Secondo la definizione del sociologo Neil J. Smelser: “Un ruolo consiste nelle aspettative che si creano riguardo al comportamento di una persona quando questa si trova in una certa posizione all’interno di un gruppo.”
A volte siamo noi stessi che ci affidiamo un ruolo per trovare in esso piacere, gratificazione e realizzazione.
Altre volte, all’interno di un gruppo, il ruolo può esserci affidato, concordato o democraticamente scelto. In altri casi è la società, in una visione ampia e complessiva delle necessità del singolo e del gruppo che si aspetta da noi qualcosa.
Per tale motivo il ruolo di ognuno di noi può nascere dalla necessità e dai bisogni del singolo, del gruppo o della società.
I RUOLI MASCHILI E FEMMINILI NELLA STORIA
L’ideologia corrente nella società occidentale, che ha fatto propri gli assunti delle femministe, vorrebbe che i ruoli fossero nati da un’appropriazione, da parte del maschio, di compiti importanti, liberi e gratificanti. L’uomo, secondo la stessa tesi, avrebbe lasciato per la sua compagna - schiava, gli incarichi più subordinati, poveri, ripetitivi, scarsamente gratificanti.
All’uomo quindi la caccia, la pesca, le imprese guerresche, i commerci, le esplorazioni, la politica, i grandi piacevoli spazi offerti dall’arte, dalla cultura e dal piacere.
Alla donna il dolore ed i rischi della procreazione, l’impegno continuo e costante dell’allevamento dei figli e per finire la schiavitù delle incombenze domestiche, sempre uguali, noiose, tediose, umilianti, all’ombra di un marito - padrone, mai sazio, mai contento, mai pago, mai gratificante.
Per cui, finalmente, nella seconda metà del novecento, in seguito ai movimenti di liberazione della donna portati avanti dal femminismo si è avuto l’affrancamento dalla schiavitù e dall’oppressione maschile. Si è conquistata, dopo gloriose battaglie, l’uguaglianza e la parità, in tutti i campi: nel lavoro, dentro e fuori della casa, nei rapporti sessuali e affettivi, nella politica, nel costume e nella società. Finalmente, alle soglie del terzo millennio, il sesso ed il piacere, appannaggio solo dell’uomo entrano vivificanti nella vita quotidiana della donna. Finalmente la donna è uguale all’uomo, ha i suoi stessi diritti e compiti, s’inserisce nelle stesse attività del sesso forte, s’impegna in maniera egualitaria nella casa, sceglie se avere o no dei figli e quale ruolo esercitare nella loro educazione e poi lotta strenuamente contro gli ultimi maschilisti affinché non una di queste “conquiste” sia messa in discussione.
IL LAVORO FEMMINILE
La realtà ad un esame appena più approfondito appare diversa, giacché, ad esempio, la donna ha sempre lavorato.
Dire come spesso viene detto oggi e non solo in campo femminista, che la donna soltanto negli ultimi decenni ha iniziato a lavorare è un errore grossolano.
Ella ha sempre lavorato: all’interno della famiglia, come madre, moglie, casalinga; all’esterno per la comunità, il clan, il villaggio, la città in cui viveva.
Il suo lavoro era però diverso per quantità e qualità rispetto a quello attuale.
Il lavoro della donna ieri.
1. Il suo impegno lavorativo aveva più le caratteristiche di un lavoro autonomo che di un’attività subordinata. Moglie o figlia di contadino, negoziante, allevatore, poteva dedicarsi al lavoro all’esterno della casa e della famiglia quando voleva, se voleva e poteva, tenendo presente le proprie condizioni personali e familiari. Lo stesso avveniva per le attività effettuate in casa, come la camiciaia, la sarta, la vasaia. Poteva iniziarli e finirli a proprio piacimento in rapporto alle necessità della procreazione e della cura degli abitanti della casa ai quali era dato un valore prioritario e privilegiato.
