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Violenza e imitazione

Violenza e imitazione

 

Il fatto che l’aggressività, come molti comportamenti negativi, possa essere appresa dall’ambiente di vita, è noto da sempre: “Chi pratica con lo zoppo all’anno zoppica”. Quest’antico proverbio vuole chiaramente indicare la notevole influenza negativa che ispirano le persone che frequentiamo e con cui viviamo, sui nostri comportamenti relazionali e sociali. Soprattutto i bambini e gli adolescenti, ma anche gli adulti, tendono istintivamente ad imitare gli atteggiamenti ed i comportamenti che scorgono nel loro ambiente di vita. Pertanto, così come sono spinti a riprodurre i comportamenti positivi di accoglienza, rispetto, dialogo, dono e cura, allo stesso modo possono imitare, in ogni rapporto relazionale, anche i comportamenti di rifiuto, aggressività e violenza, dei quali sono spettatori.

Per i minori questa imitazione è più frequente ed incisiva quando i comportamenti negativi provengono da persone che hanno per loro una maggiore valenza affettiva ed educativa: “Vedo i miei genitori che litigano continuamente, pertanto è normale che i coniugi litighino tra loro”. “Mio padre si è comportato in maniera violenta e aggressiva con me o con mia madre; è normale e logico che anch'io faccia lo stesso, con i miei figli e con mia moglie”. “Mia madre gridava continuamente e anch’io ho l’abitudine di gridare per un nonnulla”. Alcuni di questi bambini, divenuti adulti, tenderanno a ripetere gli stessi comportamenti vissuti nell’infanzia, altri, per fortuna, facendo propri dei comportamenti positivi acquisiti da altri adulti conosciuti in altri ambienti, saranno in grado di criticare e rifiutare quei comportamenti ritenuti violenti, ingiusti e apportatori di sofferenza.

Inoltre, come dice Hacker [1]: “Il comportamento aggressivo, come molte altre forme comportamentistiche, ha la tendenza a estendersi e generalizzarsi; una volta appreso e collaudato esso viene esteso ad altre situazioni e qui applicato”. Ancor peggio se gli atteggiamenti aggressivi sono premiati. In questi casi anche dei comportamenti chiaramente abnormi assumono valenze positive[2].

Tuttavia, a questo riguardo, è bene rilevare che nel campo educativo quando l’aggressività nasce dalla sofferenza, dalle frustrazioni e dai traumi subìti, l’atteggiamento repressivo non ottiene i risultati voluti e sperati, poiché non si può insegnare a non essere aggressivi, utilizzando l’aggressività![3]

L’aggressività appresa dalla logica del gruppo.

Questo tipo di comportamento è frequente nei giovani e negli adolescenti i quali, inseriti in un “branco”, sono condizionati dalle regole presenti nel gruppo. Per cui hanno notevoli difficoltà a controllare i comportamenti e gli atteggiamenti aggressivi e violenti suggeriti dagli altri componenti, poiché questi comportamenti diventano una condizione necessaria per essere accettati dagli altri. Per tale motivo il giovane che aderisce a queste indicazioni si sente come deresponsabilizzato nelle decisioni personali e avverte il dovere di accettare le decisioni prese dal capo del branco o dalla maggioranza dei coetanei. D’altra parte, opporsi ai comportamenti, significherebbe opporsi a tutto il gruppo, non far più parte di questo e, di conseguenza, sentirsi isolati ed emarginati.

In questi casi il singolo individuo non agisce aggressivamente per frustrazione o per scaricare l’ansia eccessiva, ma per aderire a una logica di gruppo, che vede la violenza come necessaria e coerente con i propri bisogni d’integrazione e socialità. Come dicono Erikson e Erik, 2008, p.29),: “Un individuo si sente isolato dalle sorgenti della forza collettiva allorché egli, magari solo nel suo intimo, assume un qualsiasi ruolo che il suo gruppo ritiene particolarmente negativo”.

L’aggressività e la violenza appresa dai mass media e dai mezzi di comunicazione di massa.

 Non sono da sottovalutare l’emulazione delle scene di violenza presenti nei mezzi di comunicazione di massa, nei film, nei video giochi e negli spettacoli come quelli di Wrestling. Per Hacker [4]: “Dappertutto i mezzi di comunicazione di massa influenzano la coscienza generale e con essa indirettamente ma in modo determinante anche l’inconscio, le opinioni, gli atteggiamenti e le azioni del pubblico”.

E ancora lo stesso autore (Hacker, 1971, p. 315):

“L’adolescente americano medio è così ipersaturato dai tanti stimoli aggressivi trasmessi dai mezzi di comunicazione, che nessun modello specifico di aggressione gli sembra nuovo o degno di essere imitato; tuttavia questo ottundimento del singolo è ottenuto al prezzo del globale innalzamento del livello di aggressività”.

Per quanto riguarda i Wrestling, non può essere certamente indifferente, soprattutto per i minori, assistere a dei giganti super palestrati che lottano e si aggrediscono in maniera violenta e selvaggia, cercando in ogni modo di far del male all’avversario, fino a schiacciarlo a terra con il loro mastodontico corpo. Il fatto poi di sapere che in realtà, quella alla quale si assiste, è una finta lotta e che, almeno si spera, questi atleti, non si facciano veramente del male, non sempre viene percepito in maniera corretta, soprattutto dai più piccoli che assistono a questi spettacoli. In questi, la traccia emotiva che permane e predomina nel loro animo può purtroppo comportare il desiderio e il piacere di poterli in qualche modo imitare.

Per quanto riguarda i film e i telefilm, mentre fino a qualche decennio fa l’eroe aveva una funzione di difesa della nazione, dei più deboli e degli indifesi e pertanto, almeno nelle intenzioni degli autori, aveva un ruolo positivo, ormai da molti decenni lo stesso eroe partecipa in modo confuso e caotico al piacere di distruggere e aggredire tutto ciò che capita a tiro, utilizzando qualunque strumento di distruzione: bazuka, bombe, fuoco, auto e camion, spesso senza che si riesca a rintracciare, nelle sue azioni, un minimo di finalità costruttiva ed educativa. “La tendenza mimetica viene esaltata quando gli atti aggressivi mostrati sono rappresentati come eroici, promettenti e apportatori di successo, oppure quando gli spettatori sono espressamente invitati all’imitazione e vi vengono autorizzati” (Hacker, 1971, p. 315).

Per tale motivo gli attuali eroi, ai quali bisognerebbe identificarsi e imitare, sono certamente senza paura, veloci, forti e sicuri di sé, ma sono anche dei balordi confusi e violenti, senza pietà, ma anche senza alcuna disponibilità all’ascolto e alla comprensione dell’altro.

Ancora più grave è la stimolo all’emulazione che l’individuo, soprattutto in età evolutiva, può ricevere da parte dei contenuti dei videogiochi più comunemente utilizzati e diffusi. Molti di questi si basano essenzialmente su una continua, ripetitiva, perenne lotta, utilizzando varie armi e strategie, contro alieni e nemici immaginari, mostri da distruggere, prima di essere distrutti, da uccidere, prima di essere uccisi; ma anche lotta nei confronti di malcapitati, innocui passanti. D’altra parte molto spesso, in questi giochi, uccidere quanto più possibile dei fantomatici nemici fa “vincere” una partita o fa andare ad un livello successivo e pertanto “premia”. Questi personaggi suggeriscono e nel tempo convincono il piccolo utilizzatore, che l’aggredire e il distruggere sono atteggiamenti e comportamenti non solo “normali” ma anche utili, piacevoli e divertenti.

Si dirà che la violenza presente nei film, nella Tv o nei video giochi è “finta, non è vera, è solo spettacolo ” tuttavia “L’effetto imitativo è uguale, sia che le scene di violenza siano prodotte negli studi, sia che vengano riprese dalla vita reale (anche se questa differenza fosse riconoscibile). Banddura e in seguito Berkowitz hanno dimostrato con estesi esperimenti su gruppi di bambini di diverse età che l’effetto di accrescimento dell’aggressività esercitato da esempi d’aggressione è sostanzialmente lo stesso, a prescindere dal fatto che l’aggressione rappresentata e successivamente imitata si sia svolta originariamente nella vita reale, in un film o in un cartone animato”(Hacker, 1971, p. 315).

Poiché in queste immagini e in questi giochi non c’è pietà, tenerezza, comprensione, giustizia, ma soprattutto non ci sono sfumature, l’uso di questi strumenti può condurre ad atteggiamenti reattivi e aggressivi nei confronti degli altri, giacché riduce le inibizioni e non educa alla necessità di ricercare e trovare soluzioni alternative ai problemi e ai conflitti tra esseri umani, utilizzando il dialogo, la mediazione e l’accordo tra le parti.

L’altra conseguenza insita in questi spettacoli, che è forse ancora peggiore di quella precedente, è che nell’animo e nella mente dei bambini s’insinua e si sviluppa l’idea che nel mondo nel quale viviamo allignano una serie infinita di nemici che subdolamente possono circondarci, assalirci e farci del male, per cui è necessario vivere costantemente sulla difensiva, sempre pronti a prendere le armi piùà efficaci per proteggerci o attaccare.

Quest’inquinamento mediatico è tanto più grave quanto maggiore è il numero dei messaggi, quanto minore è l’età, quanto più il soggetto è psicologicamente fragile, suggestionabile e insicuro, ma anche quanto maggiore è l’interattività.

Tuttavia, da parte della società e dei legislatori è difficile accettare e soprattutto porre rimedio al fatto incontestabile che le parole e le immagini violente ascoltate e viste, ma anche virtualmente eseguite migliaia di volte dai minori, dagli adolescenti e dagli adulti, possano lasciare delle tracce indelebili nell’animo di chi le utilizza. Si preferisce allora per motivi economici e ideologici far credere che ciò non sia vero e non sia possibile, al fine di coprire una realtà difficile da accogliere; giacché accettare ciò significherebbe modificare in maniera sostanziale la presunta neutralità di questi strumenti e pertanto intervenire non solo sul loro uso ma anche e soprattutto sulla loro produzione.

Tra l’altro oggi buona parte dell’educazione e della formazione dei minori, a causa di genitori sempre più impegnati, lontani, assenti e distratti, è diventata di tipo mediatico. E se i media ma anche internet sono ricchi di contenuti violenti, i risultati non possono che essere deleteri sul piano del rispetto dell’integrità, dignità e sacralità dell’animo, del corpo e della vita dell’altro. Ciò è evidente in molti rapporti sociali. Le assemblee scolastiche o di condominio, le discussioni parlamentari, Facebook, gli incontri di calcio e i dibattiti televisivi, ovunque vi sia la minima possibilità di confrontarsi con idee diverse, sono spesso utilizzati per scaricare sugli altri, mediante la violenza verbale, la propria rabbia e le proprie frustrazioni. Per Dacquino (1994, p. 304): “Viviamo in un clima di violenza e sadismo verbale, alimentato dall’abitudine di polemizzare accanitamente anche per le cose più futili. Siamo sempre sul piede di guerra oppure discutiamo con voce dura, stridula, alta, pur sapendo che urlare è la reazione di chi ha torto o è insicuro”.

L’aggressività può essere appresa in famiglia da stili educativi erronei.

Vi sono degli stili educativi nei quali sono trasmessi i valori dell’accoglienza, della fratellanza, dell’amore, dell’accettazione e del dono, ma vi sono purtroppo anche degli stili educativi nei quali sono trasmessi disvalori: come la violenza, la prepotenza, la protervia e lo sfruttamento dell’altro ai propri fini. In questi casi è costantemente sottolineato l’errato principio che bisogna rispondere “occhio per occhio e dente per dente” a quanto subìto e che “non bisogna essere pecore ma lupi” pronti ad azzannare chi ci ha fatto o potrebbe farci del male o potrebbe sottrarci qualcosa di nostro. Questi stili educativi sollecitano ad accettare e utilizzare l’uso della forza e della violenza in molte, troppe occasioni senza che ciò sia strettamente necessario e utile.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato: “Ti odio!”- Conflitto e aggressività e violenza tra i sessi”.

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[1] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 315.

 

[2] Andreoli, V. (1995), La violenza – dentro di noi, attorno a noi, Fabbri editore Corriere della sera, Milano, p. 71.

[3] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 171.

 

[4] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 317

 

Violenza e aggressività nei separati e divorziati

Autore: Emidio Tribulato

La possibilità di sciogliere in ogni momento il vincolo matrimoniale ha fatto cambiare profondamente la percezione e il valore della famiglia e, di conseguenza, ha modificato in peggio la responsabilità nei confronti dei figli.

Il “… finché morte non vi separi”  tipico del matrimonio di un tempo, è stato messo ai margini della coabitazione temporanea dettata dal più prosaico “…vediamo se funziona” e infine è stato sostituito da un modello flessibile, part-time dello “stare insieme”. Si pensa che si possa “entrare e uscire” impunemente da un legame sentimentale con un click, come se fosse una relazione virtuale [1]. Pertanto, non affrontando con la necessaria convinzione e impegno la vita in comune, la famiglia nasce già negativamente segnata fin dal suo inizio[2].

Per lo stesso autore Volpi[3]:

“Uno degli effetti immediati della legge sul divorzio si manifestò in un aumento del numero e dell’incidenza percentuale dei matrimoni civili; non clamoroso, ma certamente consistente e significativo, che soprattutto non si sarebbe più fermato. L’ascesa dei matrimoni civili parte da qui, nel senso che è indissolubilmente legata all’introduzione della legislazione del divorzio nel nostro paese”.

Se interpretiamo correttamente quest’aumento dei matrimoni civili, non vi è dubbio che esso ha il significato di “lasciare una porta aperta” ad un eventuale e probabile divorzio. Cosicché, dall’entrata in funzione di questa legge, si è perso nelle coppie il senso che l’unione sia per tutta la vita.

Ma insieme alle sempre più frequenti fratture del matrimonio si è assistito nel tempo anche ad un aumento della conflittualità tra i coniugi, non solo durante il tempo più o meno lungo dell’unione di coppia, ma anche nelle fasi successive alla separazione. Per Andreoli [4] in tutte le condizione di destrutturazione sociale l’aggressività nei singoli aumenta notevolmente, proprio per la mancanza del sostegno reciproco. Statisticamente i periodi che generano i più gravi stress e le più forti tensioni, nell’ambito della coppia, riguardano i giorni o i mesi nei quali si attua la separazione o il divorzio. Ciò avviene soprattutto quando la coppia si affida al sistema giudiziale con il suo corollario di testimonianze e prove, non sempre spontanee e sincere; con i suoi documenti, non sempre fedeli e veritieri; con richieste e comportamenti, che quasi sempre contengono dei secondi fini a favore di una delle controparti. Questi stress e queste tensioni facilmente si ripercuotono sui singoli individui, generando notevoli manifestazioni di aggressività reciproca ed a volte atti di gravissima violenza.

 

La separazione e il divorzio non rappresentano soltanto un allontanarsi dall’altro. Separazione e divorzio sono in realtà uno strappo importante che coinvolge e sconvolge una comunità molto ampia di soggetti. Oltre la coppia direttamente interessata, esso trascina in un grave malessere gli eventuali figli e familiari, dell’uno e dell’altro coniuge, ma anche gli amici intimi dei due e la comunità nel suo complesso. Il momento della separazione è vissuto, in molti casi, come un’insopportabile lacerazione della propria vita e del proprio cuore. Come accendendo un fiammifero in una santabarbara, le esplosioni di emozioni che ne possono conseguire sono drammatiche. Come un fuoco che dilaga in un’arida prateria, mentre spira il vento caldo del sud: l’ansia, la collera, i timori che si diffondono e sconvolgono gli animi degli interessati sono ingovernabili.

Il separarsi e il divorziare coinvolgono e sconvolgono profondamente l’ambiente fisico e quello psicologico, le emozioni e gli affetti, le abitudini e i consueti stili di vita, il benessere interiore ma anche quello economico di chi, anche se solo marginalmente, è in qualche modo implicato in queste tristi vicende. Nascono rimpianti, sensi di colpa, accuse, recriminazioni, ma anche una serie di prevaricazioni psicologicamente insostenibili a causa della loro intensità e del loro perdurare nel tempo.

Nonostante le emozioni che sconvolgono gli animi degli individui siano spesso considerate consequenziali ai conflitti preesistenti durante il matrimonio o la convivenza, sono proprio i momenti della separazione e del divorzio a far esplodere le pulsioni più violente e distruttive.

Per Hacker [5]:

“L’improvvisa liberazione dell’aggressività in seguito allo scioglimento del vincolo, alla perdita di persone di riferimento o all’espulsione del gruppo, porta alla sua introiezione sotto forma di stati depressivi (“ben mi sta, non merito di meglio”) o di complessi di colpa quando si perde una persona cara (“ho fatto davvero tutto il possibile?”) Nonché alla sensazione di inutilità e rabbia impotente che, a loro volta, provocano l’aggressività indistinta e incontrollata”.

Per Ackerman[6]:

“Va anche ricordato che, per i genitori, non vi può essere un divorzio totale. Sebbene divisi in modo definitivo in quanto coppia sessuale, essi rimangono permanentemente legati alla comune responsabilità per la cura dei loro figli, e in qualche caso questo legame diventa una fonte di sofferenza per molti anni”.

Nell’ambito della famiglia è facile che uno o entrambi i membri della coppia, senza avere la maturità e la consapevolezza delle dinamiche relazionali in gioco e senza comprendere la gravità di quello che stanno compiendo, mettano i figli l’uno contro l’altro genitore; lasciando che si creino delle alleanze patologiche: maschi contro femmine, madre con il figlio contro il padre e la figlia[7].  In tal modo essi accentuano la sofferenza e il disagio dei minori, i quali, a loro volta, soffrendo di maggiore irritabilità, aggressività e instabilità, sia durante l’infanzia sia nell’età adulta, continueranno ad alimentare nell’ambito familiare e sociale un circolo vizioso, sempre più distruttivo e incontrollabile.

Dalle separazioni e dai divorzi tenderanno a crescere, inoltre, delle generazioni il cui senso innato della stabilità del matrimonio è stato profondamente scosso dalla precoce esperienza del divorzio e dal vivere in famiglie spezzate e ciò influenzerà certamente le future relazioni, rendendole sempre più fragili ed evanescenti[8].

