Per pianto si intende “ il comportamento espressivo caratterizzato da secrezione lacrimale, modificazione della respirazione e compartecipazione di tutto il corpo che esprime, come il riso, una reazione emotiva tesa a scaricare tensione.”[1]
Il pianto negli adulti.
Piangiamo quando siamo colpiti da un intenso dolore o fastidio fisico o morale, oppure da una forte emozione. Piangiamo quando vogliamo comunicare alle persone care la nostra intima sofferenza, affinché meglio ci capiscano, ci ascoltino e consolino. Ma piangiamo anche per sfogare e liberare il nostro animo dalle eccessive tensioni e preoccupazioni, perché sappiamo che, dopo aver versato molte lagrime, ci sentiamo meglio, ci liberiamo, siamo più sereni e distesi. Ma, stranamente, noi adulti piangiamo anche quando ciò che vediamo o sentiamo stimola notevolmente il nostro riso.
Le donne piangono notevolmente più degli uomini, tanto che nel periodo premestruale basta un nonnulla per scatenare questa intensa reazione emotiva. Naturalmente si può anche piangere fingendo, come fanno gli attori, senza essere colpiti da alcuna vera emozione. In questo caso il pianto può essere uno strumento per piagare l’animo altrui ai nostri bisogni, desideri e capricci.
Il pianto nei bambini.
Nessun adulto, però, piange quanto un neonato, il quale, tra l’altro, può strillare senza lacrime, data l’immaturità del dotto lacrimale.
La facilità del neonato al pianto è dovuta a vari motivi:
- il loro sistema nervoso è ancora immaturo. Questa immaturità li porta ad avere un difficile e precario equilibrio emotivo che scatena con molta facilità questa reazione emotiva.
- il neonato ha notevoli difficoltà a comunicare i suoi bisogni. Per l’adulto è facile, utilizzando il linguaggio verbale dire ciò di cui ha bisogna, ciò lo preoccupa, ciò che lo soddisfa, ma anche ciò che gli crea ansia e tensione interiore. Per il neonato tutto ciò è impossibile e. quindi, deve necessariamente fare affidamento alle capacità empatiche della madre o di chi ha cura di lui;
- un terzo motivo viene suggerito dagli psicanalisti, i quali giudicano il pianto del neonato conseguente alla perdita della loro primitiva condizione di beatitudine all’interno dell’utero materno;
- Un quarto motivo può essere ricercato nel fatto che, per neonato, sia il mondo esterno a lui sia quello interiore, sono delle realtà ancora tutte da scoprire e da conoscere, prima ancora che da controllare e da gestire. Egli si ritrova nelle condizioni nelle quali potremmo imbatterci noi adulti in un paese straniero, se ci accade di trovarci senza denaro, senza alcun punto di riferimento ma anche senza conoscere la lingua ed i costumi del luogo.
Lo scopo del pianto del neonato
I mezzi di comunicazione del bambino piccolo sono rudimentali e primitivi, per cui il pianto è la prima e la più importante forma di comunicazione col mondo, ed ha lo scopo di attirare su di sé l'attenzione dei genitori o di chi si prende cura di lui .
Con il pianto il bambino comunica i suoi fastidi, le sue sofferenze, le sue pene, i suoi patimenti, sia fisici sia psicologici: “Ho freddo, ho caldo, ho fame, ho sonno, ho sete, ho male al pancino, sono nervoso, sono teso, sono stanco, la mia pelle è irritata” e così via.