2. Le attività lavorative esterne alla propria famiglia erano spesso effettuate in regime di part – time. I proventi non si sostituivano, ma si aggiungevano, quando c’erano, a quelli del marito. Per tali motivi se voleva, se era necessario, poteva trascurare le varie attività esterne per dedicarsi all’impegno considerato principale e di base, che era quello affettivo, relazionale, educativo, d’assistenza e cura all’interno della casa e della famiglia.
3. Erano diversi anche i luoghi del lavoro. Le attività lavorative, non prettamente domestiche, erano spesso effettuate nella stessa casa o nell’ambiente viciniore. Ciò sempre allo scopo di permettere una vicinanza continua e costante, anche fisica, con i figli, con la casa, con l’ambiente domestico.
4. Non era svolto con estranei ma con gli altri uomini o donne della famiglia o del vicinato.
Il lavoro della donna oggi.
Il lavoro in cui la donna oggi è coinvolta è diverso come abbiamo detto per quantità, ma soprattutto è diverso per qualità.
1. Assorbe la donna per numerose ore al giorno.
2. E’ svolto lontano da casa.
3. Spesso è un lavoro dipendente. Ciò significa che c’è un datore di lavoro esterno alla famiglia, ai bisogni, ai problemi della donna. Un datore di lavoro per il quale le necessità e gli impegni educativi e di cura hanno scarso interesse, giacché sono preminenti il profitto e la gestione economica dell’azienda.
4. Molti dei lavori in cui oggi la donna è impegnata sono inoltre svolti in compagnia di persone estranee alla famiglia.
5. Dal punto di vista dell’apporto economico il lavoro della moglie spesso è di consistenza uguale se non superiore a quello del marito.
Conseguenze positive
L’economia delle società occidentali ha avuto un grande apporto dal lavoro femminile. Sicuramente le industrie, soprattutto inizialmente quelle tessili e manifatturiere e le ditte disseminate in ogni parte del mondo, hanno utilizzato il prezioso apporto di manodopera a basso costo, per il loro sviluppo. Quest’apporto di manodopera femminile si è tradotto in un maggior benessere economico, sia per le singole famiglie sia per la società nel suo insieme. Ciò ha allontanato sempre di più lo spettro della miseria, della fame e del bisogno. Inoltre, l’inserimento di qualità squisitamente femminili in lavori in cui queste doti sono preziose, come la scuola e le altre attività educative, sociali e assistenziali ha comportato, almeno inizialmente, un modo diverso, più vicino ai bisogni affettivi, nella gestione di questi servizi.
Conseguenze negative nei confronti dei figli.
Nel caso di un intenso impegno lavorativo o d’impegni sociali pressanti, scade sia la quantità sia la qualità dell’apporto materno.
La minore possibilità di lasciare il lavoro quando e se la famiglia necessitava dell’impegno femminile ed inoltre, il notevole tempo trascorso all’esterno della casa e della famiglia, hanno invece comportato delle conseguenze nettamente negative. Una madre che lavora o che ha numerosi impegni ha difficoltà a rispettare i bisogni, la fisiologia ed i ritmi della vita familiare.
Nel caso abbia un bambino piccolo, è costretta a trascorrere con questi un tempo limitato anche in momenti in cui la sua presenza sarebbe stata preziosa o addirittura indispensabile. Non è facile, infatti, contemperare le necessità dell’ufficio, della fabbrica e dei lunghi estenuanti tragitti dalla casa al lavoro, in macchina, in bici, in treno, con i bisogni di un bambino che vorrebbe ancora dormire, o che desidererebbe svegliarsi dolcemente per comunicare alla propria mamma idee, necessità, ma anche paure e perplessità.
E’ difficile soddisfare le necessità di un bambino che vorrebbe lentamente aprirsi al giorno mediante le coccole della madre; che vorrebbe, mentre si alza, si lava e si veste, avvertire le mani ed i baci di una persona tenera e rilassata avvolgere il suo viso ed il suo corpo; che amerebbe, con dolcezza e senza fretta, giocare con lei o sentire raccontata una favola mentre si prepara al nuovo giorno.
E’ facile pensare a quello che può provare un bambino, nell’essere svegliato prima del tempo, trascinato via dal suo caldo lettino, vestito in fretta, spinto a mangiare rapidamente con mille rimproveri o con molte minacce e preghiere.