Per Maccoby et al. (1993, pp. 24-38) dopo il divorzio tra i coniugi si vengono a strutturare fondamentalmente tre tipi di comportamenti:

  1. Cooperativo. In questi casi i genitori parlano tra loro, discutono dei problemi della famiglia, non si squalificano reciprocamente e cercano di coordinarsi nelle attività in favore dei figli. Ad esempio: ”Io accompagno a scuola Giulio; tu, per piacere, pensa a riprenderlo quando esce”. Oppure: “Mentre tu porti la nostra piccolina dal dottore, io mi occupo di parlare con gli insegnanti di Francesco”. E così via. Purtroppo quest’atteggiamento o comportamento cooperativo, nella ricerca effettuata da parte degli autori suddetti, dopo diciotto mesi dalla separazione, riguardava solo un quarto circa dei soggetti del campione studiato.
  2. Disimpegnato. In questi casi i genitori non comunicano tra loro e non collaborano reciprocamente. Per quanto riguarda i figli è come se questi vivessero in due mondi separati. Ad esempio, il sabato e la domenica stanno con il padre, mentre durante la settimana sono totalmente gestiti dalla madre. Quando uno dei due si rivolge con acredine all’ex marito o moglie, fa delle raccomandazioni di questo tipo: “Come abbiamo concordato con il giudice, ricordati di prendere Mario davanti alla porta di casa, alle sedici di sabato e riportarlo alle diciotto della domenica, non prima e non dopo, se no mi rivolgo al mio avvocato e ti faccio passare dei guai seri”. Questo comportamento, solo apparentemente cooperativo, viene attuato solitamente quando si hanno dei figli abbastanza grandi e coinvolge circa un terzo del campione esaminato.
  3. Ostile. In un terzo dei casi i genitori separati mantengono tra loro dei contatti ma questi sono gestiti in modo sistematicamente astioso. Poiché permane in ognuno di essi il bisogno di vendicarsi e far del male all’altro, sono evidenti, nei loro rapporti, la persistenza di aggressività e conflittualità, così come sono evidenti i tentativi tesi a sabotare il benessere e la tranquillità dell’altro. Nei separati e divorziati che assumono un comportamento ostile, ad esempio, per evitare che lui o lei esca il sabato sera con il nuovo legame sentimentale, l’ex coniuge cercherà di ostacolare questi incontri sentimentali frapponendo qualche impedimento: “Purtroppo questo sabato non potrò tenere i bambini perché dovrò farmi visitare dal medico”. Oppure: “Tu puoi stare con i tuoi figli quando vuoi, ma quella donnaccia con cui convivi non deve stare mai accanto a loro”. La qual cosa, naturalmente è impossibile che sia attuata. Questa limitazione ha il solo scopo di contribuire a creare scompiglio nella nuova coppia che si sta formando o si è già formata.

 Con il trascorrere del tempo il comportamento disimpegnato diventa quello più comune e non ha molto valore il tipo di affidamento attuato in sede giudiziaria. I genitori più conflittuali sono quelli che, dopo la separazione, devono provvedere a figli piccoli, quelli che hanno molti figli, ma anche quelli che hanno intrapreso delle nuove relazioni.

 

Le cause dell’aggressività durante e dopo la separazione

I motivi della conflittualità durante e dopo la separazione sono tanti.

  1. 1.      L’invidia e la gelosia

L’atto di separarsi e allontanarsi fisicamente dal proprio uomo o dalla propria donna, per andare a vivere in un’altra casa, intrattenendo delle nuove relazioni, spezza molti equilibri preesistenti che, bene o male, tenevano sotto controllo le emozioni più intense. Alla sofferenza subìta durante il matrimonio o la convivenza si somma quella che scaturisce durante e dopo la separazione. La libertà ritrovata, nella nuova condizione di separati, stimola entrambi a cercare nuove avventure sentimentali, che si concludono con delle relazioni non sempre più stabili di quelle precedenti e che aggiungono altro amaro in bocca ai divorziati.

Spesso si vengono a creare nuovi e a volte più intensi motivi di conflitto, legati all’esplosione della gelosia e dell’invidia. Sapere che altri hanno le parole, i baci, le carezze e il corpo della persona che si è tanto desiderato, sognato e amato, con la quale si è convissuto per tanti anni e con la quale si è costruita una famiglia, suscita intensi sentimenti di acredine, gelosia e rivalità che è molto difficile controllare e contenere: “Perché neanche il tempo di separarci e lui ha un’altra? Cos’ha questa che io non ho? È forse più bella o più interessante di me? Sa ascoltarlo e capirlo più di quanto non abbia saputo fare io?” Oppure da parte dell’uomo: “Lei si è messa subito con il nostro migliore amico. Sicuramente c’era qualcosa anche prima. L’ho sempre detto che era una donnaccia, che non si vergogna di portare a casa nostra il suo amante, presentandolo e facendolo convivere con i nostri figli come se nulla fosse”. Da tutto ciò non possono che nascere dei dolorosi sensi d’impotenza, rabbia e collera, che sono accentuati anche dalla perdita dell’autostima.

Non è difficile che passino davanti alla mente dei separati, come in un doloroso caleidoscopio, una serie d’immagini che possono sconvolgere anche la mente più posata ed equilibrata. Immagini dell’ex partner che, finalmente libero se la spassa con un altra, utilizzando forse proprio la casa di proprietà, comprata insieme a costo d’immensi sacrifici, per organizzare dei festosi, intimi incontri, senza preoccuparsi minimamente del dolore, del disagio o peggio della disperazione e della gelosia che questi comportamenti provocano in chi è stato lasciato.

D’altra parte le due reti familiari, ma anche amicali, piuttosto che essere d’aiuto e di sostegno alla coppia, frequentemente alimentano e rinfocolano la conflittualità: “Come puoi accettare che il tuo ex se la spassi con quella ragazza, mentre tu sei costretta ad occuparti dei suoi figli giorno e notte?” Oppure: “Come puoi restare indifferente verso quella donnaccia che in maniera spudorata fa entrare nella casa, che tu hai comprato con i tuoi soldi e il sudore della tua fronte, il suo nuovo amico?”

  1. 2.      Le motivazioni economiche

Tra i tanti motivi che fanno permanere anche dopo il matrimonio notevoli conflitti, vi sono sicuramente le motivazioni economiche. Ognuno dei due ex coniugi cerca in tutti i modi di pretendere e prendere per sé quanto più possibile, ma anche di togliere all’altro più che può, al fine di vendicarsi e fargli quanto più male possibile. La guerra economica, fomentata dagli avvocati e dai parenti dell’uno e dell’altro, si protrae spesso per decenni. Questo stato di continuo, perenne conflitto esaspera gli animi e rende incandescente il clima tra i due, anche perché la separazione comporta spesso per entrambi un peggioramento delle condizioni economiche. Gli stipendi di entrambi, quando ci sono, sono sistematicamente falcidiati a causa delle nuove spese, come quelle per gli avvocati e per i periti; ma anche per essere costretti a far fronte a due abitazioni, con conseguente raddoppio delle utenze a queste collegate: acqua, luce, gas, telefono, tasse per la casa, per la raccolta dei rifiuti e così via.

  1. 3. La cura e la gestione dei figli

Un altro motivo che innesca nuovi e frequenti conflitti, riguarda la cura, l’educazione e la gestione dei figli. Educazione, cura e gestione che, in queste occasioni, diventano notevolmente più complesse e difficili. Lo sviluppo umano dei minori richiede una presenza costante di persone serene, adulte e mature, che sanno essere di esempio, guida e stabile punto di riferimento. È gravemente illusorio immaginare che un educatore possa tranquillamente sostituirsi ad un altro o che un affetto possa tranquillamente essere sostituito da un altro o che una casa possa essere abbandonata per un’altra, senza che i minori ne risentano un danno. Danno che in alcuni casi può essere lieve ma che, in tante situazioni, può essere tanto grave da destrutturare o far regredire in maniera notevole e stabile, la fragile personalità dei più piccoli.

Ogni figlio vorrebbe amare e rispettare entrambi i genitori, giacché la sua tranquillità, la sua gioia, la sua fiducia nella vita e nel mondo, la sua serenità interiore, sono riposte quasi esclusivamente in loro. Per tale motivo la sofferenza è grande quando è costretto a scegliere l’uno piuttosto che l’altro. Allo stesso modo i minori soffrono e provano intensi sensi di colpa, difficilmente gestibili, quando sono costretti a voler bene e frequentare soltanto i nonni e i parenti materni o soltanto quelli paterni. Il fanciullo entra in un circolo vizioso poiché il comportamento che fa piacere a un genitore suscita il rifiuto dell’altro (Lidz, 1977, pp. 65-66).

Difficilmente gestibile è anche il conflitto interiore, quando i figli si accorgono che il loro schierarsi a favore del genitore con il quale sono affidati, con il quale restano più a lungo e che ha maggiore cura di loro, nasce spesso non da una scelta oggettiva, ma dalla maggiore possibilità che questi ha di parlar male e accusare l’altro, ma anche dalla paura di rischiare di perdere l’appoggio e il legame dell’unica persona che si occupa di loro. Questa conflittualità provoca e aggrava la già difficile e delicata vita interiore dei figli dei separati e può innescare disturbi psicologici di varia gravità, che alterano i rapporti che essi hanno con se stessi, con i coetanei, con la scuola, con gli insegnanti e, soprattutto, con uno o con entrambi i genitori.

Spesso i minori, provati dai tanti dissidi e dallo scombussolamento della loro vita intima e relazionale, provano disistima sia verso la madre sia verso il padre in quanto, con i loro comportamenti incongrui, non sono riusciti a mantenere quel clima di pace e serenità che essi si attendevano e ed al quale avevano diritto. I genitori perdono autorevolezza ai loro occhi non solo per il modo con il quale si erano comportati quando stavano insieme, ma anche per come giornalmente si comportano da separati. Ad esempio, quando, come fossero ragazzini adolescenti, iniziano a frequentare nuovi uomini e nuove donne, non tenendo in alcun conto i bisogni e i desideri dei loro piccoli, i quali vorrebbero invece che papà e mamma, dopo il periodo tempestoso, si decidessero a non più litigare e a far pace riunendosi nuovamente. E nel caso che ciò non fosse proprio possibile, che almeno evitassero di frequentare altre persone, alla ricerca di nuovi amori o semplicemente di nuove avventure sentimentali, occupandosi principalmente di curare le ferite inferte al loro animo. È infatti molto difficile per un figlio immaginare ed accettare che i propri genitori amoreggino, si fidanzino, abbiano delle “storie” o rapporti sessuali con persone diverse dalla loro madre e dal loro padre.

Quando poi, con i nuovi matrimoni o convivenze, entrano nella vita dei figli nuove figure a loro sconosciute e spesso istintivamente rifiutate: nuovi nonni, nuovi zii, nuove sorellastre e fratellastri, verso i quali non vi è alcun legame preesistente, ma soprattutto non vi è alcun desiderio di accoglienza, i loro problemi non sempre migliorano! Spesso questi nuovi rapporti, non desiderati e non cercati, provocano nei figli ulteriori severi giudizi verso chi continua a sconvolgere il mondo nel quale fino a quel momento essi erano vissuti.

I figli sono costretti a subire anche gli effetti di una maggiore irritabilità e gelosia da parte di uno dei genitori. Poiché: “Quando l’unità coniugale si è infranta e uno dei due coniugi si sente escluso, le paure di castighi e ritorsioni che incombono sul bambino non sono soltanto proiezioni del suo desiderio di liberarsi di un genitore, ma si basano sull’effettiva presenza di un genitore geloso e ostile nei suoi confronti” (Lidz, 1977, pp. 72-73).

Infine, non è facile da parte dei figli accettare che i genitori, da separati, continuando a guerreggiare in modo aperto o sotterraneo, li coinvolgano direttamente come spie di quello che l’altro fa o non fa, di quello che l’altro dice o non dice, di quale persona l’altro frequenta. Il loro giudizio diventa ancora più severo, quando si accorgono di essere usati come armi improprie, per accusare o denigrare l’altro genitore, per sottrargli più denaro o per colpirlo e ferirlo in maniera più dolorosa.

Infine per dei separati o divorziati, così psicologicamente provati, è difficile mantenere una corretta linea educativa. Spesso, pur di accaparrarsi l’amore di qualche figlio, entrambi gli ex coniugi tendono ad assumere un comportamento nettamente permissivo o altalenante. D’altra parte come fare ad attivarsi come coppia genitoriale? Come fare a decidere in piena armonia e intesa che cosa fare e come educare al meglio i figli dovendo necessariamente accogliere le proposte o le indicazioni che provengono dalla persona che più si odia, dalla persona che ha tradito tutte le loro aspettative, della persona che più si disprezza? Da quanto abbiamo detto, è facile comprendere come sia difficile per i genitori separarti o divorziati l’educazione dei figli, ma anche semplicemente la loro normale gestione quotidiana.

Le conseguenze sui figli

Per tutelare il benessere di un minore è necessario tutelare il suo ambiente affettivo. Questo è costituito, fondamentalmente, dalle relazioni esistenti tra e con le persone a lui più vicine e più care al suo cuore: i suoi genitori e i suoi familiari. Un rapporto armonico, sereno e affettuoso è per ogni figlio la fonte principale della sicurezza fisica ed emotiva. Questa sicurezza è indispensabile per il suo sviluppo fisico ma soprattutto per il sano sviluppo dell’Io di ogni piccolo che viene al mondo. La serenità che nasce dall’avvertire attorno a sé un clima d’intesa, collaborazione e sostegno reciproco, è indispensabile per il formarsi di una solida identità personale, atta ad affrontare efficacemente i tanti eventi critici presenti nella vita di ogni essere umano. Per tale motivo i rapporti tra i genitori (rapporti coniugali) e quelli tra genitori e figlio (rapporti genitoriali), anche se fondamentalmente diversi, sono strettamente legati gli uni agli altri, tanto che non è possibile scinderli, poiché fanno parte dello stesso sistema familiare.

Sappiamo che tra un padre e una madre vi è un mutuo interesse nel crescere congiuntamente i loro figli, per cui quando tra papà e mamma è presente una buona intesa, questi riusciranno a lavorare insieme, supportandosi reciprocamente, così da collaborare strettamente al lungo, complesso impegno che ha come obiettivo la strutturazione della personalità dei loro piccoli. In un sistema coparentale funzionale, quando nascono dei problemi o dei disaccordi, i genitori sono perfettamente in grado di lavorare insieme per risolverli. Per ottenere ciò una coppia funzionale riesce ad essere aperta e disponibile verso i bisogni e le aspirazioni dell’altro, creando un clima affettivo nel quale il figlio si ritrova a suo agio. Ed è per tale motivo che le coppie soddisfatte da un punto di vista coniugale hanno la possibilità di dimostrare, nei confronti dei figli, più calore, più dialogo, più cooperazione e più sensibilità nei confronti dei loro bisogni. Con tali preziosi apporti i figli avranno maggiori possibilità di crescere affettivamente ed emotivamente sani e di introiettare molto più facilmente norme, regole, esperienze, abilità relazionali, possibilità di scambi, espressioni affettive, nonché strategie adeguate alla risoluzione dei futuri conflitti con i coetanei e gli adulti.

Per tale motivo se durante il matrimonio sono presenti degli intensi ed eclatanti conflitti, quando questi cessano con la separazione, ciò può apportare giovamento ai figli, i quali non sono più costretti ad assistere a quotidiane aggressioni e violenze verbali o fisiche tra i genitori. Tuttavia, se dopo il matrimonio questi comportamenti irritanti e aggressivi perdurano o si accentuano, il danno che i minori ne hanno, dovendo tra l’altro vivere senza l’apporto di uno dei genitori, aggrava il loro status psicologico, già molto provato.

Come conseguenza di ciò si possono avere una serie di disturbi psicoaffettivi, più o meno gravi, ma sempre limitanti il normale sviluppo dei minori. Questi disturbi sono più gravi quando è presente solo un figlio unico, rispetto a quando vi sono più fratelli e sorelle che possono, con la loro presenza, la loro relazione affettiva, attenuare o limitare l’eventuale danno.

 Nei genitori separati nei quali perdura lo stato conflittuale si evidenziano spesso segnali di  carenze affettive, mancanza di equilibrio psichico, deficit cognitivi, senso di solitudine, depressione, difficoltà relazionali, facili comportamenti devianti, condotte asociali o antisociali, pigrizia, mancanza d’impegno e fenomeni d’auto-colpevolizzazione in rapporto alla separazione dei genitori.

Per Lidz (1977, p.69): “Più spesso di quanto non appaia da uno studio superficiale, i figli cresciuti in famiglie ove esistono tendenze disgregatrici tendono a manifestare una scissione della struttura dell’Io. La definitiva frattura tra i genitori sul piano della realtà dà luogo, in seguito all’introiezione, a un’analoga frattura sul piano psichico”.

 
 


[1] Pirrone, C.,  (2014), “Come dire: Ti prometto di essere fedele sempre”, Famiglia oggi,  n. 3.

[2] Volpi R. (2007), La fine della famiglia, Mondatori, Milano, p. 62.

[3] Volpi R. (2007), La fine della famiglia, Mondatori, Milano, p. 15.

[4] Andreoli, V. (1995), La violenza – dentro di noi, attorno a noi, Fabbri editore Corriere della sera, Milano, p. 71.

[5] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 145.

[6] Ackerman N.W., (1968), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Bollati Boringhieri, p. 193.

[7] Ackerman N.W., (1968), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Bollati Boringhieri, p. 82.

[8] Harding E. (1951), La strada della donna, Roma, Astrolabio, p. 233.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato: “Ti odio!”- Conflitto e aggressività e violenza tra i sessi”.

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I ruoli

 

 

Secondo la definizione del sociologo Neil J. Smelser: [1]  “Un ruolo consiste nelle aspettative che si creano riguardo al comportamento di una persona quando questa si trova in una certa posizione all’interno di un gruppo.” 