Con il pianto il bambino comunica anche le possibili richieste per sopperire ai suoi bisogni. Se il neonato potesse tradurre le sue esigenze in parole queste sarebbero di questo tenore: “Ti prego mammina coprimi di più ho freddo”. O al contrario: “Cosa aspetti a togliermi di dosso questa benedetta coperta che è troppo pesante e mi soffoca”. “Dammi da mangiare, il mio pancino è vuoto e borbotta”. “Possibile che non ti sei accorta che il pannolino è sporco e che la mia pelle delicata si è irritata?”. “Forse ho ingurgitato troppo latte e troppo in fretta, ho male al pancino. Aspetto da te un bel massaggio e sono certo che mi passerà”. “Sono stanco, che giornataccia! Tutti che mi volevano baciare! Tutti che parlavano a voce alta! Ho proprio voglia di fare una bella e sana dormitina, per rilassarmi un po’. Ti prego di fare in fretta tutte le incombenze necessarie per mettermi a letto. Non c’è la faccio più !“
Mediante il pianto, quindi, il bambino, soprattutto la sera, dà sfogo alle tensioni accumulate durante la giornata, in quanto, piangendo, si produce un ormone antistress che lo fa sentire meglio. Visto in quest’ottica questa particolare reazione emotiva è come una valvola che permette al bambino di sfogare l’eccessiva tensione interiore.
In questo senso il pianto protegge il piccolo dalla fame, dalla sete, dal raffreddamento, dall’eccesso di calore, dalle situazioni di stress e così via. Per tali motivi è lo strumento più idoneo, più appropriato ed adeguato, per soddisfare i propri bisogni e per la rimozione delle circostanze spiacevoli. Tra l’altro quando la madre si prodiga per il suo piccolo con coccole e tenerezze, anche se non riesce a togliere la causa del suo pianto, ottiene lo scopo di diminuire l’angoscia del figlio.[2]
Il pianto come capriccio
Un bambino può piangere anche per soddisfare un suo momentaneo capriccio: avere un giocattolo non suo, ottenere un cibo proibito, aver concesso il permesso di stare più tempo davanti alla TV, e così via. I genitori, in base alla loro personalità e allo stile educativo: permissivo, autorevole o autoritario, assumono comportamenti diversi. I genitori permissivi o ansiosi sono di solito troppo attenti a vedere in ogni pianto un bisogno da soddisfare. Quelli autoritari, al contrario, giudicheranno buona parte di questi comportamenti come capricci ai quali non dare seguito. Solo i genitori autorevoli, equilibrati e sereni sapranno rispondere in maniera adeguata e quindi metteranno in atto l’atteggiamento e il comportamento più idoneo e più opportuno.
Il pianto come espressione di una sofferenza psicologica
Le più frequenti sofferenze psicologiche del bambino molto piccolo sono le paure. Il bambino può spaventarsi per molti motivi: per le troppe attenzione di una persona a lui estranea, per dei rumori improvvisi, perché qualcuno ha alzato troppo il tono della voce, perché il fratellino, a volte senza volerlo, gli ha fatto male. Altre volte si spaventa in seguito a una caduta o per aver perso l’equilibrio anche se non si è fatto alcun male. In molti casi, pur non avendo subito nessun trauma fisico, piange per la paura che ha provato o per i visi allarmati, irritati o ansiosi che vede attorno a lui.
Il pianto come espressione di collera e rabbia
Quando l’ambiente vicino a al piccolo, nonostante tutti i suoi sforzi di comunicazione, non comprende o non soddisfa i suoi bisogni il pianto del bambino è fatto di collera e rabbia. Queste emozioni sono presenti, però, anche quando l’ambiente familiare è troppo teso, ansioso o conflittuale e, quindi, non è idoneo a soddisfare i suoi bisogni di serenità e pace . Allo stesso modo il bambino esprime con il pianto la sua collera e rabbia quando si sente abbandonato o trascurato, a causa delle frequenti o troppo prolungate assenze materne e/o paterne.
Il pianto come sofferenza fisica
Il bambino può piangere in quanto si è fatto male nel giocare, nel correre o nei suoi maldestri tentativi di scoprire e conquistare il mondo che lo circonda. Il pianto causato da un intenso dolore fisico è un pianto disperato, inconsolabile, che può durare a lungo (anche ore), e provoca nel bambino sudorazione e viso paonazzo.