Non è difficile immaginare la frustrazione di un bambino impossibilitato a dialogare con la madre nel momento delicato del risveglio, trascinato via dalla sua casa, dal suo ambiente, dai suoi balocchi.
Non è difficile immaginare la sofferenza di un bambino legato sui sedili posteriori della macchina come un pacco; come un pacco sballottato nella corsa frenetica dell’auto da una parte all’altra della città, verso una meta non voluta, non richiesta, non desiderata, rappresentata dall’asilo nido e, nei migliori dei casi, dalla casa di nonni compiacenti, ma anche esausti a causa di responsabilità ed impegni eccessivi.
Non è difficile immaginare la sua tristezza e frustrazione nell’inserirsi improvvisamente, appena sveglio, in un ambiente caotico come la città e quindi, subito dopo, in un luogo non rassicurante, intimo, caldo come la propria casa. Un luogo in cui non ritrova gli oggetti conosciuti e amati: la sua stanza, il proprio lettino, i suoi mobili, i fratellini, i giocattoli. Tutte cose ricche e cariche di conforto e sicurezza, al contrario dei luoghi, degli oggetti e delle persone con cui spesso è costretto a relazionarsi: estranei e senza un vero e profondo rapporto d’amore, di confidenza e d’intimità.
Tutto ciò, purtroppo, diventa necessario, anzi indispensabile e deve essere accettato, o meglio subìto, giorno dopo giorno, per anni.
Non dovrebbe essere difficile immaginare la frustrazione di un bambino al quale non è possibile dare l’ascolto necessario, poiché, per dialogare non bisogna avere fretta, né si può correre, con la mente agitata dai bisogni. Correre con l’ansia e la paura di essere rimproverati: dal capoufficio, dal datore di lavoro, dagli altri colleghi. Correre con la paura di essere licenziati se non si arriva a tempo o se si sottrae energia e spazio al lavoro; né si può dialogare efficacemente con una madre che ritorna dal lavoro, già stanca, oppressa dalla fatica e dalla tensione. Non si può dialogare efficacemente con una madre snervata dai problemi, dalle difficoltà relazionali con i capi, con i colleghi di lavoro. Già nuovamente impegnata a pulire, a spolverare e cucinare per garantire ai figli e alla famiglia, il soddisfacimento delle necessità indispensabili. Già pronta a correre per andare dai medici, fare la fila nelle farmacie o nei supermercati. Già in macchina per portare i figli alle varie attività: doposcuola, palestra, scout, parrocchia, ecc..
E’ una continua corsa contro il tempo, ma anche contro se stessi, contro la possibilità di godere le gioie della maternità, il piacere di un rapporto intimo con i figli, la gioia di un dialogo tenero con loro.
Si dice spesso: ” Non è importante la quantità del tempo che la madre trascorre con i figli, quanto la qualità di questo tempo.” Purtroppo, nel caso di un intenso impegno lavorativo esterno o d’impegni sociali pressanti, ne scade sia la quantità sia la qualità.
Per quanto riguarda quest’ultima è bene ricordarci che la quantità d’energia psichica che abbiamo non la possiamo aumentare a dismisura, né creare dal nulla. Possiamo e dobbiamo invece utilizzarla nel miglior modo possibile facendo delle scelte; e se essa è stata sottratta dal lavoro o dagli altri impegni ludici, sociali o politici, rimane ben poco per la relazione, per l’ascolto e l’intesa con i nostri cari. Don Mazzi così descrive la situazione di molte famiglie: “I bambini dei quartieri delle metropoli sono tutti orfani bianchi. Il papà e la mamma escono il mattino, per recarsi al lavoro. Con lo stipendio solo, si dice, in città non si può sopravvivere. Trovano il panino e il cappuccino sul tavolo, il pranzo nel frigo, la brioche nello zainetto della scuola. Un bacetto quasi finto, mentre si stavano svegliando, ha indicato loro che era ora di alzarsi.”