Il ruolo può nascere dalla necessità, dai bisogni o dalle scelte effettuate dalle singole persone, ma può venire affidato e richiesto da qualche responsabile o da qualche società e gruppo organizzato. Da queste necessità, bisogni o scelte nasce l’affidamento di un certo compito ben preciso, al quale è collegata anche una chiara e netta responsabilità. Qualunque ruolo, per essere funzionale, deve in qualche modo essere accettato dagli altri. Nel mondo della marineria, il “ruolino” prescriveva a ciascun membro dell’equipaggio il compito che gli era affidato nella conduzione della nave. Naturalmente il comandante o l’ufficiale addetto affidava i vari ruoli tenendo presenti le necessità della nave ma anche e soprattutto, le caratteristiche, la preparazione e le capacità dei singoli marinai.

 Il ruolo può però concretizzarsi anche in modo automatico. Ad esempio nel momento in cui una donna o un uomo hanno un figlio, questi diventeranno automaticamente, anche se solo nominalmente, padre e madre, mentre i loro fratelli acquisteranno il ruolo di zii e i genitori di questa donna e di quest’uomo saranno nonni.

In altri casi il ruolo può essere scelto dalle stesse persone allo scopo di trovare, in un determinato impegno, una nuova realizzazione o maggiori piaceri e gratificazioni: “Io voglio essere tua moglie; io voglio essere tuo marito”. “Io voglio essere madre per questo bambino adottato”.

Da quanto abbiamo detto si deduce facilmente che il ruolo:

  • può essere scelto dalle singole persone
  • può nascere da una necessità individuale o collettiva;

In ogni caso, per essere ben svolto, necessità di specifiche qualità e preparazione; ha bisogno di essere accettato dagli altri; richiede una grande responsabilità ma anche impegno, sacrificio e molta attenzione nella sua conduzione e realizzazione.

La molteplicità dei ruoli

Ognuno di noi può avere, e spesso ha più ruoli: si può essere contemporaneamente padre, zio, nonno, fratello, marito, responsabile aziendale, scrittore, sindacalista, volontario ecc. Per gli adulti avere più di un ruolo è la norma e non l’eccezione. Ed è forse per tale motivo che cercare di assumere molti e diversi ruoli e cambiarli a volontà ci appare non solo naturale ma anche molto facile e desiderabile: “Perché essere soltanto madre o padre e non anche insegnante, politico, scrittore e quant’altro?”

Sicuramente questo comportamento ci appare più interessante, stuzzicante, moderno e in linea con i tempi: “Che noia fare sempre le stesse cose” “Che bello cambiare e rimettersi in gioco”.

Tuttavia non sempre è facile e conveniente cambiare il proprio ruolo o assumerne uno nuovo o peggio aspirare a eccessive pluralità di ruoli, a volte tra loro contrastanti. 

E ciò per vari motivi:

1. È evidente che per ogni ruolo assunto che si aggiunge ai precedenti, aumentano gli oneri, gli impegni, le responsabilità e i sacrifici necessari per assolverli bene tutti e ciò comporta un grande dispendio di tempo ed energie che non sempre sono a nostra disposizione. Il buon senso e la visione reale e non illusoria della vita vorrebbe allora che assumessimo i ruoli che siamo in grado di affrontare  e assolvere bene e correttamente e non tutti quelli che l’entusiasmo o le mode del momento ci suggeriscono o che ci vengono offerti.

2. Spesso anche un ruolo apparentemente semplice ha bisogno di una lunga e attenta preparazione. Ciò è soprattutto vero oggi giacché per ogni compito che le moderne società notevolmente complesse e articolate richiedono sono necessari lunghi studi, master e tirocini che si protraggono spesso per decine d’anni. Pertanto il dispendio di tempo e di energie necessari per assumere un ruolo difficilmente potrà essere replicato e attivato per molti altri. In questi casi il rischio è di affrontare alcuni compiti essenziali per la famiglia e la società, senza la necessaria preparazione, rischiando di far male ogni cosa affrontata. Ciò evidentemente comporta delle conseguenze negative anche sul piano dell’autostima personale.

3. Quando si cerca d’affrontare mansioni troppo diverse e contrastanti spesso siamo coinvolti dall’ansia e dai dubbi: “faccio bene o faccio male”  “E’ corretto quello che faccio oppure no”. Se cerchiamo di uscire da queste ansie e da questi dubbi trascurando alcuni compiti a favore di altri è evidente che deluderemo innanzitutto noi ma anche gli altri che si aspettano molto di più di quanto in realtà siamo capaci e siamo disposti a offrire.   

4. Ci sfugge, spesso, anche la considerazione che il ruolo è qualcosa di più di un compito momentaneo, esso tende a incidere e penetrare in profondità nel nostro essere, legandosi fortemente all’Io del soggetto segnando e modificando anche profondamente le caratteristiche di quest’ultimo. Pertanto se a volte una particolare personalità ha bisogno di esprimersi in una certa mansione, altre volte, al contrario è la mansione assunta che, in qualche modo, plasma e modifica la personalità del soggetto. Facciamo qualche esempio. Se una personalità tendente alla precisione cercherà e si attiverà per dei compiti confacenti alle sue caratteristiche personologiche, come fare il contabile o l’orologiaio, può tuttavia capitare anche il contrario: e cioè che un certo stile richiesto da questi compiti modifichi, anche se in parte, la personalità del soggetto e il modo con il quale questi si porrà nei confronti degli altri. Un altro esempio, fra i tanti che possiamo fare, è quello di un comandante militare il quale, volente o nolente, a motivo della lunga preparazione e della intensa disciplina alla quale deve sottostare per effettuare correttamente il suo lavoro, assume ben presto le classiche caratteristiche presenti in un buon militare: grinta, aggressività, impeto, resistenza, ubbidienza.  Caratteristiche queste che non sempre sono confacenti con altri compiti nei quali lo stile militaresco non è necessario o addirittura è controproducente.  Non solo i militari o gli orologiai avranno problemi nell’affrontare ruoli diversi e contrastanti. In generale possiamo dire che lo stile che si acquisisce nel mondo economico e dei servizi può risultare e spesso risulta scarsamente adeguato e confacente nei rapporti affettivi, educativi e relazionali E ciò in quanto nelle attività manageriali e professionali hanno molto valore la grinta e il dinamismo; l’intraprendenza e la determinazione;  le parole e i ragionamenti; la capacità di cambiare e aggiornarsi. Mentre nel mondo degli affetti e delle relazioni, al contrario sono importanti: la serenità e la distensione; la dolcezza e la tenerezza; la disponibilità e l’accoglienza; le capacità di ascolto e di cura; le capacità di sacrificio ma anche la stabilità e continuità nel rapporto.

4. Spesso quando si assumono più ruoli si entra in competizione con le altre persone con le quali si è costretti a condividere quel ruolo, in special modo quando non vi è un chiaro e netto punto di riferimento e un ben definito responsabile al quale far capo. In questi casi le gelosie e i contrasti anche intensi e violenti sono all’ordine del giorno.  Il caso più frequente e grave lo troviamo proprio dentro le nostre case. Se a entrambi gli uomini e donne sono affidati, come avviene oggi nella nostra società, gli stessi ruoli educativi, di ascolto, attenzioni e accudimento verso i minori, gli anziani e le persone bisognose di cure e assistenza e, nello stesso tempo, viene ad entrambi data la stessa responsabilità  sull’indirizzo  sociale ed economico della famiglia,  saranno facili e spesso gravi i contrasti sia per un diverso modo di giudicare, gestire e affrontare i vari compiti e le varie situazioni, sia per il nascere di confronti, gelosie e invidie: “Perché lui deve guadagnare più di me?” “Perché lei deve avere buona parte delle coccole dei figli e io no?” “Perché devo sottostare a quello che lei/lui dice o preferisce e non deve prevalere la mia idea, la mia opinione o la mia volontà?” “Perché lui/lei deve spendere non solo i suoi soldi ma anche i miei?”.  Purtroppo affidare ad entrambi i coniugi stessi compiti e medesime funzioni e ruoli si è rivelato  -e non era difficile prevederlo-  il modo migliore per mettere uomini e donne l’uno contro l’altro e rendere stabilmente e perennemente conflittuale il rapporto tra i sessi.

5. Vi è infine un altro problema del quale si parla poco: se un certo ruolo è affidato solo a una persona questa sentendosi pienamente responsabile del risultato si impegnerà  a svolgerlo nel migliore dei modi, dando il massimo di sé, se non altro per soddisfare il suo orgoglio e la sua autostima, ma se lo stesso ruolo è affidato a due o più persone l’impegno sarà sicuramente più modesto in quanto, in caso di fallimento è facile dare la colpa all’altro o agli altri: “Che non hanno collaborato”; “Che non si sono impegnati abbastanza”; “Che hanno sbagliato nella loro condotta”; “Che sono stati dei pigri o degli incapaci”; e così via. Ancora una volta un importante esempio l’abbiamo nelle nostre famiglie. L’aver affidato lo stesso ruolo agli uomini e alle donne ha comportato un disinvestimento negli impegni e nelle responsabilità familiari specie nelle responsabilità educative. In quanto se qualcosa non funzione e purtroppo sono tante le cose che non funzionano nell’ambito delle famiglie e dell’educazione dei figli, è sicuramente colpa dell’altro;  se invece qualcosa va bene è sicuramente merito nostro. Pertanto non è valorizzato adeguatamente il personale contributo e impegno.

6. Un ruolo di responsabilità o autorità comporta non solo “onori” ma anche tanti “oneri” che spesso superano le gratificazione dovute agli onori. Questo spiega molto bene il fatto che quando le leggi sulla famiglia hanno tolto l’autorità di capo famiglia al marito, molto uomini come si direbbe oggi “non hanno fatto una piega” e “ hanno tirato i remi in barca”. Hanno cioè accettato di buon grado questa perdita del loro ruolo di “capo” ma in compenso hanno ceduto ben volentieri la responsabilità, la fatica, l’impegno, il sacrificio che questo ruolo comportava. La responsabilità condivisa in definitiva si è trasformata in una comune irresponsabilità giacché ogni componente della coppia non essendo investito formalmente in uno specifico compito ha pensato bene di scrollarsi di ogni responsabilità, impegno e sacrificio. E ciò in quanto, come abbiamo detto prima, quando la responsabilità è condivisa è facile scaricare ogni impegno ma anche ogni colpa sull’altro. Il detto che “la pentola in comune non bolle mai” sintetizza molto bene questo concetto.



[1] Neil j. Smelser, Manuale di sociologia, Il Mulino Prentice hall International, 1995, p.18.

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Famiglie funzionali e famiglie disfunzionali

Emidio Tribulato

LE FUNZIONI DELLA FAMIGLIA

PAROLE CHIAVI: famiglia: definizioni, funzioni della famiglia, società, educazione, cura, affettività,  

 

 

 

 

Che cos'è la famiglia?

Le definizioni sono tante:

 

 

 

La famiglia funzionale

La famiglia, se funzionale, riesce ad assolvere a numerose ed importanti funzioni a favore della società è viceversa. E’ possibile, ma non è affatto conveniente, come spesso si vorrebbe e si è tentato di fare, rompere questo intimo sodalizio tra famiglia e società, in quanto se paragoniamo le famiglie alle cellule di un individuo, così come le cellule hanno bisogno dell’intero organismo per vivere, anche l’organismo ha bisogno delle cellule per la sua salute e per la sua sopravvivenza. pertanto se la famiglia, ogni famiglia, ha bisogno della società, questa, a sua volta, non può fare a meno delle famiglie.

La famiglia provvede a svariate funzioni sociali:

 

Funzione emotiva -affettiva

 

Essendo la famiglia luogo privilegiato degli affetti, e quindi luogo dove nascono e si sperimentano i primi sentimenti d’amore, essa ha, come fondamentale funzione, lo sviluppo dell’espressioni affettivo-emotive. Come luogo primario dell’amore, dell’accoglienza, dell’abbraccio, della carezza, della rassicurazione, della sollecitudine, questa istituzione è dispensatrice della fiducia di fondo, del bambino, del giovane e dell’adulto, rispetto alla vita e all’ambiente sociale.  Nell’unione familiare, più che in altre forme di convivenza, possono dialetticamente armonizzarsi libertà e responsabilità; autonomia e solidarietà; cura dei singoli e ricerca del bene comune; forza progettuale e disponibilità all’imprevisto; sollecitudine e discrezione; fisiologica e sana reattività nei confronti delle aggressioni, ma anche capacità di perdonare; disponibilità alla comunicazione ma anche all’ascolto.

Se la famiglia ha buone caratteristiche di funzionalità riuscirà a far star bene tutti i suoi componenti mediante la soddisfazione dei loro bisogni affettivo-relazionali. Riuscirà a far stare bene i genitori, i figli, le persone anziane. In quanto riuscirà a dare a ognuno di essi ciò di cui hanno bisogno: riuscirà a dare sicurezza, ascolto, gioia, affetto, amore, piacere. Una famiglia funzionale sarà in grado di creare in ogni componente la fiducia di fondo nei confronti della vita, degli altri, in se stessi. Se la famiglia riesce ad essere luogo di calore, accoglienza e amore, sarà capace di produrre nella prole capacità e possibilità affettive e relazionali notevoli. In definitiva creerà benessere psicologico in tutti i suoi membri.

In caso contrario, quando la famiglia ha caratteristiche disfunzionali, oltre a numerose problematiche psicologiche: nevrosi, psicosi, caratteropatie, tossicomanie ecc., darà vita a insicurezza, sospetto reciproco, conflittualità, ansia, depressione, frustrazione, impotenza, aggressività, odio e rancore. Problematiche queste che, inevitabilmente, saranno trasferite nel contesto sociale, creando un danno economico e di funzionalità di tutto il sistema sociale, anche di quello politico ed economico, tanto più grave quanto più numerosi e importanti sono i problemi dei suoi componenti.

Funzione assistenziale, di cura e di sostegno nelle avversità fisiche e psicologiche

 

E’ solo all’interno delle famiglie che le attenzioni amorevoli tra i coniugi,  verso la prole, le persone ammalate, disabili o sole, hanno caratteristiche che le rendono uniche, insostituibili e particolarmente importanti. Psicologicamente, i membri della famiglia sono legati da una reciproca interdipendenza, per la soddisfazione dei bisogni affettivi. I servizi statali o quelli offerti, anzi comprati dai privati, raramente sono in grado di dare quanto promesso. Pertanto nelle famiglie funzionali ogni componente sarà sostenuto, incoraggiato, aiutato nei momenti di difficoltà o crisi: nella perdita de lavoro, nella malattia, quando sono presento gli acciacchi dovuti all’età, quando si presentano difficoltà economiche, delusioni sentimentali e relazionali, momenti di solitudine, frustrazione ecc.  Nessun servizio pubblico o privato è, infatti, capace di dare tanto e bene ad un costo così contenuto, come riesce a fare una normale sana famiglia, in quanto nessun servizio pubblico o privato riesce a creare, attorno ad un minore o alla persona ammalata, anziana, disabile, sola o bisognosa di cure e di particolari attenzioni quel clima di affettuosa e attenta presenza che dà il necessario conforto, che lenisce la sofferenza, allevia i problemi, accelera la guarigione.

Nelle famiglie disfunzionali mancherà l'aiuto e il sostegno reciproco tra i coniugi, la cura dei minori è insufficiente ad un sano sviluppo e si farà un uso eccessivo e abnorme dei servizi statati o privati nel vano tentativo di dare a ogni suo componente ciò che la famiglia non riesce a offrire. 

Funzione educativa

 

 

 

La famiglia, al di là delle sue diverse configurazioni, ci rimanda a quella struttura relazionale delle persone che definisce il nostro Io più vero e profondo. Pertanto la funzione educativa primaria e di base non può che essere affidata alla famiglia. Solo in questa le future generazioni trovano quel legame d’amore tra due esseri di sesso diverso, quell’affetto, quelle attenzioni e cure, capaci di sviluppare tutte le potenzialità dell’essere umano, in un clima di serenità, apertura alla vita, fiducia e sicurezza. Solo in questa istituzione sono presenti quei presupposti di continuità e gradualità dei processi educativi capaci di sviluppare e far crescere persone con una stabile e sicura identità e personalità. Persone quindi non solo intelligenti e capaci ma anche serene, mature e responsabili.

Questo perché è soltanto nella famiglia che ritroviamo dei legami affettivi con quelle caratteristiche di intensità, stabilità, continuità e responsabilità. Qualità indispensabili nella formazione ed educazione delle future generazioni umane.  Per tali motivi quando la famiglia possiede buone caratteristiche di funzionalità provvederà a sviluppare nei nuovi nati tutte le potenzialità umane presenti nei geni: l’intelligenza, Il linguaggio, la motilità, la socialità, l’affettività, i sentimenti, le emozioni, la spiritualità, la cultura di base. In definitiva riuscirà a formare un uomo e una donna con buone caratteristiche di maturità, serenità, equilibrio e socialità.

La funzione educativa della scuola o degli altri servizi non può che essere secondaria e sussidiaria a quella familiare, in quanto, questi servizi non hanno né la capacità, né la linearità, né la coerenza, né la responsabilità, presenti in una sana, normale famiglia. Pertanto è soprattutto in questa che al bambino vengono trasmessi i valori fondamentali indispensabili per la sua esistenza e per la società. E’ nella famiglia che lui impara a limitare le sue esigenze; capisce come rispettare quelle degli altri; apprende ad inserire i bisogni in una corretta scala di valori. Ed è nella famiglia che impara a comprendere che la vera libertà si nutre di responsabilità e rispetto nei confronti degli altri, di se stesso e della verità.

Quando la famiglia è disfunzionale uno o più potenzialità non saranno sviluppate o saranno stimolate in maniera abnorme o patologica. Il caso che descriviamo è sicuramente raro ma è un segnale di come la famiglia stia perdendo la sua funzione educativa anche nei comportamenti più basilari ed elementari.