Il malessere del piccolo può essere dovuto anche a delle bolle d'aria nel pancino (coliche del lattante), che si presentano con pianto improvviso, contrazione delle gambe sull'addome, flatulenze. In questo caso, anche quando la mamma lo prende in braccio il figlio non si calma facilmente.
Il fallimento del pianto.
Non sempre il pianto riesce a consolare. In questi casi l’angoscia del bambino si accentua insieme a quelle dei genitori e poiché si addormenta solo per spossatezza, quando si risveglia ricomincia a piangere, in quanto il sonno non è riuscito a rasserenarlo.
Le possibili conseguenze negative nel rapporto madre-figlio causate dal pianto irrefrenabile
I primi incontri tra i genitori ed il piccolo, al di fuori dell’utero materno, frequentemente rischiano di diventare i primi scontri. Il motivo è semplice: da una parte abbiamo un piccolo essere umano che ancora ha un sistema nervoso immaturo, che lo rende facile alle emozioni, sia positive sia negative; un piccolo essere umano che non conosce il mondo nel quale si trova e che, quindi, non sa come rapportarsi con esso. Questi non sa di chi e di che cosa fidarsi, di chi e di che cosa avere paura. Un piccolo essere umano, quindi, facile al sorriso ma anche alla tristezza; facile alla gioia ma anche al dolore; facile all’ottimismo ma anche al più nero pessimismo.
Non è difficile osservare un neonato il quale, in un dato momento, gioca o dorme beato tra le braccia della madre, mentre, un momento dopo, strilla a più non posso, angosciato e spaventato per qualcosa che è sopraggiunto nel suo corpo, ma anche solo nella sua psiche .
Dall’altra abbiamo una madre, una donna, oggi sempre più spesso psicologicamente fragile, ma anche priva di quegli apporti , di quelle conoscenze, di quei tirocini, e, quindi, in definitiva, di quelle capacità, nel rapportarsi con un bambino piccolo, e ancor più con un bambino neonato. Una donna che ha difficoltà a concentrare tutte le sue attenzioni sul suo bambino in quanto sempre più spesso la sua mente è coinvolta ed impegnata, più nell’attività lavorativa, che non nella ricerca della migliore relazione con il proprio piccolo.
E così, nonostante entrambi, sia la madre sia il neonato, abbiano bisogno di conoscersi, nonostante entrambi abbiano bisogno di scoprirsi a vicenda, di parlarsi, di confrontarsi, nonostante entrambi abbiano bisogno di trovare utili intese e accordi reciproci, il loro rapporto può risultare disturbato, distante e, spesso, anche conflittuale.
Da tenere, inoltre, presente che il piccolo porta in sé, accanto alle scarse conoscenze del mondo che lo circonda, le sue caratteristiche ereditarie. Caratteristiche che possono facilitare o no quest’incontro, questo dialogo e questa intesa. A sua volta, la madre, porta in sé, accanto al suo patrimonio genetico, un bagaglio di esperienze, positive e negative notevolmente ricche e varie. Esperienze che si sono depositate nella sua psiche in molti anni di rapporti: con l’ambiente, nel quale è vissuta e con il quale ancora interagisce. La madre porta i suoi sogni, le sue speranze, i suoi amori, le sue gioie e il suo ottimismo nei confronti della maternità e della vita in genere; ma può anche portare molte ansie, fobie, timori, conflitti interiori, depressione e tristezza, come risultato e conseguenza dei suoi incontri e dei suoi scontri, che l’hanno segnata durante gli anni della sua vita.
