nel suggerirci, durante la terapia, gli atteggiamenti più giusti e le parole più adatte dà usare con il nostro piccolo paziente.
5. Rispettiamo il suo spazio.
Poiché questi bambini hanno paura del mondo e degli altri esseri umani, abbiamo il dovere di limitare al minimo l’impatto che potrebbe avere nel loro animo la presenza fisica del terapeuta, che non deve in nessun momento essere avvertita come invasiva o coartante.
Inizialmente il posto migliore che possiamo scegliere è quello più lontano da lui. E lì, con animo sereno, disponibile e fiducioso, aspettare. Nel momento in cui noteremo che ha meno paura, meno diffidenza, più fiducia, potremo diminuire questa distanza iniziale avvicinandoci a lui per collaborare ai suoi giochi del momento. Se però temiamo di essere inopportuni, possiamo aspettare che sia lui ad avvicinarsi a noi. Abbiamo notato che, almeno inizialmente, questi bambini fanno ciò mediante dei contatti apparentemente casuali o mediati da un oggetto o da un gioco, mentre successivamente, il desiderio di una maggiore vicinanza fisica e di un contatto, sarà espresso più direttamente.
6. Parliamo poco.
Questi bambini non amano le parole, ma una vicinanza affettuosa e rispettosa. Evitiamo quindi di sommergerli di parole nella speranza che, ascoltando le nostre parole e frasi ripetute più volte possano imparare a parlare bene o a parlare, se ancora non hanno acquisito il linguaggio verbale.
Il bambino con Disturbo Autistico non ha bisogno che qualcuno gli insegni a parlare ma di qualcuno che gli faccia avere fiducia negli altri così da indurlo a volere comunicare. Egli ha bisogno anche di qualcuno che lo liberi dalle gravi paure e dall’intensa ansia interiore così che abbia la possibilità di elaborare suoni, immagini e parole che gli permettano di dialogare.
7. Giochiamo ai suoi giochi.
Mettiamoci nella condizione d’animo di assistere e accompagnare con piacere e gioia il bambino di cui ci occupiamo nel gioco da lui voluto e scelto in quel momento, per il tempo che lui desidera e con le modalità da lui scelte. Impariamo, quindi, a partecipare ai suoi giochi essendo noi terapeuti i gregari e lui, il piccolo paziente, l’incontrastato leader. Il motivo di questo inusuale approccio sta nel fatto che questi bambini spesso reagiscono negativamente a tutto ciò che proviene dal mondo esterno, in quanto sono estremamente diffidenti e reattivi nei confronti degli altri esseri umani. Pertanto ogni nostra iniziativa li blocca, li disturba, li mette in ansia o peggio fa aumentare di molto la loro ansia e le loro paure che già sono a livelli altissimi. Per evitare, quindi, di aggravare il loro mondo interiore e il difficile rapporto che essi hanno nei confronti degli altri, limitiamoci soltanto a collaborare attivamente ai loro giochi, anche se possono sembrarci ripetitivi, inutili, sciocchi, o peggio, crudeli e perversi.
Nel Gioco Libero Autogestito
Evitiamo, quindi, di proporre le nostre attività e i nostri giochi, anche se questi, a nostro parere, ci sembrano più intelligenti, più utili, più ricchi di valenze educative e costruttive, più interessanti e vari. Purtroppo la nostra esperienza continuamente ci conferma che all’animo e alla sensibilità di questi bambini, le nostre proposte di gioco, se non esplicitamente richieste, rischiano di confermare la nostra incapacità di essere rispettosi verso di loro e la nostra difficoltà nel capirli e accettarli pienamente.
Per essere ancora più espliciti e chiari, se il gioco del bambino che stiamo seguendo in quel momento consiste nel lanciare in aria i giocattoli, per poi calpestarli quando sono a terra, aiutiamolo con gioia e piacere reciproco a sfogare così la sua rabbia e il suo bisogno aggressivo e distruttivo, porgendogli i giocattoli da buttare in aria e calpestare e, perché no, facciamolo anche noi ridendo insieme a lui.