Un giorno venne all’osservazione della nostra equipe una bambina di tre anni. Ben sviluppata dal punto di vista fisico rispetto alla sua età, appariva nell’aspetto una bella bambina sana e vivace. Era figlia di genitori di ottima estrazione sociale e culturale: il padre aveva due lauree e così la madre. Entrambi i genitori mi dissero subito di essere super impegnati nelle attività lavorative. Quando ancora io stesso non mi ero lasciato sedurre dal telefonino cellulare che ora tengo, per la disperazione di mia moglie e dei miei figli, ben conservato e spento in un cassetto, la madre con orgoglio mi fece vedere di averne due: uno per le attività d’ufficio e uno per ricevere le chiamate di amici e familiari. Mi esposero il loro problema sintetizzandolo in poche parole: “La bambina nonostante abbia più di tre anni ancora non parla.“

Non vi erano, nelle notizie riguardanti la gravidanza e la nascita, segni che potessero far pensare ad una patologia cerebrale pre o post natale. La bambina sembrava possedere un buon udito e anche i test per evidenziare  il suo sviluppo intellettivo evidenziavano delle capacità logiche e percettive nella norma. Tra l’altro non sembrava una bambina psicologicamente trascurata, la madre affermava che la bambina era sempre con lei per parecchie ore al giorno. Eppure non parlava. Imbarazzati in quanto non riuscivamo a fare uno straccio di diagnosi, io e gli altri membri dell’equipe, ci guardavamo in faccia, sperando che qualcuno riuscisse a capire l’origine di questa strana patologia. Poi, come per un’improvvisa illuminazione divina, le feci una domanda che raramente faccio ai genitori: “Ma voi avete insegnato a parlare a questa bambina?” Sia il padre che la madre mi guardarono stupiti. “Mi scusi ma perché avremmo dovuto insegnarle a parlare? Noi sappiamo che i bambini normali verso i tre anni parlano, lei non lo fa e per questo che noi ci siamo preoccupati e siamo venuti da lei.” Ripetei la domanda spiegando cosa significasse insegnare a parlare, la madre mi guardò quasi offesa e rispose stizzita :” Dottore ma veramente lei pensa che con tutto il da fare che ho io avrei mai potuto fare quello che lei mi dice? Forse non ha capito, io ho due lavori che mi impegnano anche quando sono a casa. Ecco perché porto due telefonini. La bambina sta sempre con me, anche quando vado dai clienti la porto nel sedile posteriore della macchina, ma certo non potevo mettermi a fare quelle cose che lei mi dice. Io e mio marito pensavamo che i bambini ad una certa età parlassero e basta.”

Capendo che non era proprio il caso di infierire cominciai a spiegare loro un programma che avrebbe dovuto aiutare la bambina ad acquisire il linguaggio. Si trattava soltanto di farle ripetere delle parole prendendo spunto da immagini  semplici e colorate. Sapendo che entrambi i genitori avevano una cultura basata soprattutto sui numeri ed i calcoli, con pignoleria descrissi quante volte e per quanti minuti ogni giorno bisognava sottoporre la bambina a quel programma “speciale.”

Dopo un mese circa i genitori e la bambina ritornarono per un controllo. Chiesi come andavano le cose e la madre: “Dottore è un miracolo, adesso la bambina parla.” Da allora quando vi sono casi simili dico scherzando ai miei collaboratori che si tratta di un altro caso che necessita di un intervento miracoloso!

Funzione riproduttiva

 

All’interno della famiglia nascono le future generazioni umane. Se le famiglie trovano nel proprio seno sufficienti capacità e all’esterno un ambiente favorevole, esse sono in grado di fornire alla società un numero di figli sufficiente a sostituire le persone decedute e ad ampliare, gradualmente, la diffusione della razza umana. Nelle famiglie disfunzionali, sia qualitativamente che numericamente, il “prodotto” di questa istituzione sarà scarso ed insufficiente a coprire anche solo le morti.

Funzione economica

La famiglia è una piccola impresa tra persone che condividono e si impegnano per dei progetti comuni. Tra questi ve ne sono sicuramente anche di tipo finanziario. La famiglia provvede, infatti, a procurare, con il lavoro dei suoi membri, le risorse necessarie per la vita comune: cibo, vestiti, abitazione, cure sanitarie e altre necessità materiali. Giacché con le sue spese consuma, mentre nel contempo produce reddito mediante il lavoro dei suoi componenti, è la famiglia il principale motore dell’economia. Mediante il pagamento delle tasse essa provvede alle necessità dello Stato, mentre, a sua volta, utilizza gli aiuti dello Stato per l’assistenza ai minori, agli anziani, ai malati e ai disabili.  Quando uno o più dei suoi membri sta male sia fisicamente sia psicologicamente, non ne soffre solo la famiglia ma anche la società, in quanto sarà costretta a rinunciare al lavoro utile e produttivo di questi e sarà anche costretta a provvedere alla sua cura ed assistenza.

Funzione di protezione dai pericoli esterni

 

La famiglia ha il dovere di proteggere i suoi membri dai pericoli fisici, psicologici e morali: dipendenza, disvalori, violenze, abusi di ogni genere (sessuali, fisici, spirituali, morali).

I pericoli presenti nell’ambiente sociale sono di vario ordine: sono pericoli di tipo fisico, ma sono soprattutto pericoli di tipo psicologico: contatto con disvalori, violenze, abusi o offese di tipo spirituale, morale e relazionale. La famiglia dovrebbe poter offrire a tutti i suoi membri, protezione e riparo, così da essere porto sicuro nei confronti dei fattori negativi dell’ambiente sociale nel quale è inserita. La famiglia, se adeguatamente preparata, aiutata e sostenuta dalle istituzioni, ha gli strumenti per riconoscerli, ha gli antidoti per neutralizzarli, ha la forza per debellarli, così da impedire danni irreparabili ai suoi membri.

Abbiamo detto “se aiutata dalle istituzioni”. E’ indispensabile quindi che le istituzioni si facciano carico della protezione delle famiglie e dei loro membri, senza abbassare la guardia con la scusa   della libertà di parola e di pensiero. Oggi, nelle società occidentali, questa protezione manca quasi completamente, in quanto  in modo assolutamente irresponsabile, lo Stato non si cura di portare, mediante la TV e gli altri mass media, vicino alle famiglie e dentro le famiglie, insieme a materiale utile anche elementi molto dannosi per la vita di questa istituzione o per qualcuno dei suoi componenti più fragili e indifesi. Pertanto si ricercano e si puniscono severamente i pochi orchi pedofili, ma si lascia che un mare putrido di melma prodotto anche a spese della comunità invada, mediante i mass media, le menti ed i cuori di minori e adulti.  E poiché nessun genitore ha il dono della bi o tri locazione per essere contemporaneamente presenti al primo e secondo lavoro; per essere pronto+ ad accompagnare i figli nelle varie attività sportive, musicali e scolastiche “indispensabili per farli crescere bene”; per accompagnarli alle visite dei vari medici e specialisti, non possono essere nel contempo pronti a controllare che i figli non si mettano in situazioni di rischio con radio, Tv, Internet e telefonini tutto fare.

Funzione socializzante

 

Essendo il gruppo primario intermedio tra l’individuo e la più vasta società, la famiglia è la più piccola cellula sociale ma anche il principale mediatore sociale.

È nella famiglia che inizia il cammino socializzante per i minori, che si amplierà e completerà poi mediante l’attività della scuola e delle altre agenzie educative. È sempre in questa istituzione che viene attuato il miglior tirocinio verso la comunità e verso l’altro. Si impara a limitare i propri desideri, a confrontarli con i bisogni degli altri, si impara a riconoscere nei propri comportamenti le conseguenze positive o negative che da questi comportamenti potrebbero scaturire.

E’ nella famiglia che vengono posti i fondamenti dell’educazione all’integrazione dei ruoli sociali e l’accettazione delle responsabilità verso il più vasto mondo esterno ad essa.

Funzione etica e religiosa

 

All’interno della famiglia sono trasmessi i fondamentali principi etici, morali e religiosi.

E’ all’interno della famiglia che, nei vari popoli, si coltiva e viene espressa la religiosità più profonda e vera. E’ solo in questa istituzione che gli insegnamenti morali  ed i valori fondamentali del genere umano vengono trasmessi dagli adulti alle nuove generazioni, senza orpelli o grandi manifestazioni esteriori ma nel modo più intimo, profondo e vero.

Nella vita di ogni giorno, tra le mura che racchiudono e uniscono le famiglie, lo spirito religioso viene trasmesso non solo come informazione culturale ma, goccia dopo goccia, è alimento prezioso ed essenziale nella strutturazione e formazione della personalità.

Non è un caso che in tutti i popoli di grande civiltà, è in seno alla famiglia che viene iniziato, alimentato e sviluppato il senso etico e religioso della vita, tanto che per la chiesa cattolica la famiglia rappresenta la “piccola chiesa domestica”.

Funzione di trasmissione culturale

 

All’interno della famiglia sono trasmessi i principali elementi della cultura di base della società. E’ la famiglia che provvede allo sviluppo della personalità dei singoli componenti.

E’ attraverso la famiglia che le fondamentali conoscenze e la cultura di base dell’umanità passano alle nuove generazioni. Mediante l’esempio quotidiano sono trasmessi gli insegnamenti riguardanti i rapporti con il prossimo, i principi educativi fondamentali per il buon vivere sociale, i valori morali, i ruoli sessuali, i compiti ed i legami generazionali.

Funzione di sviluppo e orientamento dell’identità personale e sessuale

 

La famiglia ha lo scopo di sviluppare l’identità sessuale e personale che si trova allo Stato potenziale nei nostri geni. Almeno un terzo dell’identità e dei ruoli sessuali sono affidati all’ambiente affettivo relazionale nel quale il bambino vive. Questo significa che una buona parte della corretta identità sessuale necessita di idonei interventi da parte della famiglia di origine.

 

La famiglia non è un fossile storico, ma resta il migliore ed insostituibile strumento per la sopravvivenza della specie e della società ed è l’unità base affinché la società si evolva positivamente. Dalla famiglia dipende il destino dell’uomo, il suo benessere o malessere psicologico, la sua capacità di cogliere i piccoli piaceri e le gioie della vita, la capacità di dare senso alla sua esistenza. Se le famiglie sono funzionali le future generazioni saranno forti, ricche di beni materiali, culturali, spirituali e materiali. In caso contrario saranno deboli, fragili, disturbate, malate fisicamente, psicologicamente o socialmente. La famiglia, pertanto, è il più importante capitale di ogni società umana.

 

PAROLE CHIAVI: famiglia: definizioni, funzioni della famiglia, società, educazione, cura, affettività,  

 

 

 

Famiglie estese e famiglie ridotte - Il figlio unico

 

 

 

Si è notato come il benessere fisico e psichico dei minori sia direttamente proporzionale al numero e alla qualità delle persone legate a questi da stabili vincoli affettivi e di parentela. Quando accanto ad un cucciolo d'uomo sono presenti, nei suoi bisogni materiali, nelle necessità affettivo – relazionali, ma anche nei suoi giochi e nelle sue scoperte, degli esseri umani numerosi, qualitativamente validi, e a lui legati da vincoli affettivi stabili, le attenzioni, la quantità e la qualità del dialogo, i contatti capaci di apporti positivi aumentano in modo considerevole.

Per LIDZ

‹‹Quando la famiglia nucleare composta da genitori e figli, non è nettamente separata dall’ampio contesto dei parenti (nonni, zii e zie, cugini ecc.), le varie funzioni della famiglia vengono divise fra i parenti. I genitori sono aiutati nell’allevamento dei figli che, a turno, possiedono molti genitori “sostituti”. Gli effetti delle anomalie e delle deficienze dei genitori, e quindi l’influenza della loro personalità, sono fortemente diminuiti››.[1]

 

Per ZATTONI e GILLINI, quando il bambino entrava in un contesto di famiglia allargata fatto di cascina, cortile o persino di paese

‹‹…i piccoli erano un bene comune, senza che questo venisse proclamato a parole; se il bambino combinava qualche guaio, veniva redarguito dagli adulti presenti; così come, se faceva sfoggio di qualche capacità, aveva un naturale “pubblico” adulto che gli batteva le mani››.[2]

Ciò non avviene quando la rete sociale e parentale è molto ridotta o, come spesso avviene nel mondo occidentale negli ultimi decenni, è quasi assente. In questa condizione è facile che i piccoli dell'uomo soffrano di carenze in molti momenti della loro crescita e del loro sviluppo. Soffrono nel momento dell'attesa e della nascita, in quanto le ansie dei genitori non saranno affrontate e quindi placate o ridotte da persone più mature ed esperte che potranno consigliare, rasserenare e accogliere le paure sia della madre sia del padre. Soffrono nei primi mesi di vita, in quanto mancherà ai loro genitori una guida autorevole e serena che li indirizzi sulle tante problematiche da affrontare in questo periodo, che è anche il momento più delicato e decisivo per l'instaurarsi di un sano e felice rapporto e legame genitori - figlio. Soffrono quando questi genitori sono costretti ad affrontare, in solitudine, i numerosi malanni o disturbi psichici e somatici dei figli. In questi casi l'intervento del pediatra o dello specialista non sempre è sufficiente a sedare le ansie di papà e mamma. E per finire, i bambini soffrono quando avrebbero bisogno di iniziare a socializzare con i fratelli o con i cugini, con i quali vi è un’antica e prolungata frequenza e invece sono costretti a confrontarsi, in ambienti affollati, con gruppi di coetanei sconosciuti, vocianti e spesso irritati e irritabili, in quanto frustrati a causa della lontananza dai genitori e dalle rassicuranti mura domestiche. Per tali motivi tutti i piccoli dell'uomo, come quelli di molti animali, dovrebbero avere la fortuna di crescere in ambiti familiari ricchi di capacità umane ma anche estesi.

 

 Il figlio unico.

 

 

 

Nell’essere figlio unico vi sono certamente dei vantaggi. Non è necessario dividere con altri fratelli l’amore dei genitori. Questi, se vogliono, possono tranquillamente dedicare tutte le affettuosità e tutto il tempo che hanno a disposizione, a questo figlio. Inoltre, se si è più piccoli, è facile dover subire le angherie del fratello maggiore. Ma anche quest’ultimo sarà costretto a sopportare le prepotenze del fratello minore quando questi, approfittando della maggiore protezione dei genitori che gli è accordata, potrà impossessarsi dei suoi giocattoli o fumetti, scappando subito dopo, per nascondersi dalla mamma e così farsi proteggere. Questa mamma, d’altra parte, difendendolo, non mancherà di dire l’odiosa, aborrita frase: ‹‹Tu sei grande, accontenta tuo fratello che è piccolino››. Sarà, inoltre, più facile per i genitori accontentare il figlio unico nei suoi bisogni e nei suoi desideri costosi, in quanto le finanze della casa non devono essere ripartite tra due o tra tanti elementi.

 

Accanto a questi aspetti positivi ve ne sono, però, molti altri negativi. Essere figlio unico significa:

  • ·         rinunciare a molti stimoli di tipo competitivo, nel conquistare e poi mantenere l’affetto dei genitori mediante i comportamenti più opportuni, affettuosi, dialoganti e collaboranti;
  • ·         perdere precocemente il piacere e le esperienze ottenute mediante i giochi infantili in quanto, giocando e dialogando spesso con persone adulte, i figli unici sono stimolati a diventare precocemente adulti negli atteggiamenti e nei comportamenti;
  • ·         essere costretti a confrontarsi molto presto con il mondo degli adulti senza aver prima sperimentato il rapporto protetto con altri minori con i quali si è già stabilito un legame affettivo e di sangue;
  • ·         non avere la possibilità di comparare esperienze, idee, riflessioni e pensieri con altri minori, diversi per età e per sesso ma che vivono gli stessi valori familiari;
  • ·         non avere la possibilità di trovare nei fratelli maggiori dei fondamentali modelli di riferimento, da imitare ed introiettare;
  • ·         non poter giocare con minori che vivono e partecipano dello stesso clima familiare, che hanno un analogo stile di comportamento e che condividono i medesimi valori;
  • ·         non poter utilizzare e godere di una realtà e di una presenza calda e rassicurante, nel momento in cui i genitori sono assenti per lavoro, quando uno di loro viene a mancare o nei momenti di crisi della famiglia. Crisi che può sopravvenire a causa di gravi conflitti coniugali o, peggio, per la frattura della coppia genitoriale;
  • ·         dover affrontare la genitorialità senza aver avuto preziose esperienze educative e di cura di bambini piccoli. Per WINNICOTT: ‹‹…ogni bambino che non sia passato attraverso questa esperienza e che non abbia mai visto la madre allattare, lavare e curare un bambino piccolo, è meno ricco del bambino che è stato testimone di questi avvenimenti››;[3]
  • ·         confrontarsi frequentemente con dei genitori permissivi o ansiosi. I genitori dei figli unici, vivono con più apprensione e paura il loro ruolo. Hanno timore che al loro unico erede capiti qualcosa di grave e poiché hanno anche ansia e timore di perdere il suo affetto hanno difficoltà a porre in essere comportamenti autorevoli, in quanto temono che lui reagisca negativamente e distruttivamente di fronte ad atteggiamenti educativi severi;

·         non essere rafforzati, mediante la nascita del fratellino, dall’idea che i genitori si vogliono ancora tanto bene da scommettere sul futuro, arricchendo la famiglia di un nuovo elemento;

  • ·         fare esperienze di ruoli diversi, così da prepararsi a vivere in gruppi più vasti, e alla fine, nel mondo;[4]
  • ·         avere difficoltà ad allontanarsi dalla famiglia in quanto schiacciati e legati dalla responsabilità di dover lasciare dei genitori che, in mancanza di altri figli, rimarrebbero soli.

 

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] T. LIDZ, Famiglia e problemi di adattamento, Editore Boringhieri, Torino, 1977, p. 30.

[2] M. ZATTONI – G. GILLINI, , “Di mamma non ce né una sola”, in Famiglia oggi, N° 2- febbraio 2003, p.12.

[3] D. W. WINNICOTT, Il bambino e la famiglia, Giunti e Barbera, Firenze, 1973, p. 146.

[4] Cfr. D. W. WINNICOTT, Il bambino e la famiglia, Giunti e Barbera, Firenze, 1973, p. 148.

 

 

 

Lavoro e famiglia

 

 

 

 

Che cosa è il lavoro?

Il lavoro può rappresentare per gli esseri umani molte cose.

•    Può essere il luogo dell’impegno e della fatica per poter sopravvivere come persona ma anche come famiglia.