La qualità dell’apporto scade anche perché gli impegni e le attività esterne, assorbendo e condizionando pensieri e riflessioni, portano ad un progressivo estraniamento rispetto ai temi riguardanti i bisogni e le necessità di accudimento, dialogo e attenzione dei minori. Questi bisogni vengono vissuti non più in maniera istintiva ed empatica ma in modo freddo e razionale.
Quanto abbiamo detto mi fa pensare al caso di una bambina che abbiamo dovuto affrontare qualche anno fa. Questo caso potremmo chiamarlo della “bambina miracolata.”
IL CASO DELLA BAMBINA MIRACOLATA.
Un giorno venne all’osservazione della nostra equipe medicopsicopedagogica una bambina di tre anni. Ben sviluppata dal punto di vista fisico rispetto alla sua età, appariva nell’aspetto una bella bambina sana e vivace. Era figlia di genitori di ottima estrazione sociale e culturale: il padre aveva due lauree e così la madre. Entrambi i genitori mi dissero subito di essere super impegnati nelle attività lavorative. Quando ancora io stesso non mi ero lasciato sedurre dal telefonino cellulare che ora tengo, per la disperazione di mia moglie e dei miei figli, ben conservato in un cassetto, la madre con orgoglio mi fece vedere di averne due: uno per le attività d’ufficio e uno per ricevere le chiamate di amici e familiari. Mi esposero il loro problema sintetizzandolo in poche parole: “La bambina nonostante abbia più di tre anni ancora non parla.“
Non vi erano, nelle notizie riguardanti la gravidanza e la nascita, segni che potessero far pensare ad una patologia cerebrale pre o post natale. La bambina sembrava sentire benissimo e anche i test per evidenziare il suo sviluppo intellettivo evidenziavano delle capacità logiche e percettive nella norma. Tra l’altro non sembrava una bambina abbandonata, la madre affermava che la bambina era sempre con lei per parecchie ore al giorno. Eppure non parlava. Imbarazzati in quanto non riuscivamo a fare uno straccio di diagnosi, io e gli altri membri dell’equipe, ci guardavamo in faccia, sperando che qualcuno riuscisse a capire l’origine di questa strana patologia. Poi, come per un’improvvisa illuminazione divina, le feci una domanda che raramente faccio ai genitori: “Ma voi avete insegnato a parlare a questa bambina?” Sia il padre che la madre mi guardarono stupiti. “Mi scusi ma perché avremmo dovuto insegnarle a parlare? Noi sappiamo che i bambini normali verso i tre anni parlano, lei non lo fa e per questo che noi ci siamo preoccupati e siamo venuti da lei.” Ripetei la domanda spiegando cosa significasse insegnare a parlare, la madre mi guardò quasi offesa e rispose stizzita :” Dottore ma veramente lei pensa che con tutto il da fare che ho io avrei mai potuto fare quello che lei mi dice? Forse non ha capito, io ho due lavori che mi impegnano anche quando sono a casa. Ecco perché porto due telefonini. La bambina sta sempre con me, anche quando vado dai clienti la porto nel sedile posteriore della macchina, ma certo non potevo mettermi a fare quelle cose che lei mi dice. Io e mio marito pensavamo che i bambini ad una certa età parlassero e basta.”
Capendo che non era proprio il caso di infierire cominciai a spiegare loro un programma che avrebbe dovuto aiutare la bambina ad acquisire il linguaggio. Si trattava soltanto di farle ripetere delle parole prendendo spunto da immagini semplici e colorate. Sapendo che entrambi i genitori avevano una cultura basata soprattutto sui numeri ed i calcoli, con pignoleria descrissi quante volte e per quanti minuti ogni giorno bisognava sottoporre la bambina a quel programma “speciale.”
Dopo un mese circa i genitori e la bambina ritornarono per un controllo. Chiesi come andavano le cose e la madre: “Dottore è un miracolo, adesso la bambina parla.” Da allora quando vi sono casi simili dico scherzando ai miei collaboratori che si tratta di un altro caso che necessita di un intervento miracoloso!
Per fortuna le carenze educative di tipo culturale così grossolane e macroscopiche sono rare, sono invece più frequenti ed evidenti le carenze affettive.