Nel momento in cui si rapporta con il figlio porta, indefinitiva, un grosso carico di esperienze: positive e negative. Le esperienze positive, avute con i propri genitori, con la propria famiglia, con gli amici, daranno a questa donna-madre una marcia in più, nel saper ascoltare e nel saper capire i messaggi presenti nel pianto e, successivamente, nel saper gestire i bisogni del suo piccolo. Al contrario, le esperienze negative vissute nell’infanzia, nella fanciullezza, nell’adolescenza e nella vita di donna adulta , poiché possono aver lasciato nel suo animo acredine, rabbia, collera e facile reattività, rischiano di rendere difficile quest’ascolto, questa comprensione e questa gestione. Pertanto, in definitiva, sarà reso più difficile il rapporto con il proprio figlio. Mentre per le madri che la vita ha arricchito di apporti positivi, il pianto del bambino sarà semplicemente uno strumento prezioso di comunicazione, che le permette di capire e poi soddisfare le necessità del piccolo, per le madri problematiche, il pianto del figlio può diventare uno strumento di sofferenza e di tortura che può provocare dei conflitti madre-figlio. .
Poiché il pianto degli adulti ha molto spesso il significato di un’intensa sofferenza fisica e psichica, queste madri tenderanno a vedere se stesse come madri incapaci di dare gioia e serenità al loro piccolo, per cui tenderanno a colpevolizzare se stesse per il fatto di non capire, non saper rispondere adeguatamente ai suoi bisogni, non saper accettare i suoi richiami, non saperli valutare correttamente; o, al contrario, saranno pronte a giudicare il figlio come un piccolo tiranno, impegnato da mattina a sera a farle soffrire e disperare con il suo pianto irrefrenabile.
COSA FARE
I consigli che diamo qui di seguito dovrebbero essere di aiuto soprattutto a questo tipo di madri che hanno maggiori difficoltà.
- Intanto sarebbe importante cercare di vivere il rapporto con il bambino con la massima serenità. Ciò aiuterà la madre a capire meglio, così da intervenire efficacemente. L’ansia, infatti, non è mai una buona consigliera!
- Pur senza farsi travolgere dall’ansia, non bisogna assolutamente ignorare il pianto del piccolo. È sempre utile ascoltarlo ed intervenire prontamente in quanto, ogni tipo di comunicazione, ha bisogno di un ascolto immediato e attento. In caso contrario il pianto, con significato di richiesta, diventa facilmente pianto di rabbia e collera.
- Per decodificare i bisogni del piccolo, bisogna mettere in campo non solo la ragione, ma anche l’intuito e l’esperienza. La ragione, ad esempio, può indicare se è l’ora della pappa, quella del bagnetto o del sonnellino. L’esperienza può suggerire quali sono i suoi più frequenti motivi di pianto: stanchezza, desiderio di dormire, irritazione nelle parti intime e così via. L’intuito di donna e madre può aiutare a trovare il rimedio più opportuno: attaccarlo al seno, coccolarlo, abbracciarlo, cullarlo, giocare con lui, farlo rilassare mediante un buon bagnetto e così via.
- Quando la madre capisce che il pianto è solo lo sfogo della tensione interiore, è bene lasciare che il bambino si liberi da questa tensioni accumulata nel suo animo, coccolandolo e cullandolo tra le sue braccia, ma anche rasserenandolo con il sorriso e con un tono di voce carezzevole. Anche se il bambino è grandicello merita e ha bisogno di coccole, di baci e di rassicurazioni che, come un balsamo sopra la ferita, l’aiuteranno a far guarire i piccoli traumi subiti, così da poter più facilmente riprendere la via della maturità e della crescita.
- Per molti bambini un piccolo fazzoletto o tovagliolo messo sul viso lo aiuta a rilassarsi.
- Fino ai sei mesi le posizioni migliori per far dormire il piccolo, sono quelle su un fianco o sulla pancia.
- Il ciuccio, se il bambino lo accetta, può essere un valido sussidio per rasserenare e gratificare il bambino.
- Se il bambino è ancora nella culla, si addormenterà più facilmente se accanto a lui metteremo qualche piccolo cuscino o coperta arrotolata, in modo tale che si senta contenuto come nel grembo materno.