•    Può essere un mezzo per rendersi autonomi dalla famiglia di origine o dall’altro coniuge.

•    Può essere occasione per potere avere per sé e per i propri cari non solo i mezzi di sussistenza ma anche i servizi e gli strumenti per accrescere le proprie conoscenze, per utilizzare al meglio il tempo libero, per migliorare la propria cultura ed il proprio spirito.

•    Può essere il mezzo mediante il quale l’essere umano può realizzare sogni, progetti e aspirazioni.

•    Può essere un mezzo per accendere la fantasia, sbrigliare l’immaginazione, liberare la creatività.

•    Può essere il mezzo mediante il quale noi rendiamo alla società e agli altri quello che la società e gli altri hanno dato a noi. Questo contraccambio può avere come base i più importanti beni affettivi e spirituali oppure i beni materiali. Quando educhiamo nostro figlio e a lui diamo le coccole, i consigli, i valori, la presenza, l’affetto, la tenerezza, l’educazione necessaria, non facciamo altro che ricambiare, con il nostro impegno, quanto abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Quando ai nostri figli, con il nostro lavoro, procuriamo un tetto sotto il quale proteggersi, cibo, vestiti o farmaci, non facciamo altro che dare loro quei generi di conforto necessari alla loro vita, che altri hanno dato a noi.

•    Al contrario, il lavoro può essere il mezzo per dare ad altri quello che noi non abbiamo ricevuto. Dandolo agli altri è un po’ come dare a se stessi, dare coccole, presenza,  attenzioni, affetto e cure agli altri è un po’ come amare un po’ di più sé stessi.

•    Vi può essere un lavoro come fonte per soddisfare i bisogni essenziali e lavoro come fonte per soddisfare i bisogni indotti dal consumismo e quindi, il lavoro come mezzo per ottenere anche il superfluo per sé e per i propri familiari. In questi casi il rischio è che il nostro lavoro non sia utile a nessuno ma riesca solo a soddisfare il credo consumistico per il quale: “Se tu lavori potrai soddisfare i tuoi bisogni, più lavori più bisogni potrai soddisfare”, arricchendo nel contempo chi è già molto ricco, aggiungiamo noi.

•    Il lavoro può essere anche l’idolo, che assorbe tutte le nostre energie, sul quale riversiamo buona parte delle nostre attese e della nostra fiducia, nella ricerca della gioia, della sicurezza, della felicità. Idolo messo al centro della nostra vita, al quale sacrificare tutto: vita personale, vita di coppia, vita familiare.

 

Per millenni lavoro e famiglia coincidevano. Coincidevano come luogo, in quanto il lavoro veniva effettuato vicino alla famiglia. Coincidevano come attori del lavoro, in quanto erano tutti i componenti della famiglia: uomini, donne, bambini e anziani e quando le famiglie se lo potevano permettere i servi, i mezzadri o gli schiavi che facevano parte della famiglia allargata, che si impegnavano, a seconda delle necessità e delle possibilità, nelle attività utili a produrre quanto bastava ai bisogni del gruppo familiare.

Coincidevano come qualità del tempo impegnato, in quanto non veniva fatta alcuna differenza qualitativa tra lavoro finalizzato a produrre beni di tipo educativo, affettivo e di cura e lavoro finalizzato a produrre beni materiali. Uomini e donne godevano della stessa dignità anche se prevalentemente e preferibilmente l’impegno di accudimento e cura veniva svolto dalle donne mentre prevalentemente e preferibilmente l’impegno per procacciare dei beni materiali e per organizzare e proteggere la comunità veniva svolto dagli uomini.

La separazione e l’allontanamento del lavoro dalla famiglia ha iniziato a manifestarsi solo alla fine del settecento, quando uomini, donne e bambini cominciarono a vendere il proprio tempo, la forza delle proprie braccia o il proprio talento per gli altri, ricavando da questi ultimi il denaro necessario all’acquisto dei beni e servizi necessari.

 

La società industriale è stata fin dall’inizio, ed è ancora, la maggiore responsabile del conflitto e della spaccatura tra famiglia e lavoro, diffondendo questo conflitto e questa spaccatura nella stragrande maggioranza della popolazione.

In questo conflitto tra famiglia e lavoro, vi sono stati e vi sono continui tentativi, per altro riusciti, di sottomettere la famiglia al mondo della produzione, fino al punto di desiderare e impegnarsi, come avviene in Svezia, per eliminare totalmente la famiglia, in quanto vista come ostacolo alla piena occupazione femminile.

Da una parte vi è il dramma del lavoro che non c’è o del lavoro a tempo determinato, che espone le famiglie a incertezze e a rischi di povertà, mentre impedisce ai giovani di concretizzare il loro desiderio di formare una famiglia, dall’altra vi sono i problemi di chi il lavoro ce l’ha, ma non ne è soddisfatto per vari motivi.

Intanto nell’era dell’economia globalizzata l’inserimento nella vita lavorativa avviene per gradi: dapprima i giovani in attesa di trovare lavoro, per fare esperienza, si dedicano al volontariato, poi entrano nel mondo del precariato e, solo dopo anni, finalmente, sarà la volta del lavoro definitivo. Il lavoro pertanto, quando arriva, arriva troppo tardi e non dà garanzia di stabilità.

Il luogo di lavoro.

Il luogo di lavoro si trova spesso lontano dalla propria casa, a volte in un’altra città se non in un’altra nazione o in un altro continente. Questo comporta un pendolarismo  o massicce emigrazioni con conseguente allontanamento dal nucleo familiare spesso per ore, altre volte per giorni, mesi o anni. L’attuale globalizzazione dei mercati e della produzione, ha accentuato questi problemi. Le imprese, a causa della presenza di un mercato mondiale, sono spesso costrette a inviare personale specializzato in qualunque parte del mondo si richieda la loro opera. Non è difficile trovare lavoratori di una stessa ditta, dislocati nei cinque continenti, con assenze per vari mesi dal paese e dalla famiglia di origine.

L’uso abbastanza a buon mercato di veloci mezzi di comunicazione, come gli aerei, permette sì una migliore mobilità, ma nel contempo accentua questo fenomeno. Le assenze dalla famiglia e dalla rete affettiva ed amicale determinano delle fratture nei confronti del coniuge, dei figli, come degli altri familiari e amici, che non sempre si riesce a ricomporre.

La persona che parte per cercare lavoro altrove, pur avendo la gratificazione di sapere che la sua opera viene richiesta magari nella parte opposta del globo, nel mentre viene sollecitata e stimolata dalle nuove conoscenze sul piano professionale, sentimentale e sessuale, tuttavia ha l’impossibilità psicologica di mettere solide radici nei vari luoghi frequentati e di instaurare legami stabili, forti ed efficaci con le tante persone con le quali entra in relazione.

Ciò può comportare ansia, inquietudine, depressione. Quando questi pendolari ritornano, risultano spesso vani i tentativi di recuperare, nella gestione familiare, il proprio ruolo educativo e relazionale, in quanto ricercato e attuato non nel momento giusto e non nel modo giusto.

Altrettanta difficoltà vivono le persone che rimangono nella casa familiare. Queste persone sono costrette a vivere in un’altalena di emozioni, sentimenti e relazioni: durante la lontananza la tristezza ed il desiderio; nei giorni nei quali vi è la presenza dell’altro difficoltà o impossibilità di riprendere le fila di un rapporto e di un dialogo interrotto o incompleto.

 

Gli orari di lavoro

Gli orari di lavoro e le esigenze della produzione mal si accordano con le esigenze della famiglia. Basta pensare a quello che è avvenuto per il lavoro notturno. Anche solo cinquant’anni fa il lavoro notturno riguardava solo una piccola percentuale di lavoratori. Successivamente, in un crescendo continuo, gli addetti ai lavori notturni sono diventati un gran numero, anche perché, in alcune nazioni, si sta diffondendo l’idea di tenere aperti negozi e supermercati per tutto l’arco delle ventiquattro ore.

Lo stesso è avvenuto per il riposo festivo e per la pausa pranzo. Sono andate sempre più aumentando le categorie che, per motivi vari, lavorano durante le domeniche ed i giorni festivi, come sono aumentati molto i dipendenti che non ritornano a casa per il pranzo. Se la mattina è un fuggi - fuggi generale per andare a scuola e nei luoghi di lavoro, nelle ore della sosta per il pranzo è considerato ormai “normale” mangiare con i colleghi di lavoro nelle rosticcerie sotto l’ufficio o direttamente nei cantieri, accanto alle macchine delle officine o sopra le scrivanie.

Affinché la famiglia si riunisca, in molti casi, bisogna aspettare la sera, quando stanchi, snervati, stressati, incapaci di un efficace dialogo, i componenti della famiglia hanno difficoltà a vivere serenamente le poche ore trascorse insieme. Spesso, a causa delle tensioni e delle frustrazioni accumulate durante il giorno, questi momenti vengono vissuti non come occasioni di incontro ma di scontro, non come momenti di dialogo ma di chiusura. Anche perché, frequentemente, vengono vissuti davanti al o ai televisori di casa, ognuno chiuso nella propria monade.

Due genitori, in crisi come coppia da vari anni, con un figlio con gravi disturbi psichici, nel momento in cui abbiamo consigliato di trascorrere almeno un quarto d’ora insieme, come coppia, anche solo per fare colazione la mattina, in modo tale da allentare la grave tensione familiare ed iniziare a migliorare l’intesa, si difesero entrambi dicendo che dati i loro problemi familiari ed i tanti impegni ai quali dovevano assolvere non avevano assolutamente la possibilità di stare insieme, per vivere qualche piacevole momento di vita a due, neanche per un quarto d’ora al giorno!  

 

Le energie utilizzate nel lavoro.

Se è vero che, almeno sulla carta, sono diminuite le ore ufficiali di lavoro, l’impegno richiesto è però più totalizzante. Non vi è alcun dubbio che il lavoro richiede molte delle nostre energie fisiche e psichiche, in quanto le aziende richiedono performance, adattabilità, completa disponibilità, massimo rendimento, per poter competere con la concorrenza sempre più agguerrita. Per i carrieristi drogati da lavoro o frustrati da crisi matrimoniale, la ricerca del successo nel lavoro è quasi maniacale e ossessiva. La completa immersione e partecipazione ai bisogni dell’azienda e alla sua filosofia li alimenta, sostiene e gratifica. Per queste persone il luogo di lavoro diventa la loro casa, e gli impegni e i rapporti di lavoro sono mogli ardenti, madri affettuose, figli amorevoli, amici fedeli.

Per tutti gli altri, che non si sentono di idolatrare o sposare l’ente o l’azienda, l’essere sempre più veloci, grintosi, efficaci, bravi, così da portare più guadagno alla ditta, comporta una tensione difficilmente accettabile e sopportabile, mentre diventa sempre più difficile armonizzare vita professionale e vita privata.

Se fino a qualche decennio fa, buona parte dei lavori richiedeva prevalentemente energie di tipo fisico, le quali stimolano e migliorano il tono dell’umore, per cui la sera ci si sentiva stanchi fisicamente ma felici e soddisfatti dentro, attualmente la maggioranza dei lavori richiede quasi soltanto energie di tipo psichico, il cui uso eccessivo può far peggiorare il tono dell’umore. Tali energie servono per creare, pensare, elaborare e per confrontarsi con gli utenti o con i clienti.

Vi è poi una notevole quantità di energia psichica che viene utilizzata nei rapporti con i colleghi e superiori. La difficile e faticosa gestione di queste relazioni è diventata una delle principali cause di insonnia, stress, fratture familiari. Spesso il rapporto con il lavoro è improntato alla disillusione. “un’indagine monster (gennaio 2005) rivela che un italiano su due si dichiara insoddisfatto della propria vita professionale. Da un’indagine Monster appena condotta risulta che una donna su cinque, al primo figlio lascia il lavoro.” 

Le cause sono numerose: spesso nelle aziende non si viene riconosciuti come individui, ma come produttori di reddito. Non viene accettata l’idea di uno spazio per sé e per le proprie aspirazioni, né tantomeno per la propria famiglia. Si ha la sensazione di essere solo un ingranaggio e un numero. Non si riesce a dare un senso a quello che viene fatto. Si è stressati da orari impossibili.  Si è demotivati dalla mancanza di riconoscimenti, mentre non si avverte il piacere di vedere valorizzato e riconosciuto il proprio apporto personale.

Molti, infatti, lamentano di non essere apprezzati per quello che si è e si dà. Soffrono nell’essere manipolati nelle guerre tra colleghi. Subiscono come laceranti ferite le ingiustizie, le prevaricazioni e le violenze psicologiche sul lavoro. Il mobbing al quale si è sottoposti pesa come macigno sulla propria anima, portando ansia, depressione, insoddisfazione.

Giacché le energie sono limitate è evidente che aumentando il dispendio da una parte (lavoro), si toglie inevitabilmente dall’altra (vita affettivo-relazionale). Questo provoca profondi e frequenti sensi di colpa e insoddisfazione.

Poiché a queste sofferenze e ferite non ci si può sottrarre, pena la punizione ed il licenziamento e quindi la miseria e la fame, si soffre anche per il sentimento di impotenza. Questo è uno dei motivi che spingono molti dipendenti ad impegnarsi nell’attività di volontariato cosiddetto “del riequilibrio.” Che non è il volontariato dell’inserimento (prima di inserirsi nel mondo del lavoro), ma non è neanche il volontariato del pensionato che ha necessità di riempire di qualcosa di utile le sue giornate.

L’attività di volontariato del riequilibrio viene spiegata da chi la espleta come un’indispensabile valvola di sfogo, dopo ore di tedioso e stressante impegno lavorativo regolarmente retribuito. In altri casi si è scontenti in quanto l’entità della retribuzione non corrisponde all’impegno profuso, giacché il lavoro che si è costretti a svolgere non è adeguato alle proprie capacità, studi e cultura.

 

Le ore di lavoro.

Nel periodo preindustriale, nella civiltà contadina, non vi erano orari di lavoro. Vi erano giorni o periodi nei quali si lavorava sui campi dall’alba al tramonto, mentre in altri giorni o in altri periodi si lavorava solo per poche ore al giorno.

In questi periodi la famiglia si ritrovava insieme con notevoli possibilità di dialogo, di incontro, di esperienze comuni. Con l’industrializzazione il numero di ore di lavoro, anche dieci ore al giorno, divenne fisso per tutti i giorni della settimana (tranne naturalmente la domenica) e per tutti i mesi dell’anno. Dopo gli anni Venti, anche per merito delle lotte sindacali, il numero delle ore di lavoro andò progressivamente diminuendo. Da qualche anno, invece, almeno per alcune categorie di lavoratori, le ore di lavoro sono andate di fatto aumentando, a causa degli straordinari, dei corsi di aggiornamento, delle riunioni, ma anche e soprattutto a causa di richieste sempre più pressanti di maggior rendimento che costringono molti lavoratori a portare, sia con mezzi cartacei, sia mediante il computer, il lavoro tra le mura domestiche pur di rendere quanto richiesto.

Per tanti si è perduta la necessaria distinzione tra lavoro e vita privata a causa della posta elettronica e dello squillo del cellulare, che possono raggiungerti ovunque tu sei. Con l’uso di questi mezzi elettronici diventa sempre più difficile tracciare una linea di demarcazione tra lavoro e tempo libero.  Per molti, quindi, il tempo libero è sempre meno libero ed è per questo che gran parte delle persone lavora molto più delle ore contrattuali.

In tal modo il lavoro diventa una divinità gelosa di ogni altro interesse.

Una divinità avida di quella risorsa essenziale per la vita personale, relazionale, amicale e familiare che è il tempo. Se per alcune persone è possibile, anche se con molta fatica, conciliare la vita privata con quella professionale, per altre questa integrazione è difficile, se non impossibile.

Il conflitto tra famiglia e lavoro è andato aumentando negli ultimi anni e, almeno apparentemente, le vittorie sono sempre di più a carico del mondo economico. 

Famiglia e lavoro sono per la maggior parte delle persone due pilastri fondamentali della vita.

Nel confronto e scontro tra famiglia e lavoro, di fronte ad un mercato del lavoro che vuole che le persone agiscano come singoli e non come famiglia o coppia, un mercato che vuole il massimo della flessibilità e della mobilità di persone, cose, idee, realtà, è la famiglia che è costretta troppo spesso ad essere subordinata e a modellarsi a misura del lavoro e della produzione.

Poiché il lavoro assorbe buona parte della nostra giornata, per la vita di relazione resta un margine di tempo ridotto, mentre nel contempo cambia la qualità del tempo trascorso insieme.

Se i pensieri e le preoccupazioni lavorative invadono i discorsi della coppia con i figli o tra amici, significa non riuscire a “staccarsi” dal lavoro neanche per brevi momenti.

Non vengono rispettati i bisogni affettivi della famiglia e dei singoli componenti. Soprattutto non vengono rispettati i bisogni dei minori. Non vengono rispettati gli orari nei quali i figli hanno bisogno dei genitori, come non viene rispettato il bisogno di un marito nei confronti della moglie e viceversa.

Va in crisi il dialogo, vanno in crisi le manifestazioni affettive e sessuali le quali diventano sempre più rare, sempre più vissute con tensione e ansia.

Spesso viene ripetuto che molte donne riescono benissimo a conciliare famiglia e lavoro eppure delle donne intervistate dall’Istat nel 2002 il 35,6% delle madri che lavorano ha dichiarato di avere delle difficoltà di conciliazione.