E’ facile, infatti, che si vengano a scaricare sulla famiglia lo stress, le frustrazioni e le tensioni accumulate nel lavoro e nella vita sociale sotto forma di disagio affettivo e di sintomi nevrotici.
Nel vissuto da parte dei figli di questo tran - tran così poco fisiologico, raramente è presente una chiara colpevolizzazione della madre. Le angosciose corse, il mancato o alterato ascolto, il rapporto con una persona sempre tesa e nervosa, la mancanza d’intimità, raramente vengono, almeno consciamente, a lei imputate.
E' più facile che sia colpevolizzato il padre, sia perché le sue assenze sono in genere più prolungate di quelle dell’altro genitore, sia perché è più difficile accusare una madre che, nell’immaginario collettivo, è sempre quell’essere buono, che si sacrifica per tutti e che sta vicina ai nostri bisogni più profondi.
Quando la responsabilità non è data né all’uno né all’altro, è facile che sia attribuita proprio a se stessi. E’ come se il bambino dicesse “ Io soffro, sto male, di chi sarà la colpa? Non dei miei genitori perché i loro strattoni, la mancanza di dialogo, la difficoltà a trattarmi in maniera dolce, affettuosa, ad aver pazienza con me, non dipendono da loro perché devono lavorare. Forse la colpa sarà mia, perché non sono abbastanza rapido nello svegliarmi, nel vestirmi, nel lavarmi. Non sono attento, come dovrei essere, ai loro inviti e sollecitazioni. Non mi integro abbastanza facilmente con gli altri bambini, con le insegnanti, con i vicini. E’ colpa mia perché piango quando non dovrei piangere; mi arrabbio con i miei genitori quando non dovrei; li accuso ingiustamente; soffro quando non dovrei soffrire; non accetto quello che dovrei accettare.”
Poiché dal vissuto di colpa peggiora il rapporto con se stessi, i problemi psicologici del bambino non possono che aggravarsi.
Anche gli interrogativi che la donna si pone sono altrettanto angosciosi: “E’ giusto o “no” quello che faccio? Mi comporto bene o male”?
Continuamente trascinata e a volte travolta dal dubbio e dalla perplessità, si chiede: “ Ne ho il diritto? E’ una cosa che devo fare? La mia famiglia ne ha veramente bisogno ?”
La donna avverte il disagio dei figli ed il suo, insieme alla sgradevole sensazione di non sentirsi pienamente realizzata come donna e madre. In alcuni casi cerca di eliminare il problema, negandolo “Non c’è alcun problema, i miei figli stanno bene, la mia famiglia procede come tutte le altre, il mio lavoro non ha alcuna influenza negativa su di essa. Non faccio mancare loro nulla, tutto è come dovrebbe essere.”
Conseguenze negative nei confronti della relazione coniugale.
Abbiamo parlato dei cambiamenti nei riguardi dei figli. Esaminiamo adesso ciò che succede o potrebbe succedere nella vita relazionale e di coppia.
La disponibilità economica uguale, se non superiore a quella del marito, se da una parte dà alla donna un senso di maggiore sicurezza, giacché non la fa sentire dipendente economicamente dall’uomo, modifica sostanzialmente il vissuto verso l’apporto dato da quest’ultimo alla famiglia e alla donna stessa. Il contributo economico del proprio uomo è visto non più come fondamentale e necessario ma accessorio. Ciò contribuisce a far diminuire la stima nei confronti del marito, mentre d’altra parte fa sentire la moglie più libera e autonoma, poiché si sente affrancata dalla dipendenza economica. Questo sentire può comportare una minore gratitudine e rispetto nei confronti del compagno con conseguente scarsa disponibilità al compromesso.
La presenza nello stesso luogo di lavoro d’uomini e donne che condividono giorno dopo giorno per anni gli stessi ambienti, gli stessi interessi, lo stesso impegno, aumenta notevolmente la possibilità di legami extra coniugali fatti a volte di semplice amicizia, altre volte di flirt innocenti mentre in molti casi si arriva ad un pieno coinvolgimento affettivo e sessuale e quindi si attua il tradimento vero e proprio.