Se il suo gioco del momento è quello di mettere in ordine uno accanto all’altro tutti i giocattoli che trova, aiutiamolo porgendoglieli con gioia senza provare e tantomeno far trapelare il nostro disappunto per quell’attività così noiosa, ripetitiva e coattiva.
Se vediamo che egli colpisce con forza una bambola con una racchetta da tennis, non solo dobbiamo riuscire a non scandalizzarci per l’apparente crudeltà, ma dobbiamo aiutarlo ad esprimere al meglio la sua aggressività fornendogli, se possibile, altre bambole da colpire, così che possa pienamente sfogare la sua collera repressa. Se le vittime della sua aggressività e distruttività sono le scatole da infilzare con un tagliacarte forniamogli molti “nemici scatole” da infilzare.
In definitiva nel nostro rapporto con lui vi devono essere moltissimi “sì” e pochissimi “no”, in quanto questi bambini, almeno inizialmente, fino a quando non la fiducia negli altri e nel mondo non si è ristabilita, non sono bambini da educare ma da liberare. Liberare dalle loro paure, dalle loro angosce, liberare dall’aggressività, liberare dalla rabbia repressa e dai sensi di colpa.
8. Mettiamo pochissimi limiti ai suoi giochi.
Spesso ci viene posta la domanda se vi devono essere dei limiti alla loro espressioni del “Gioco Libero Autogestito”. In realtà, nella nostra esperienza sono stati veramente pochi i “no” che abbiamo dovuto pronunciare e hanno riguardato soltanto l’uso di Internet mediante il quale alcuni bambini tendevano a visionare all’infinito gli stessi filmati estraniandosi, quindi, dalla relazione con il terapeuta, così come abbiamo dovuto bloccare ogni approccio di tipo chiaramente sessuale verso di noi o verso gli psicologi osservatori e, naturalmente, abbiamo evitato che qualche bambino ingerisse delle sostanze sicuramente dannose. Raramente siamo dovuti intervenire per scoraggiare un tipo di gioco o di attività che avrebbe comportato un reale e importante rischio per il bambino e per gli altri. Anche perché i comportamenti auto ed etero aggressivi scompaiono rapidamente, appena il bambino avverte una migliore comprensione dei suoi bisogni.
9. Accettiamolo in maniera incondizionata.
Per tale motivo non è importante quello che il bambino fa o non fa, ma come egli vive la realtà che lo circonda. Se la realtà attorno a lui è stressante e poco rispettosa dei suoi desideri si accentueranno i comportamenti di chiusura, l’auto ed etero aggressività e le stereotipie. Se egli invece vivrà con gioia l’ambiente e le persone attorno a lui e se avvertirà da queste persone un’accettazione incondizionata di ogni sua parola e di ogni suo gesto, si noterà un rapido instaurarsi di un legame affettivo solido e duraturo con il terapeuta e, contemporaneamente, saranno evidenti, come abbiamo potuto osservare in tutti i casi che abbiamo seguito nel tempo, le sue maggiori capacità comunicative, relazionali e comportamentali, non solo con il terapeuta ma anche nell’ambito familiare, sociale e scolastico. L’ipotesi che abbiamo fatto per spiegare questa realtà è che il legame forte e intenso che si stabilisce in questi casi con il terapeuta che utilizza questa metodologia, stimola il bambino che presenta DSA ad aprire una breccia nel muro di diffidenza e di sospetto che era stato costretto a costruire attorno a lui come difesa, e ciò gli permette di liberare, finalmente, tutte le energie dell’Io, indirizzandole verso la crescita affettivo – relazionale.