 

FAMIGLIA E LAVORO

Alla domanda se è il lavoro che è inconciliabile con la famiglia o la famiglia che è inconciliabile con il lavoro, è la storia umana che può dare le risposte più corrette.
L’uomo e la donna non hanno iniziato a lavorare né negli ultimi anni, né nell’ultimo secolo. Da sempre uomini e donne hanno lavorato ed il loro lavoro, armonicamente integrato con l’impegno affettivo relazionale e familiare, è stato fonte di continuo ed incessante progresso.
Il problema non è allora il lavoro dell’uomo o della donna o di entrambi ma le caratteristiche del lavoro e la sua rispondenza alle necessità sociali ed umane, soprattutto a quelle più importanti.
Gli obiettivi del lavoro.
Per quanto riguarda gli obiettivi, vi sono almeno due tipi di lavoro:

uno indirizzato al mondo affettivo - relazionale nel quale noi impieghiamo tempo, energia, fantasia, preparazione, disponibilità, per procurare agli altri gli elementi affettivi, educativi e di cura dei quali hanno bisogno e uno indirizzato al mondo economico e dei servizi nel quale noi offriamo con il nostro impegno gli elementi indispensabili per la sopravvivenza, il progresso ed il benessere materiale.
Ma quale dei due lavori è più importante?
Entrambi sono fondamentali ed indispensabili. Così come non è possibile vivere senza cibo, protezione, farmaci e servizi, allo stesso modo non è possibile formarsi come uomini e donne, crescere e vivere, senza affetto, calore, cure, educazione. Ma se entrambe queste attività sono fondamentali per il benessere e la sopravvivenza della specie umana ci chiediamo: E’ possibile impegnarsi soltanto in uno dei due settori, ad esempio solo nel settore affettivo relazionale o è possibile inserire le proprie capacità ed il proprio ingegno in entrambi i settori?
Non c’è dubbio che entrambe le ipotesi siano possibili. Molte donne impegnano e soprattutto nel passato impegnavano, il proprio tempo, il proprio ingegno e le proprie energie quasi esclusivamente nella cura dei bambini, nell’assistenza agli anziani e ai malati, mentre, nel contempo, i loro uomini lavoravano per procurare il cibo, i servizi e gli altri elementi materiali necessari alla sussistenza. Ma anche l’altra ipotesi è verosimile. Molte donne oggi, pur facendo i salti mortali, cercano di contemperare le necessità del lavoro familiare con quello esterno alla famiglia.
A questo punto la domanda alla quale dobbiamo dare una chiara risposta diventa un’altra: “E’ utile e conveniente per il singolo, per la coppia, per la famiglia e per la società focalizzare tutto il proprio impegno e le proprie energie verso uno dei due obiettivi, o impegnarsi in entrambe le direzioni?”
E in questo caso: “E’ più utile che uno dei due coniugi si occupi prevalentemente del mondo economico mentre l’altro si occuperà prevalentemente del mondo affettivo?”
Per rispondere a queste domande dovremo esaminare quando un lavoro è utile alla persona, alla famiglia e alla società.
Un lavoro è utile a noi stessi: quando è gratificante; quando ci permette momenti di studio, riflessione, riposo e aggiornamento; quando non è alienante; quando si inserisce nella fisiologia della persona; quando non ci isola dagli altri, quando ci permette di svolgere bene i compiti inerenti al nostro ruolo di marito o moglie, di padre o madre, ma anche al ruolo politico di cittadino impegnato per il proprio paese e per il proprio Stato . Un lavoro è utile a noi stessi quando è confacente alle nostre caratteristiche individuali, al nostro carattere, al nostro sesso, alle inclinazioni del nostro animo. Un lavoro è utile a noi stessi quando nel lavoro possiamo impegnare la nostra mente, la nostra fantasia, la nostra umanità, oltre che le nostre mani o il nostro corpo.
Un lavoro è utile alla società: quando tiene conto delle sue esigenze; quando gli altri ne hanno un beneficio; quando è attuato rispettando e non sfruttando gli altri; quando è strumento di crescita sociale; quando è rispettoso di tutti gli altri esseri viventi e dell’ecosistema; quando si integra armoniosamente con l’impegno ed il lavoro degli altri.
Un lavoro è utile alla famiglia e alla coppia: quando riesce a dare gli apporti necessari per il benessere materiale, ma contemporaneamente è compatibile con gli impegni educativi, di cura, di presenza attiva, di dialogo e assistenza necessari a ciascun membro della famiglia e della coppia. Sappiamo che all’interno delle coppie gioca in modo negativo facendo aumentare la tensione e l’ansia, la presenza di gravi difficoltà economiche che sono la causa dei bisogni insoddisfatti, ma sappiamo anche che eccessivi impegni e stress, anche in presenza di notevoli apporti economici, sono altrettanto distruttivi del benessere della coppia. Anche gli imprenditori come Cavalli notano oltre i bisogni delle imprese quelli delle famiglie: “Siamo di fronte a un fantastico aumento del benessere per miliardi di persone, ad opera delle meraviglie della scienza e della tecnica, della conoscenza e delle nostre imprese. Ma chi pensa alla famiglia, senza la quale non servono invenzioni e scoperte?”
Persone alle quali il lavoro è diretto.
Per quanto riguarda le persone alle quali il lavoro è diretto, il nostro impegno può essere rivolto alle persone più vicine a noi: i nostri figli, i nostri genitori, il coniuge, o altri familiari oppure può contribuire ad un miglior benessere della società civile e quindi può essere rivolto all’industria, all’istruzione, alla difesa comune, ai trasporti, alla politica, all’ecologia, alla comunicazione ecc..


I VALORI PRIMARI DA SALVAGUARDARE
Tutte queste considerazioni ci riportano ad un lavoro ideale che purtroppo non esiste o esiste solo per un numero ristrettissimo di persone, in quanto è difficile, se non impossibile, riuscire a trovare un impegno che soddisfi tutte o quasi tutte queste esigenze, comprese le nostre aspirazioni, senza tradire i doveri.
Nel momento in cui ognuno di noi si confronta con la realtà lavorativa è costretto, mediante accomodamenti, rinunce e sacrifici, a scendere da un piano ideale ad uno pratico, e quindi è costretto ad un lavoro che potrà soddisfare solo alcune delle esigenze sociali e personali.
Questo non ci esime dal dovere di impegnarci in una o più attività che possano soddisfare ed essere compatibili con alcuni principi e valori che dovrebbero essere considerati come valori primari:

 


•    Il valore della famiglia 
Abbiamo dei doveri nei confronti dei nostri familiari che non possiamo e non dobbiamo delegare a nessun altro perché ci obbligano personalmente. Se sposati abbiamo dei doveri verso il coniuge ed i figli: dovere di dialogo, ascolto, presenza, vicinanza, cura amorevole. Se non siamo sposati abbiamo gli stessi doveri verso i familiari a noi più vicini: padre, madre, sorelle, fratelli, zii, nipoti. Anche questi chiedono e si aspettano da noi affetto, attenzione, dialogo, presenza attiva.


•    Il valore educativo 
Qualunque lavoro noi facciamo dal più umile al più prestigioso, dal più intellettuale al più materiale, non ci possiamo esimere dall’impegno educativo non solo verso i minori ma anche verso gli adulti che incontriamo sul nostro cammino e con i quali collaboriamo o condividiamo impegno e presenza.


•    Il valore del mondo affettivo relazionale
Abbiamo il dovere verso noi stessi e verso chi ci sta vicino, di alimentare, far maturare e crescere in noi e attorno a noi, il mondo dei sentimenti e delle emozioni, il mondo del dialogo intimo e profondo, il mondo dello spirito e dell’anima, il mondo che stimola la crescita umana e personale.


•    Il valore di un impegno civile e politico
Abbiamo inoltre il dovere di contribuire a costruire attorno a noi nelle nostre città, nella nostra nazione, ma anche lontano da noi nel mondo, una società più onesta, più giusta, meno violenta, più libera, più responsabile.


    Il valore della vita
Abbiano il dovere di impegnare le nostre energie e le nostre risorse in favore di tutte le vite, soprattutto della vita umana, ma anche della vita della terra e del pianeta sul quale viviamo e vivranno i nostri figli e nipoti. Pertanto il nostro lavoro deve poter migliorare l’ambiente ed il mondo che ci ha accolto e che ci circonda e mai degradarlo, mai offenderlo o peggio, distruggerlo.

Dicevamo che questi sono valori primari nel senso che in una scala di valori vengono prima degli altri, anche se non escludono gli altri.
Nello scegliere un lavoro e nel portarlo avanti non possiamo non tener conto di questi principi. In caso contrario il nostro impegno non andrà a favore di qualcuno ma contro qualcuno.
Il rischio è di accorgersi, al limitare della vita, che questo qualcuno al quale non abbiamo dato quanto dovuto ci era molto vicino. Il rischio è di scoprire che questo qualcuno che abbiamo trascurato e non amato abbastanza eravamo proprio noi, erano le persone che avremmo dovuto amare di più.
Per quanto riguarda le alternative l’esperienza millenaria della vita sociale e familiare, dalla quale dovremmo trarre gli insegnamenti necessari, ci conferma quanto la psicologia e la pedagogia hanno sempre sostenuto e cioè che, nell’ambito familiare, la terza ipotesi, quella nella quale uno dei due coniugi si occupa prevalentemente del mondo economico mentre l’altro si occuperà prevalentemente del mondo affettivo, è sicuramente la migliore.
Questa soluzione:
•    è l’unica che garantisca la sopravvivenza e lo sviluppo armonico ed equilibrato di entrambi i mondi;
•    è l’unica che valorizzi le peculiarità sessuali specifiche;
•    è l’unica che può permettere una serena ed equilibrata vita di coppia e familiare.

Abbiamo allora il dovere di lottare per un lavoro a misura di persona, di famiglia e di coppia e non a misura della società dei consumi e degli affari. Abbiamo il dovere di impegnarci per il benessere affettivo nostro e dei nostri familiari, i quali sono quelli che ci sono più vicini e si aspettano molto da noi.
Un concreto e notevole ridimensionamento del lavoro necessario per produrre beni materiali e servizi, potrà permetterci di investire buona parte delle nostre energie in attività che sviluppino gli affetti, l’amore e la relazione con le persone, soprattutto con le persone a noi più care.
Scegliamo delle attività nelle quali uomini e donne possano integrarsi ed incontrarsi e non scontrarsi, possano collaborare insieme e non dividersi. Un lavoro rispettoso delle caratteristiche sessuali e personali. Un lavoro che non schiacci la personalità dell’altro ma la rispetti e la valorizzi.
Facciamo in modo che le esigenze di flessibilità, redditività, che il mondo dell’impresa giustamente pretende, siano compatibili e conciliabili con l’attenzione alla famiglia ed ai suoi compiti, in quanto la vita affettiva e buone relazioni familiari sono il presupposto di qualunque crescita, anche di quella economica.
Da parte dello Stato  è necessaria una politica che valorizzi e promuova la donna che si impegna a studiare e si prepara a lavorare nel mondo degli affetti e delle relazioni familiari. La scelta delle donne che decidono di dedicarsi prevalentemente alla famiglia, deve essere pertanto tutelata e rispettata quanto e più di quella delle donne che vogliono impegnarsi nel mondo dell’economia e dei servizi. 

 

 

Tratto dal libro: "MONDO AFFETTIVO E MONDO ECONOMICO" DI Emidio Tribulato

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Famiglie sane e famiglie malate

 

In base alle sue caratteristiche di funzionalità la famiglia può essere il punto focale di frustrazioni o di tensioni, oppure può essere la fonte di risorse per risolvere frustrazioni e allentare le tensioni. Può essere causa di malattia e di disagio psicologico o al contrario, può e deve essere il miglior supporto e medicamento a favore di ogni essere umano quando interviene una malattia o un problema sia fisico che psicologico.

LE FAMIGLIE SANE

Le famiglie sane, equilibrate, efficienti e ben funzionali si riconoscono dai risultati che esse raggiungono per i propri membri. In questo tipo di famiglie vengono individuati dagli studiosi alcuni elementi caratteristici:

•    i genitori e gli altri familiari adulti che vivono nell’ambito familiare presentano buone capacità di dialogo, di ascolto e piena disponibilità a dare risposte adeguate ai bisogni relazionali ed affettivi dei minori;

•    i genitori e gli altri familiari adulti hanno maturità e saggezza tale da provare gioia nel dare e sono quindi più disponibili a offrire agli altri che a ricevere, e hanno sviluppato impegno e grande solidarietà nei confronti della rete familiare;

•    i genitori possiedono caratteristiche sessuali diverse, specifiche e complementari e sono stati particolarmente preparati alla cura e all’allevamento dei figli;

•    il ruolo di ogni membro appare chiaro, ben strutturato e definito, accettato e sostenuto dagli altri con continuità e coerenza;

•    ogni ruolo è in sintonia ed in armonia con i bisogni e le attese degli altri;

•    per ridurre al minimo le tendenze disgregatrici sono presenti ruoli diversi ma un responsabile unico.

•    ogni membro della comunità familiare si sente partecipe, coinvolto e solidale con gli altri;

•    l’orientamento della famiglia è molto attento ai valori non materiali;

•    l’amore tra i vari membri è solido, vero e costante, e si manifesta con frequenti momenti di tenerezza e attenzione reciproca;

•    la disciplina è pienamente presente ma riesce a non essere soffocante;

•    viene sistematicamente stimolata e valorizzata la libera comunicazione, mentre nel contempo vengono fatte valere regole e norme chiare e definite con rispetto per l’età, per il sesso e per i ruoli di ognuno;

•    ogni membro della famiglia si preoccupa costantemente delle esigenze psicoemotive e sociali degli altri componenti e si adopera per evitare o prevenire conflitti e frustrazioni;

•    mentre il responsabile della famiglia si mantiene in equilibrata aderenza con le mutevoli e cangianti realtà della vita, nel contempo non dimentica ma valorizza costantemente i tradizionali e sperimentati valori che provengono dalle esperienze del passato.

LE FAMIGLIE MALATE

Le famiglie prevalentemente malate o disfunzionali sono quelle famiglie incapaci di svolgere una o più delle essenziali funzioni familiari. In questo tipo di famiglia prevalgono: ruoli confusi; scarso coinvolgimento ai bisogni degli altri; frequenti esplosioni di aggressività o al contrario fughe dalle responsabilità e dagli impegni intrafamiliari; difficoltà ad instaurare una comunicazione efficace; indifferenza o scarsa attenzione ai bisogni comuni.

Nei bambini i segni della disintegrazione familiare o della scarsa funzionalità della famiglia coprono un ampio e variegato ventaglio di sintomi e patologie psichiatriche e sociali. Frequenti sono le paure, i disturbi del sonno e delle condotte alimentari; le lamentele per i disturbi fisici (cefalea, dolori addominali, vomito); le esplosioni emotive improvvise come il pianto, le crisi di rabbia, il mutismo, l’aggressività verso gli adulti, i coetanei, gli oggetti, e gli animali, fino all’autolesionismo; le difficoltà scolastiche, gli atteggiamenti oppositivi o provocatori e le fughe; i comportamenti immaturi o le regressioni a delle fasi evolutive precedenti.

Anche nei giovani il disagio  familiare si può manifestare con uno o più sintomi come: la chiusura in se stessi o nel branco; il profitto scolastico scadente; le condotte asociali o antisociali; i fenomeni autodistruttivi e di sballo mediante l’abuso di alcool o l’uso di droghe; una vita sessuale ed affettiva senza una reale progettualità e senza alcuna responsabilità sia verso gli altri che verso se stessi; i disturbi del comportamento, delle condotte alimentari o dell’identità e del ruolo di genere.

Sono inoltre presenti comportamenti abnormi come fughe, randagismo, sciatteria e aggressività, senza alcuna evidente motivazione; scarsa progettualità anche solo di tipo lavorativo; scarso impegno verso la famiglia ed i familiari; diminuzione delle ore di sonno o perdita del sonno ristoratore; minore capacità d’attenzione e concentrazione; perdita d’interesse per gli altri esseri viventi; tentativi di suicidio; euforia alternata alla depressione; sensi di colpa o sentimenti d’indifferenza verso gli altri e verso i propri comportamenti; noia, apatia, astenia.

I doveri dello Stato .

Per quanto riguarda la comunità civile e lo Stato , questi dovrebbero fare in modo che all’interno di ogni famiglia vi fosse la presenza costante di un’autorità capace di aiutare, mediare ed indirizzare. Autorità alla quale tutti i membri possano far riferimento, che abbia indiscusse doti di maturità, responsabilità, ascolto e dedizione. Ci sembra opportuno a questo punto precisare che l’autorità deriva il suo prestigio non dal ruolo assunto ma dalla capacità di rendere un servizio valido, efficiente, e dalla capacità di donare con generosità e sacrificio. In questo senso l’autorità di un padre con il ruolo di capo famiglia, non è assolutamente superiore - sostanzialmente - a quella di una madre che sappia esprimere pienamente il suo ruolo materno.

Lo Stato  dovrebbe inoltre provvedere ad emanare leggi che aiutino a strutturare efficacemente un’intesa ed una armonia tra i generi sessuali così che tra di loro vi sia unione e non disunione, vi sia fiducia e non sfiducia e sospetto, vi sia amore e non odio. Leggi che tutelino i singoli ruoli, l’integrità, la stabilità, la solidità del matrimonio, l’armonia dei coniugi e degli altri familiari, le scelte e gli indirizzi educativi dei genitori. Leggi che obblighino ad una residenza comune, e che facilitino il rapporto con la rete familiare. Leggi che impediscano ai mass media di penetrare nel tessuto familiare indebolendolo, disgregandolo, confondendolo.

In caso contrario il rischio è che la famiglia sempre più si trasformi da luogo di trasmissione della vita a luogo di negazione della vita, da luogo di accoglienza, amore e conforto a luogo di competizione, scontro e aggressione. Da luogo di trasmissione dei valori a luogo della diseducazione a causa dei tanti esempi negativi di disobbedienza, illegalità, immoralità e infedeltà. Da luogo di educazione alla fede a luogo dell’indifferenza, dell’agnosticismo, se non dell’ostilità verso la fede. 

 

 

Tratto dal libro: "MONDO AFFETTIVO E MONDO ECONOMICO" DI Emidio Tribulato

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La famiglie e le leggi inadeguate

 

In ogni società civile, fondata cioè sul diritto ( “ubi societas ibi jus) “laddove c’è una società, c’è un ordinamento giuridico”, sono necessari leggi, regolamenti e varie altre norme fra cui quelle riunite e codificate in Testi Unici, Codici, che regolino, in particolare i rapporti fra i consociati: persone, gruppi, istituzioni, Stato, costituendone l’ordinamento giuridico. Queste norme, per loro natura, dovrebbero tendere a migliorare e a rendere più solidi e stabili i rapporti tra le varie componenti della società. Purtroppo non sempre ciò accade. Sempre più spesso, a causa di pressioni provenienti da vari gruppi di potere o da interessi specifici, vengono emanate, ad esempio, leggi che non solo non migliorano i rapporti fra le persone o fra i gruppi sociali, ma spesso accentuano i contrasti, li esaltano e li inseriscono in una spirale perversa di instabilità e distruttività.