L’inserimento di un altro uomo o donna, in un rapporto coniugale, è reso più facile anche perché l’ ”altro” o l’”altra” ha molte più possibilità seduttive rispetto al coniuge.
• Ha l’opportunità d’inserirsi in qualunque momento di crisi o di stanchezza sia personale che di coppia.
• Non è portatore di quell’intenso stress che gli impegni della vita familiare comportano e che tende ad accumularsi con gli anni.
• Poiché i rapporti e le mediazioni sono limitate a poche piacevoli ore d’amore e di sesso scelte, per altro, nei momenti in cui vi è una maggiore serenità e disponibilità da parte di entrambi i partner, il condurre avanti una relazione extraconiugale è sicuramente più facile e gratificante.
Ciò non toglie che questi legami tendano spesso ad indebolire o a mettere in crisi i legami familiari e di coppia.
Da parte soprattutto dell’uomo le attività femminili esterne alla famiglia, possono innestare facilmente uno stato di tensione e ansia, poiché sono avvertite come situazioni in cui il rischio di tradimento aumenta notevolmente. Ciò può comportare reazioni improntate a gelosia e aggressività.
Vi può essere inoltre tristezza e disappunto dovuti al fatto che la sua immagine d’uomo che provvede alla famiglia, viene ad essere sminuita e svilita.
La “schiavitù femminile”.
Quando si accusa l’uomo di aver schiavizzato la donna imponendole le fatiche del parto, dell’educazione e delle cure della prole, lasciando per sé le attività più gratificanti, piacevoli, interessanti, si dimenticano o si sottovalutano molti elementi storici e biologici.
Si dimentica che la donna, sicuramente non per scelta dell’uomo, era, e lo è ancora, l’unica persona in grado di concepire un figlio, di portare avanti una gravidanza e di allattare al seno un neonato. Si dimentica che la donna è anche la persona più idonea all’allevamento e alla cura di un bambino piccolo.
Che cosa comportava la gravidanza, fino a pochi decennio fa?
Una gravidanza significava non solo impossibilità di un lavoro pesante e rischioso, ma anche nove mesi di fragilità, d’attenzioni e cure nei confronti della futura madre ed una sua dipendenza più o meno completa da parte di altri.
D’altra parte allattare un bambino al seno e per lungo tempo, non era una scelta politica o ideologica, ma un’inderogabile necessità di vita, giacché non solo mancava il latte artificiale ma i rischi di varie patologie infantili che portavano spesso alla morte, potevano essere contrastati solo con un allattamento al seno particolarmente prolungato che garantiva al cucciolo dell’uomo i necessari apporti nutrizionali ed immunologici.
Impegnata in questo compito essenziale, mirato alla sopravvivenza stessa della razza umana, non erano possibili per la madre né gli impegni guerreschi, né quelli riguardanti un lavoro pesante. Soprattutto non era accettabile un lavoro che la tenesse lontana dalle necessità della prole. Sarebbe stato sicuramente poco igienico, infatti, andare con un bambino attaccato al seno, lancia in resta contro i nemici, le belve o in mezzo ai campi a lavorare!
Ricordiamo, inoltre, che le gravidanze dovevano essere necessariamente numerose a causa della diffusa mortalità infantile, delle continue epidemie, guerre e lotte contro le belve e le avversità della natura, che mietevano anzitempo numerose vittime nella specie umana. Si dimentica, infatti, che la razza umana è stata per molti millenni al limite dell’estinzione, giacché l’uomo è più fragile degli altri animali e ha, nello stesso tempo, bisogni più complessi.
Se sommiamo allora il tempo trascorso dalla donna in stato di gravidanza, quello utilizzato per l’allattamento e la cura dei piccoli e consideriamo la breve vita media di allora, ci accorgiamo che, buona parte del tempo fecondo della donna, era strettamente e necessariamente legato alla procreazione, all’allattamento e alla cura della prole, pena la scomparsa della specie.