- Non rimproveriamolo, se piange, come fosse un bambino cattivo e malvagio, il cui più grande divertimento consista nel farci disperare con i suoi strilli. Egli non ha alcun motivo di farci del male, in quanto fare del male alla sua mamma, equivale a fare del male a se stesso!
- Ricordiamoci che un bambino ha bisogno di essere accettato, anche quando manifesta un’emozione negativa, come può essere quella della sofferenza. Non possiamo accogliere solo le sue espressioni di gioia. Dobbiamo imparare ad accettare anche le sue espressioni di dolore.
- Se pensiamo che il pianto è dovuto a delle colichette, per alleviare il suo fastidio e per cercare di calmarlo, trasmettiamogli il massimo della tranquillità, in quanto il bambino può aver reagito con il pianto, non tanto al dolore provato, quanto alla paura di queste nuove e diverse sensazioni, presenti nel suo corpo. Mettiamoci allora, insieme a lui, in un luogo appartato, con poca luce e con pochi rumori e massaggiamo il suo pancino con movimenti lenti, circolari e ritmati, che hanno il potere non solo di rilassare l’addome, ma anche il suo animo teso e spaventato. Se necessario, possiamo usare anche un caldo infuso adatto a rilassare.
- Molto utile è anche il bagnetto in acqua tiepida, prima della nanna, in quanto l’elemento liquido e caldo ricorda al bambino l’utero materno. E ciò gli apporta sensazioni di rilassamento e piacere che gli concilieranno il sonno.
- Non abbiate paura di viziarlo. Un bambino piccolo accolto, amato, ascoltato, coccolato, un bambino ben accudito sarà in futuro un bambino più forte, più maturo ed indipendente. Un bambino non curato, non ascoltato, non amato, sarà più fragile, nervoso e irritabile e tenderà a dare sempre più problemi ai propri genitori.
- Ogni bambino ha una sua posizione e un suo luogo preferito. Alcuni da svegli amano restare a pancia in su, altri nella posizione opposta: a pancia in giù. Se poi viene fatta loro assumere questa posizione, sulle gambe della mamma, si quietano più facilmente. Non è mai conveniente però tenerli a pancia sotto quando dormono.
- Anche per quanto riguarda i rumori ogni bambino ha le sue preferenze: alcuni amano restare in un ambiente nel quale non vi sia il minimo rumore, altri si addormentano più facilmente se sono cullati da un dolce suono, altri ancora si quietano se sono in contatto con le rasserenanti voci degli adulti, specie con le voci dei genitori o dei fratelli maggiori e, quindi, vogliono addormentarsi nella stessa stanza, dove vi sono gli adulti o in una stanza non lontana.
- Tutti i bambini amano essere cullati, mentre la madre gli canta una ninna-nanna, in quanto ciò gli ricorda l’utero materno. Ed è per questo che molti bambini si addormentano immediatamente sulle automobili in movimento, mentre si svegliano appena l’auto si ferma. Le buone vecchie culle dei nostri nonni che, come delle amache, erano sospese dal pavimento, tenute da una parte all’altra della stanza con delle corde, erano particolarmente efficaci in quanto permettevano ai piccoli di essere cullati solo con i loro piccoli movimenti del loro corpo, senza alcun intervento esterno.
- Anche il succhiare: il ciuccio, il biberon, il seno della mamma, fa smettere di piangere, in quanto aiuta i bambini a rilassarsi e a ritrovare la calma e l’equilibrio psichico momentaneamente perduto.
- Per quanto riguarda il pianto da capriccio. Se la diagnosi fatta dai genitori è sicuramente corretta, certamente essi non devono cedere al ricatto del pianto ma questo non significa che il piccolo non merita lo stesso di essere coccolato e tranquillizzato.
Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente"
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[1] Galimberti U., “Dizionario di psicologia”, Gruppo editoriale L’L’Espresso, Roma, volume terzo, p. 72.
[2] SULLIVAN H. S. ( 1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 70.