Anche per quanto riguarda la famiglia, le norme dovrebbero avere lo scopo di rendere più funzionale questo istituto naturale che è alla base della società, come dovrebbero riuscire a rendere propositivo e ricco il rapporto fra i suoi componenti, fra questi e le istituzioni, fra cui lo Stato.

Quando ciò non avviene, e tutte le statistiche stanno là a dimostrarlo, siamo in presenza di disposizioni non funzionali e non adeguate al loro compito.

Una norma dovrebbe essere giudicata dagli effetti a breve, media e lunga scadenza che determina e non dall’ideologia che la informa o per la quale è nata.

La famiglia è un’istituzione primaria, in quanto nasce naturalmente e storicamente prima di ogni altra istituzione: è dall’essenza e dall’esistenza della famiglia, proto cellula di ogni società, che nascono da una parte lo Stato, come ordinamento, con leggi che lo governano e con cui esso, a sua volta, le impone all’osservanza di tutti i consociati, e dall’altra, la o le Chiese che affiancano lo Stato, e non viceversa. Conseguentemente, le leggi che riguardano la famiglia, questo pilastro fondamentale dello Stato, dovrebbero essere poche e chiare ma, soprattutto, dovrebbero essere attente a proteggerne l’autonomia, l’integrità, la stabilità e il buon funzionamento,

Sicuramente non dovrebbero essere varate delle leggi che inseriscono meccanismi perversi nei rapporti tra i sessi, tra i coniugi, tra questi ed i loro figli, tra la famiglia e le altre istituzioni.

Negli ultimi decenni invece si è voluto imbrigliare le famiglie in un gran numero di leggi e di sentenze che pretendono di dirigere, limitare, organizzare e gestire ciò che invece dovrebbe essere di esclusiva competenza delle famiglie stesse.

Intanto non dovrebbe essere di competenza legislativa stabilire i ruoli o la mancanza di ruoli che i due coniugi devono avere tra loro.

Come fa, ad esempio, a funzionare un’istituzione così complessa e difficile da gestire come una famiglia, nella quale ogni giorno si intrecciano necessità, bisogni e scottanti problemi affettivi, economici, relazionali e sociali se per legge, al contrario di tutte le altre istituzioni, al suo interno non vi devono essere responsabilità diversificate né un unico coordinamento?

Quando vi sono dei ruoli e delle competenze diverse, come quando il marito è responsabile del mondo dell’economia, del lavoro e dei servizi, mentre la moglie è responsabile del mondo affettivo relazionale, la sovrapposizione di competenze è ridotta al minimo. Essendo poi già definito chi è il responsabile ultimo della famiglia, anche quando vi sono delle idee differenti su determinati, argomenti il sapere e l’affidarsi per queste decisioni all’unica figura che ne ha la titolarità, allenta molto la tensione e sopisce l’aggressività reciproca.

Cosa facciamo, infatti, tutti noi, ogni giorno ed in migliaia di uffici o istituzioni, quando nel lavoro abbiamo idee diverse rispetto al nostro capo,(e tutti abbiamo un capo!)? Esponiamo, anche con foga le nostre idee e le nostre riflessioni cercando di convincerlo, con gli argomenti migliori della nostra tesi ma poi, se abbiamo il dovuto rispetto per i vari ruoli, lasciamo la scelta definitiva alla sua responsabilità e torniamo serenamente o al massimo con qualche mugugno, al nostro solito lavoro. Soprattutto, e questo è importante, non ci sentiamo minimamente offesi perché lui non ha accettato le nostre idee, né nutriamo propositi di vendetta nei suoi riguardi.

Non era difficile prevedere quanto sarebbe successo nel momento in cui, con la riforma del diritto di famiglia, sulla spinta di un equalitarismo e liberalismo sessantottino, e per accontentare insieme sia le spinte femministe, sia quelle del mondo economico, si volle di fatto eliminare il ruolo di capo famiglia. Mettere, infatti, per legge, al vertice di questa fondamentale istituzione due persone: il padre e la madre, il marito e la moglie, con “potestà genitoriale” dando cioè ad entrambi pari funzioni, pari peso nelle decisioni familiari, pari responsabilità, ha significato praticamente non mettere nessuno a capo della famiglia.

D’altra parte, perché non provare a mettere, per legge, a capo di ognuna delle istituzioni pubbliche o private che siano, un uomo ed una donna con pari responsabilità e pari funzioni, in modo tale che vi siano due Capi dello Stato , due Presidenti del Consiglio, ma anche due presidenti della Banca d’Italia e così via fino a due Direttori dirigenti in ogni scuola, o due Parroci in ogni parrocchia? Il motivo per il quale non viene attuata questa riforma “democratica” è molto semplice: le istituzioni, dalla più grande alla più piccola, non potrebbero in alcun modo funzionare.

Il vertice, per sua definizione è definito da un punto e non da due, e così il concetto di capo e responsabile rimanda ad una sola persona e non a due. Per Mills 1953 e Strodtbeck 1954 citati da Lidz, infatti, “I piccoli gruppi, anche formati da tre persone, tendono a dividersi in diadi che escludono altri da rapporti e accordi significativi, e indeboliscono e disgregano l’unità del gruppo. Per ridurre al minimo queste tendenze disgregatrici è necessaria l’esistenza di strutture, di norme, e di una leadership.”

Nelle famiglie che non hanno una leadership avviene quanto descritto. Il conflitto provoca delle alleanze: un genitore si allea con tutti i figli contro l’altro genitore; un genitore con i figli dello stesso sesso, contro il genitore ed i figli dell’altro sesso; o al contrario nascono alleanze con il genere opposto, il padre con le figlie femmine, contro la madre alleata con i figli maschi. Ma le alleanze possono coinvolgere amici e parenti dell’uno e dell’altro in un gioco al massacro.

Tra l’altro la responsabilità condivisa viene erroneamente esaltata come “sistema democratico” all’interno della famiglia, mentre la situazione precedente era bollata come “sistema autoritario o tirannico.” E’ noto che il concetto di democrazia (governo del popolo) non stabilisce affatto che tutte le norme debbano essere accettate e rese esecutive dopo che tutti i cittadini si siano pienamente convinti della loro bontà. Anche nelle più antiche democrazie assembleari dei piccoli villaggi valeva il concetto di maggioranza delle decisioni e non di unanimità dei consensi. D’altra parte, quale maggioranza vi può essere quando le persone a cui si rimandano le decisioni sono solo due che, tra l’altro, hanno per loro natura modi notevolmente diversi di vedere e vivere problemi, realtà ed esperienze?

Famiglia democratica non significa mettere ai voti le decisioni o instaurare un sistema permissivo di libertà caotica, ma significa assumersi delle responsabilità nei confronti dei bisogni di ogni persona presente al suo interno, ma anche responsabilità nei confronti della funzionalità dell’istituzione stessa. E questo naturalmente esige limiti e sacrifici individuali nella prospettiva del bene comune.

Una legge che imponga, coma sopra si è detto, una titolarità paritaria di potestà, sembra fatta apposta per alimentare nelle coppie una conflittualità permanente che nel tempo diventa sempre più grave, con evidenti ripercussioni nei confronti delle singole persone, della famiglia e quindi della società.

Per affrontare i problemi che quotidianamente si presentano e per risolverli, viene quasi sempre esaltata l’importanza del dialogo. Attraverso il dialogo la coppia dovrebbe riuscire a prendere tutte le decisioni che sono utili alla vita familiare. Senza negare l’importanza del dialogo e del sereno confronto, se non vi sono diversi settori di competenza e se non vi è un capo che alla fine prenda su di sé la responsabilità delle decisioni più importanti ed incisive, giacché tra due persone non è possibile un sistema a maggioranza, si è costretti a utilizzare almeno una delle seguenti metodologie decisionali.

La decisione viene attuata alternativamente dai due coniugi.

“Una decisione la prendo io, una la prendi tu.” Questo modo di operare non diminuisce il conflitto e la confusione nella vita di famiglia. Non tutte le decisioni, infatti, sono di uguale importanza o hanno le stesse conseguenze per l’economia della famiglia o della coppia. “Che senso ha che tu faccia decidere oggi a me se, per uscire di casa, è bene che nostro figlio metta il cappottino o la giacchetta, dal momento che tu la volta precedente hai deciso, cosa molto più importante per la vita affettiva del bambino, che era meglio iscriverlo all’asilo nido, decisione che io disapprovavo e continuo a disapprovare?” “Che senso ha che io debba decidere se comprare un aspirapolvere oppure no mentre tu hai deciso se comprare o non una nuova auto?” Questa metodologia decisionale rischia di portare la dissociazione di tipo schizofrenico nell’ambito della gestione familiare. Se c’è da decidere se il figlio debba o non andare alla gita scolastica ed è il turno della madre, questa deciderà per il sì, quando poi anche la figlia chiederà di andare alla gita scolastica ed è il turno del padre di decidere, questi, contrario per principio alle gite scolastiche deciderà, ad esempio, per il no, creando tra i figli disparità e sconcerto. Se poi, piuttosto che a discutere in famiglia vi immaginate in un’auto e le decisioni su quale strada prendere nei vari incroci viene presa alternativamente dall’uno o dall’altro coniuge, non è difficile pensare in quale direzione e quale tragitto percorrerà o, meglio, dove andrà a finire questa povera auto con tutti i suoi sfortunati occupanti.

Un’altra possibilità operativa è quella di trovare per ogni decisione una via di mezzo tra la visione dell’uno e quella dell’altro.

Per quanto riguarda questa modalità, quale sicurezza vi è che la decisione intermedia sia la migliore che poteva prendere la coppia? Immaginate, e non è difficile farlo, due genitori che non trovano un accordo sull’orario di rientro serale dei figli: il padre, moderno, comprensivo e aperto, preferirebbe che fosse il figlio, ormai diciottenne, a decidere quando ritornare e casa. Quindi preferisce accettare che di solito egli si ritiri verso le cinque- sei del mattino, quando hanno chiuso le ultime discoteche e sono stati appena sfornati i cornetti caldi alla crema, necessari per fare colazione prima di rientrare a casa.

La madre, molto più attenta ai rischi materiali e morali ai quali un figlio può essere esposto durante le ore notturne, è invece dell’idea che questi debba tornare presto in famiglia, non più tardi delle nove di sera. Se si attua la metodologia di cui sopra, si dirà al figlio che può tornare tranquillamente all’una di notte. In questo modo resteranno sicuramente scontenti il figlio, il padre e la madre. Ma poi, siamo certi che questa sia la decisione migliore?

Tra l’altro, se la coppia accetta questa regola della scelta mediana, il marito, la moglie o entrambi, si faranno rapidamente furbi, cercando di partire da posizioni molto distanti per potere trovare poi una via di mezzo, più vicina ai propri desideri.

Un’altra modalità potrebbe prevedere che tutte le decisioni del giorno vengano prese alternativamente dai due coniugi.

Come dire: “Un giorno decidi tu, un giorno decido io.” Questa modalità può tradursi in pratica in “Un giorno decido io di comprare un’auto di grossa cilindrata, il giorno dopo decidi tu di vendere la stessa auto perché pensi che non ce lo possiamo permettere.” Questa metodologia è la stessa utilizzata in politica quando il governo formato da una determinata maggioranza prende le sue decisioni in pieno contrasto con l’opposizione. Molti, se non tutti i provvedimenti adottati da questo governo saranno revocati o stravolti, dopo le elezioni successive, quando al governo si sarà insediata una nuova maggioranza.

Un’altra modalità potrebbe essere quella di attuare la decisione solo quando entrambi si sono convinti della bontà di una scelta.

Con questa modalità il rischio è che le decisioni saranno il frutto della capacità di un coniuge di riuscire a logorare l’altro fino al punto di fargli dire di sì. Nelle guerre di logoramento vince non chi ha la soluzione migliore o più opportuna del problema, ma chi resiste ed insiste di più.

Nel caso in cui entrambi i coniugi avessero le stesse capacità di tener testa l’uno all’altro con grinta e determinazione, insorgerebbe un rischio, ancora più grave, che è quello dell’immobilismo. Con questa metodologia ogni decisione verrebbe presa dopo chissà quanto tempo, mentre contemporaneamente salirebbe alle stelle l’aggressività reciproca.

In ogni famiglia, ogni giorno, vengono prese decine di decisioni delle quali alcune molto importanti. Com’è possibile gestire queste decisioni quando, per ognuna di questa, i tempi si potrebbero allungare all’infinito?

E adesso chiediamoci: Chi è più portato a vincere in questo braccio di ferro dialettico? E poi: Quale può essere il vissuto ed il comportamento di chi perde?

Intanto è più facile che la vittoria nelle dispute linguistiche sia di chi ha una dialettica migliore. Vi è poi un’altra categoria di persone che non riesce a recedere e ha bisogno di avere sempre l’ultima parola: si tratta di uomini e donne con tratti ossessivi – compulsivi nella loro personalità. Queste persone, proprio perché molto rigide, sono in grado di tener testa per giorni e giorni all’interlocutore, ripetendo fino all’infinito la loro idea ed il loro pensiero, giusti o sbagliati che siano.

Adesso chiediamoci cosa succede nell’animo e quali reazioni mette in essere chi è costretto, suo malgrado a cedere, pur sapendo di essere nel giusto. Intanto vi è un montare del risentimento e dell’aggressività accompagnati da una svalutazione verso chi lo ha messo alle corde. Aggressività che può, in seguito, sfociare in atteggiamenti e comportamenti che, in qualche modo, possono far soffrire o limitare l’altro, anche in campi e per tematiche molto lontani dalla materia del contendere.

La persona costretta a cedere si sentirà in diritto, ad esempio, di negarsi sessualmente, di umiliare l’altro o di approfittare di qualsiasi altra occasione, per boicottare ogni iniziativa del coniuge. Cercherà inoltre, in tutti i modi, di attuare la sua ritorsione costruendo e poi attuando piani per delegittimare agli occhi dei figli, degli amici e dei parenti, chi gli ha fatto violenza. Potrà vendicarsi con il tradimento, visto in questi casi come un mezzo per umiliare l’altro, oppure potrà attuare una parziale o totale fuga dagli impegni familiari.

In questo caso, a volte lentamente ma inesorabilmente, altre volte repentinamente, si allontanerà prima dalla comunione di coppia e poi dalla famiglia, per cercare altrove quelle gratificazioni, quella comprensione, quell’accoglienza che non trova più nella sua casa. I campi dove potrà trovare gratificazione sono tanti: si potrà impegnare fino allo spasimo nel lavoro, in modo tale da riservare all’altro coniuge e alla famiglia il minimo indispensabile di tempo ed energie, oppure potrà maggiormente dedicarsi alle amicizie, agli hobby, alle avventure a sfondo sessuale, oppure andrà in cerca di un nuovo amore che sostituisca il primo.

Il giudice di famiglia.

Il legislatore, poi, prevedendo l’insanabilità di molti conflitti decisionali, ha inserito come ultimo arbitro il giudice di famiglia al quale i coniugi che non sono d’accordo possono rivolgersi. Per fortuna pochi conoscono e utilizzano questa norma che servirebbe soltanto ad allungare indefinitamente i tempi delle decisioni, aumentando nel contempo i già numerosi motivi per i quali viene adita l’Autorità Giudiziaria. Lasciare che altri: avvocati, giudici, tribunali, decidano, non si sa su quali parametri, sulla vita familiare di milioni di famiglie, ci sembra un modo veramente ingenuo per affrontare questi problemi. Su quali parametri infatti può decidere un giudice? Quanto peso ha la bravura dell’avvocato nel trovare tutti gli appigli legali a favore del proprio assistito? Quali i tempi biblici per ogni decisione?

La verità è che questa norma della responsabilità condivisa, presente nel nuovo diritto di famiglia, a parte le belle e pompose parole con la quale è stata salutata ed accompagnata, rende ingovernabili le famiglie, creando un perenne, grave regime di conflittualità tra i coniugi e quel che è peggio, tra il genere maschile e quello femminile.

Questo è quanto è avvenuto. Sono ormai decenni che i mass media amano confrontare e sottolineare le maggiori o minori qualità dei due generi. Ma soprattutto amano mettere in evidenza le conquiste e le migliori qualità del genere femminile, rispetto a quello maschile: “Le donne sono più intelligenti, più brave a scuola, più intraprendenti, più impegnate in famiglia, più disponibili”; mentre gli uomini “ Studiano meno, si impegnano poco nei lavori di casa, sessualmente sono costretti a difendersi e vengono messi in difficoltà dalla intraprendenza femminile, sono violenti, stupratori, pedofili e così via.” Nel contempo vengono emanate leggi e fondate associazioni per difendere le donne dalla violenza degli uomini.

Non ci si rende sicuramente conto che mettendo le donne contro gli uomini si danneggiano entrambi i sessi, in quanto viene minata alla base la fiducia, la stima e quindi l’interesse e l’apertura dell’uno nei confronti dell’altro. Si viene a creare quella che Risè chiama un’ottica di genere. “Ora l’ottica di genere, guardando all’interesse di ognuno dei due coniugi come qualcosa di diverso da quello dell’altro, mina proprio questa coesione e questa solidarietà, questa visione della famiglia come un tutto, nella quale o vincono tutti o perdono tutti assieme, perché è la famiglia stessa a venire negata, e tutti i suoi componenti a essere indeboliti da questa negazione.” 

Se questa legge è stata fatta in buona fede per ottenere quanto dichiarato, e cioè maggior democrazia e migliore distribuzione del potere tra uomini e donne, sarebbe sicuramente la legge più ingenua presente nel nostro ordinamento giuridico, in quanto il legislatore, nell’approntare questa norma, sembra aver completamente dimenticato le elementari caratteristiche della psicologia umana, specie le leggi riguardanti la psicologia dei gruppi e quelle riguardanti la psicologia dei generi sessuali. Avrebbe inoltre ignorato le esperienze di tutte le altre istituzioni pubbliche o private al cui vertice mai vengono inserite due persone che abbiano le stesse prerogative, le stesse responsabilità, le stesse funzioni. Avrebbe ignorato inoltre le esperienze delle famiglie del passato, e quelle del mondo animale, dove il responsabile del gruppo è quasi sempre o un maschio o una femmina.