10. Rispettiamo i suoi tempi.
I bambini affetti da Disturbo Autistico sono diversi l’uno dall’altro per età, per composizione genetica, per i vissuti traumatici trascorsi. Sono diversi per il loro retroterra familiare, per la maggiore o minore gravità dei problemi presenti nella loro psiche. Non possiamo allora immaginare dei tempi che siano uguali per tutti. A ognuno di loro dobbiamo permettere che segua una sua strada, senza mai forzare, senza mai avere fretta di arrivare ad una meta da noi prefissata e programmata. Anche in questo caso essi hanno bisogno del nostro rispetto, più che della nostre conoscenze.
1. Comunichiamo in modo efficace.
Se riusciamo ad attuare quanto abbiamo detto sopra, ci accorgeremo molto presto del grande desiderio, presente in questi bambini, di comunicare e di relazionare. Ma, anche in questo caso dobbiamo riuscire ad accettare in modo pieno ed incondizionato il loro modo di comunicare, senza cercare di imporre loro il nostro. Quest’accettazione non è così semplice come sembra. Per rispettare il loro modo di comunicare dobbiamo necessariamente accettare il fatto che il loro sviluppo psicoaffettivo e relazionale è gravemente limitato e/o disturbato per cui, nei casi più gravi, questo sviluppo si avvicina a quello di un neonato. E se lo sviluppo psicoaffettivo e relazionale del bambino è come quello di un neonato, egli si comporterà come tale: un neonato non guarda ancora sua madre, né le persone che gli stanno vicino; un neonato non parla; un neonato non esegue quanto gli si chiede; un neonato ha gravi carenze nella comunicazione. Egli strilla quando qualcosa non va per il verso giusto e si arrabbia se non ottiene quanto voluto e desiderato in quel momento. Un neonato è emotivamente molto fragile: ride per un nonnulla come piange e si dispera per niente. Per farlo crescere rapidamente e bene comunichiamo con lui allo stesso modo con il quale una buona madre comunica con un bambino appena nato, cioè con grande ascolto ed empatia. Se riusciamo a fare questo siamo già sulla buona strada. Se riusciamo a non imporgli, anzi a non chiedergli nulla o quasi nulla, ma nello stesso tempo ci mettiamo umilmente, ma anche gioiosamente, in ascolto ed in comunione con lui, dopo qualche settimana ci accorgeremo con stupore di quanto egli sia desideroso di dialogare con noi.
Rispettiamo il suo spazio psicologico e fisico.
Poiché questi bambini hanno paura del mondo e degli altri esseri umani, limitiamo al minimo l’impatto che potrebbe avere sul suo animo la nostra presenza fisica, in modo tale che non l’avverta mai e in nessun momento come invasiva. Inizialmente il posto migliore che possiamo scegliere è quello più lontano da lui. E li aspettiamo. Aspettiamo con animo sereno, gioioso, disponibile e fiducioso. Aspettiamo che sia lui, dopo qualche ora o qualche giorno a diminuire questa distanza fisica. Nel momento in cui avrà più sicurezza in sé stesso, più fiducia in noi, più stima di noi, meno paura, sicuramente lo farà. Si avvicinerà a noi, all’inizio con dei contatti apparentemente casuali, o mediati da un oggetto o da un gioco, per poi gradualmente farci capire che desidera un contatto fisico più prolungato e coinvolgente.
Anche questo nostro atteggiamento e comportamento non è facile attuarlo in quanto vorremmo che egli capisca subito o comunque rapidamente che noi gli siamo amici, che gli vogliamo bene, che non abbiamo nessuna intenzione di fargli del male, per cui, per ottenere ciò, il modo migliore ci sembra quello di avvicinarci il più presto possibile a lui così che avverta meglio i nostri sentimenti ma ripetiamo in questi casi questo è un errore in quanto dall’altra parte vi è tanta paura e tanta diffidenza.[1] S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 21.
[2] A. NOBILE, Gioco e famiglia, in “La famiglia”, anno XXVIII, luglio – agosto, 1994, p. 52.
[3] S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 71.
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