Il sospetto.

A questo punto nasce il sospetto che l’intento legislativo non fosse affatto quello di rendere più democratico il sistema famiglia o di dare più potere alle donne ma un altro. Il sospetto è che lo Stato , dietro la spinta del mondo economico, mirasse, mediante le sue istituzioni, a diventare molto più forte e che, per ottenere ciò, avesse la necessità di indebolire le altre forze presenti al suo interno, in questo caso la forza delle famiglie.

Molti dati sembrano confermare questo sospetto.

Intanto la tecnica del “divide et impera” è molto antica. E’ stata abbondantemente sfruttata da tutti i conquistatori. Viene sistematicamente utilizzata nelle industrie, nelle università, e in tutte le istituzioni statali e private. Quando si vuole indebolire, senza far molto rumore, il potere di un capo e/o anche della struttura che egli coordina, basta mettergli accanto un’altra persona con le stesse prerogative, le stesse funzioni e gli stessi poteri. Lo scontato, consequenziale conflitto e scontro, diminuirà fin quasi ad annullarla non solo l’autorità di quel responsabile ma il peso stesso di quella struttura, aumentando nel contempo il potere di chi si trova nella parte immediatamente superiore della piramide gestionale, ma aumenterà anche il peso delle altre divisioni o servizi. Lo Stato  a questo punto è come se dicesse: “Sono veramente addolorato che voi mariti e mogli litighiate e non riusciate a mettervi d’accordo su tanti problemi, ma niente paura, per fortuna ci sono qua io. Per vostra fortuna potete tranquillamente rivolgervi a me, che potrò prendere la decisioni più giuste al vostro posto”.

Utilizzando la tecnica del divide et impera sono, infatti, gli stessi contendenti che si consegnano nelle mani di colui che li vuole assoggettare!

Esautorando il padre di famiglia con la divisione del potere con la madre, si è ottenuto lo scopo di diminuire molto il potere reale delle famiglie. Inserendo poi l’ultimo codicillo della legge che permette di rivolgersi ai giudici dello Stato  per risolvere le controversie sulla gestione della famiglia, nella sostanza lo Stato  ha assunto su di sé e sui suoi organi giudicanti la responsabilità ultima delle scelte e della funzionalità delle famiglie.

Lo Stato  patriarca.

Che il potere dello Stato  rispetto a quello delle famiglie sia notevolmente aumentato lo si coglie appieno con gli interventi dei giudici nelle separazioni e nei divorzi.

I genitori, anche se sono separati o divorziati, sono responsabili dell’educazione e delle cure dei figli, ma poi decidono i giudici in quali giorni e in quali ore ognuno di essi può svolgere il compito educativo e fino a che età il figlio può stare a bighellonare, senza impegnarsi nel lavoro, mantenuto di regola dal padre.

Decidono i giudici quanto un coniuge deve dare di mantenimento all’altro, anche se questo potrebbe lavorare e convive con un'altra persona che lo potrebbe mantenere. E così via.

L’uso dell’istituto del divorzio è molto antico. Esso però è stato sempre molto controllato e limitato, in tutte le società del passato, perché mette a rischio la funzionalità della famiglia e l’educazione e formazione della prole.

Si può essere favorevoli o contrari alla rottura del patto coniugale, ma le modalità con le quali è stato attuato in Italia ed in molti Stati del mondo occidentale fa pensare che, o non si è riflettuto minimamente sulle conseguenze più perverse o lo scopo era esattamente quello che si è ottenuto: avere delle famiglie sempre più piccole, fragili e deboli, ma anche più povere,  tutte dipendenti da uno Stato  patriarca.

Intanto non viene prevista alcuna penale per chi viola le varie norme del contratto o per chi chiede lo scioglimento del contratto matrimoniale. Può accadere allora, ed accade, che uno dei coniugi può tranquillamente farsi beffe delle promesse matrimoniali, tradire il coniuge, chiedere il divorzio e farsi poi mantenere dall’altro per tutta la vita. E, se l’avvocato è particolarmente bravo, può, con i soldi passatigli dall’ex, mantenere anche l’amante ed il suo cane!

In tutti i contratti civili vi è quasi sempre qualche norma per chi viola il contratto o per chi ne chiede lo scioglimento anticipato. Il motivo è semplice. I contratti, tutti i contratti fra due o più persone o fra due o più società, vanno difesi. Difendere un contratto significa dare maggiore serietà e garanzia allo stesso, ma significa anche dare maggiore garanzia di stabilità alla società civile e un’iniezione di fiducia ai contraenti. L’altro non potrà trattare o flirtare con la concorrenza contro la propria ditta; l’altro non potrà considerare il contratto alla stregua di carta straccia e buttare in aria i pezzettini dell’accordo come fossero coriandoli carnevaleschi. L’altro, se vorrà fare questo, dovrà pagare un pesante indennizzo. Tanto più alto è l’indennizzo, tanto più sarà costretto a riflettere nel trattare con troppa faciloneria gli impegni presi.

Che lo Stato  assuma sempre più poteri, sottraendoli alla famiglia, è abbastanza evidente anche in molti altri campi.

•    E’ lo Stato  che, con il pretesto del possibile sfruttamento del minore, stabilisce a priori mediante l’istruzione obbligatoria fino a quale età i figli devono frequentare la scuola senza lavorare, annullando in questo modo ogni potere decisionale delle famiglie. Queste vengono trattate come fossero tutte pronte a sfruttare i propri figli, ma anche come fossero tutte uguali per censo, scelte di vita, valori ecc.. Mentre invece sappiamo benissimo che vi sono famiglie ricche, famiglie povere e famiglie poverissime; famiglie che scelgono di dare più spazio alla vita affettivo – relazionale, piuttosto che a quella economica o culturale. Vi sono dei figli che trovano la loro gratificazione e realizzazione nello studio e altri che la trovano nell’impegno lavorativo. Per alcuni genitori l’ideale proposto ai figli è quello di una scuola che arrivi fino ai più alti gradi della formazione universitaria e al master, per altri l’ideale è una precoce occupazione che permetta di rendersi indipendenti e di responsabilizzarsi presto, aiutando la famiglia di origine o formando una propria famiglia.

•    E’ lo Stato , e non la famiglia, che decide a quale età i minori possono convolare a giuste nozze,  anche se la maturità per intraprendere un cammino matrimoniale potrebbe molto meglio essere giudicata da chi conosce questi giovani fin dalla nascita.

•    E’ lo Stato  con suoi consultori e con il giudice tutelare dei minori che decide se una minorenne può abortire oppure no, e non le famiglie dei due giovani che molto meglio conoscono persone e situazioni.

•    E’ lo Stato , mediante i suoi consultori, i suoi servizi sanitari, insieme alla donna interessata, che stabilisce se questa può abortire escludendo l’uomo, gli altri figli e familiari. Escludendo, quindi, la famiglia nella quale questa donna vive e di cui è componente essenziale.

•    E’ lo Stato  che decide mediante l’istituto dell’adozione speciale, che dovrebbe essere “di tutela dell’interesse del minore che si trova in situazione di abbandono materiale e morale”, se sottrarre o non per darli in gestione agli istituti o ad altre famiglie, i figli presenti in famiglie povere o indigenti, impossibilitate a dare la necessaria scolarizzazione e formazione professionale, mentre sarebbero capaci di dare l’ascolto, il calore e l’affetto necessario per la loro crescita e formazione umana.

•    E’ lo Stato  che si occupa di scegliere a quali famiglie o istituzione affidare i minori quando i genitori di questi, per qualunque motivo non sono in grado, momentaneamente, di dare ai minori le cure e l’assistenza necessarie. Anche in questo caso senza tener conto che accanto ad ogni famiglia vi è una rete amicale ed affettiva che potrebbe molto meglio dello Stato  aiutare la famiglia in difficoltà.

•    E’ lo Stato  che decide quali sono i mezzi di correzione e le punizioni da applicare o da non applicare nei confronti dei figli.

•    Addirittura decide lo Stato  se, quando e come, una ragazza di diciassette anni può frequentare un giovane, e a quale ora dovrà ritirarsi a casa dopo essere stata con il suo “moroso”. E’ veramente illuminante a questo riguardo il decreto del 13 maggio 1972 con il quale il tribunale per i minorenni di Bologna ordinò ai genitori di consentire che la figlia diciassettenne potesse frequentare il ragazzo al quale era affettivamente legata.

...Omissis... Preso atto che nella famiglia di P. U. si è determinato un grave stato di tensione nei rapporti tra i genitori e la figlia M., di anni diciassette, in considerazione del fatto che alla stessa è drasticamente impedito di potere vedere D. U., al quale essa è da lungo tempo affettivamente legata; considerato che sul conto del D. U. non emergono elementi oggettivamente idonei a giustificare simile preclusione, che appare collegata a risentimenti strettamente soggettivi; visto che(…omissis...)

decreta:

P. U. e la moglie L. M., devono consentire alla figlia minore, M., di vedere, dove essa crede, D. U. almeno un’ora al giorno;

I medesimi devono consentire alla figlia di uscire col D. tutte le domeniche pomeriggio e almeno due sere alla settimana.

P. M. curerà, in tali sere, di non rientrare dopo le ore ventiquattro; (sic)

Decide sempre lo Stato , attraverso i suoi servizi e i suoi tecnici e organi giudicanti, anche se sappiamo benissimo che non ha né le informazioni, né la preparazione, né la duttilità, né l’indipendenza di giudizio necessarie per rendere credibili ed accettabili tante sue decisioni.

E’ noto il potere di un buon avvocato, che è poi quello che chiede le parcelle più alte, nel piegare le leggi ed i regolamenti a favore del proprio cliente, rispetto ad un modesto avvocato, che è quello che si possono permettere solo i poveracci. Come sono note le ideologie e gli stereotipi di cui sono vittime operatori e specialisti del settore.

E’ noto che vi sono giudici onesti e giudici poco onesti. Giudici attenti e responsabili e giudici disattenti e superficiali. Tecnici e professionisti preparati e responsabili ed altri poco preparati e superficiali.

L’inserirsi in maniera pesante e intrusiva nei rapporti tra i coniugi e tra questi ed i loro figli e gli altri familiari non solo limita l’effettiva libertà delle famiglie, ma pretende di gestire i loro rapporti e quelli con i figli.

Questo comportamento mi fa pensare a quando io, come tutti i bambini, ero interessato ed incuriosito dai fiori, ma anche dal potere che liberamente potevo esprimere. Quando prendevo in mano un fiore, era eccitante pensare che potevo impunemente staccare un suo petalo per sentirne in pieno la morbidezza, ma anche per manifestare concretamente, in questo modo, il mio potere su di lui, su questa cosa bellissima che ero libero di gestire a mio piacimento. Ricordo che era piacevole continuare a togliere un petalo dopo l’altro e buttarlo per terra. Ma poi, alla fine, quando tutti i petali erano sparsi sul pavimento e tra le mani mi restava un brutto, gambo spelacchiato, mi assaliva l’amarezza e la tristezza e mi sentivo un piccolo sciocco per quello che avevo fatto.

Gli Stati moderni, nei confronti dell’istituto familiare, si sono comportati allo stesso modo. Legge dopo legge, sentenza dopo sentenza, utilizzando il proprio potere, hanno reso la famiglia un contenitore triste, brutto e vuoto. Vuoto nel potere, nell’autonomia e nelle scelte, ma anche vuoto della sua bellezza, della sua armonia, della sua dignità, della sua anima, del suo calore e vigore. Vuoto delle sue potenziali capacità e possibilità. Purtroppo però ancora, nonostante gli Stati siano in grado di osservare i disastrosi risultati di questa riuscita operazione, dando la responsabilità ad altri, non sono affatto propensi a correggere i propri errori e diventare, finalmente, adulti e responsabili.

Le leggi al femminile.

Vi è poi tutta una serie di leggi o di applicazioni delle leggi al femminile.  Queste, almeno sulla carta, dovrebbero tutelare il cosiddetto “sesso debole”, in realtà creano delle eclatanti disparità tra uomini e donne con pesanti conseguenze sul piano della relazione tra i sessi, e con un ulteriore indebolimento della coppia e dell’istituto familiare.

Pensiamo per esempio alla proposta delle quote rosa. Uomini e donne sono uguali, ma è giusto che a dirigere la politica locale, regionale o nazionale vi sia lo stesso numero di uomini e donne, mentre non vi è nulla di male se, nelle scuole materne, elementari e medie, la stragrande maggioranza degli insegnanti è di sesso femminile  e pertanto i bambini ed i ragazzi, durante gli anni più importanti della loro formazione avranno, come uniche figure di riferimento, solo donne. Nonostante che: “Con un docente maschio in cattedra il 51% dei bambini della scuola primaria si comporta meglio e il 42% si impegna di più.” 

Pensiamo poi all’applicazione della legge sul divorzio, mediante la quale i figli, anche ora che è presente l’affidamento condiviso, sono quasi sempre affidati alla madre, che gode anche della casa coniugale, dei mobili, delle suppellettili e del suo mantenimento. L’applicazione di questa legge porta a pensare che quasi sempre un matrimonio si sciolga per colpa del padre, il quale è giusto che sia punito limitando molto il suo rapporto con i figli, condannandolo a mantenere la moglie, la quale potrà usufruire della casa coniugale, dei mobili e delle suppellettili.

Ma certamente non è così. Almeno nel cinquanta per cento dei casi bisognerebbe supporre che la colpa sia dell’altro o che vi sia una responsabilità condivisa.

Pensiamo alla legge sulle violenze in famiglia, nella quale il coniuge violento non può che essere il marito da mandare fuori casa se ha uno scatto di aggressività verso la moglie o verso i figli. Mentre la moglie, proprio in quanto donna, e quindi per definizione creatura fragile ed indifesa, difficilmente potrà mai essere accusata di aver esasperato il marito con le sue parole o con i suoi comportamenti.

Pensiamo alle leggi sul collocamento a riposo, per le quali la donna, che vive di più, va in pensione prima dell’uomo.

Pensiamo soprattutto alla legge sull’interruzione della gravidanza, la quale permette alla donna di eliminare il figlio del proprio uomo, mentre quest’ultimo è costretto ad accettare e mantenere per decenni ogni suo figlio nato anche fuori del matrimonio, contro la sua volontà o addirittura mediante l’inganno.

Giacché vi è sempre una tendenza naturale al bilanciamento e all’equilibrio, queste leggi e la loro applicazione faziosa, lavorano poi, in definitiva contro le stesse donne, contro il matrimonio ed in definitiva contro la famiglia. Segno eclatante di questo malessere nel rapporto tra i generi è il frequente rifiuto del matrimonio, della paternità, ma anche di qualsiasi legame che potrebbe risolversi in un impegno non direttamente gestibile,  e quindi la condanna di tante donne a vivere nella solitudine, senza il calore della famiglia e senza il supporto di un uomo. Commenta Risè “...come, infatti, constata amaramente lo psicoterapeuta, costretto a misurare l’angoscia di queste donne affettivamente sole, perché prive di una sponda maschile emotivamente, e spesso cognitivamente, in grado di accompagnarle lungo un percorso di vita.”

Segnale di una esasperata conflittualità di genere è il tragico crescente numero di atti violenti nei confronti delle donne che vengono stuprate, percosse, uccise in feroci ed efferati delitti all’interno e all’esterno della famiglia.

Le leggi fiscali e la famiglia.

Vi sono poi le leggi fiscali che sono state ben analizzate dall’ex presidente del Forum delle famiglie Luisa Santolini , la quale ha rilevato una serie di incongruenze delle quali uno Stato  civile dovrebbe vergognarsi. Ad esempio:

“Una famiglia con due figli e con 25000 euro di reddito che spende 16000 euro per mantenerli, ha un beneficio fiscale di 1000 euro, mentre, se dona la stessa cifra a un partito ne trae un beneficio fiscale fino a 3000 euro.

In Italia, oggi, gli alimenti al coniuge separato possono essere detratti dalle tasse, ma se la stessa cifra la si trasferisce nella famiglia, per il fisco è tassabile.

L’interruzione di gravidanza è gratuita, mentre nelle ecografie di controllo sullo stato di salute dell’embrione si paga il ticket .

Fino a 18 anni le ragazze non possono votare o guidare, ma dai sedici anni le ragazze possono abortire liberamente con il beneplacito del giudice tutelare.

In base alle attuali tariffe, 90 metri cubi di acqua consumati da sei persone con sei contatori, non arrivano a costare 20 Euro, ma la stessa quantità d’acqua consumata da sei persone nella stessa famiglia arriva a 70 Euro.

Se iscrivono i figli all’asilo i separati hanno un punteggio superiore alle famiglie regolari, che spesso non trovano posto.

Purtroppo nel gioco della democrazia avviene quello che il cardinale Alfonso Lopez Trujillo, intervistato da Giacomelli, chiama “positivismo legale”, per il quale “Una legge è considerata buona perché nel gioco della democrazia si stabilisce una procedura, grazie alla quale è la maggioranza che decide anche sui contenuti. In realtà vince chi ha più forza, più soldi o più potere, mentre una vera democrazia dovrebbe rispettare i diritti fondamentali e non piegarli ai più forti.”

Se fosse vero il sospetto che lo Stato sia riuscito ad avere più forza a scapito delle famiglie, la vittoria, se di vittoria si potesse parlare, sarebbe una vittoria di Pirro. La forza di uno Stato  è direttamente proporzionale alle qualità dei suoi cittadini. Se questa qualità scade, se si diffondono il disagio e la malattia psicologica, se allignano i disvalori, se si diffondono la disonestà, la corruzione, gli atteggiamenti ed i comportamenti illeciti, l’aggressività e la bramosia del potere, lo Stato, non solo non diventa più forte, ma rapidamente si indebolisce e muore nel malessere dei suoi cittadini.

 

 

Tratto dal libro: "MONDO AFFETTIVO E MONDO ECONOMICO" DI Emidio Tribulato

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