L’ipotesi che la donna sia stata per secoli schiava dell’uomo, appare ancora più inverosimile pensando che sarebbero state le stesse donne, per millenni, ad allevare e educare, con deformi e crudeli caratteristiche e principi, i loro futuri carcerieri!
D’altra parte, questa ipotesi è ancora più incredibile giacché, in ogni tempo, le caratteristiche psicologiche femminili, unite ai loro efficacissimi mezzi di persuasione, hanno sempre fatto ottenere alle donne con facilità e con mezzi incruenti, quanto veramente voluto e desiderato; cosa che d’altronde è puntualmente avvenuta in ogni epoca storica e non solo nella nostra moderna società occidentale. La loro capacità di difesa e le caratteristiche psicologiche rendono le donne esseri molto difficili da sottomettere anche per un tempo brevissimo, non parliamo poi di renderle schiave per secoli o millenni!
E l’uomo? Anche lui aveva un compito legato alle sue caratteristiche naturali che non poteva essere disatteso. Non essendo in grado di procreare, non poteva decidere della sua discendenza, che era invece legata alla volontà e capacità della donna. Lei, e soltanto lei, poteva accogliere il suo seme, farlo germogliare e crescere. Lei e soltanto lei era in grado di allevare e curare i suoi figli, fino a farli diventare uomini e donne adulti. Uomini e donne capaci, a loro volta, di impegnarsi nelle attività sociali e nella costruzione di una nuova famiglia. Pertanto era indispensabile che l’uomo lavorasse, s’impegnasse, lottasse per proteggere la donna giacché, soltanto lei, poteva dare garanzie alla sua discendenza. Aiutarla, curarla, assisterla non era solo un segno di bontà o di personale disponibilità, ma, ancora una volta, necessità vitale.
Allontanarsi, a volte solo per ore, altre per giorni o mesi dalla propria famiglia e spesso ritornare invalidi o lasciare la propria vita lontano da casa, per occuparsi di commercio, di guerre, di trattati, o alla ricerca del cibo e di mezzi di sopravvivenza, non era una piacevole occupazione maschile, ma un’inderogabile, faticosa e spesso rischiosa necessità legata ai bisogni fondamentali della famiglia, del clan o della città e in definitiva della specie umana. Quindi mentre la donna aveva bisogno che qualcuno, l’uomo, la proteggesse, la difendesse, procurasse il cibo per lei, quest’ultimo, a sua volta, aveva la necessità di curare questa donna e i suoi figli che rappresentavano tra l’altro, per il futuro, la più importante possibilità d’assistenza, aiuto e sostegno.
Quest’atteggiamento di protezione, difesa e aiuto dell’uomo verso la donna si manifestava in mille modi: basti ricordare il grido dei marinai mentre la nave affondava: “Prima le donne ed i bambini!” o le norme di galateo che imponevano all’uomo di cedere il posto nei mezzi di trasporto o di dare la destra alla donna per poterla proteggere maggiormente. Questo atteggiamento cavalleresco è ancora, a ben guardare, presente nella nostra società. Ancora oggi, se si dialoga con le ragazze, queste avvertono, nonostante decenni di femminismo imperante, come amici sinceri, leali e disponibili più gli uomini che le donne.
Certamente ci sono uomini aggressivi, violenti, e prepotenti nei confronti dell’altro sesso, come vi sono altrettanto donne con caratteristiche similari, anche se l’aggressività, le prepotenze, le violenze femminili si manifestano con mezzi meno evidenti ed eclatanti di quelli maschili.
Tale realtà ha spinto, sia gli uomini sia le donne, ad occuparsi dell’educazione e della formazione dei figli, in modo tale da sviluppare, sottolineare ed evidenziare, tutte quelle caratteristiche utili ad una donna e ad un uomo maturi; ciò in sintonia con l’altro elemento biologico e cioè la selezione naturale.
Questa privilegia gli individui portatori di caratteristiche utili per la sopravvivenza e la diffusione della specie, che quindi potranno procreare e moltiplicare la loro discendenza, mentre tende a penalizzare i soggetti portatori di caratteristiche genetiche poco efficienti e produttive. Per tale motivo, anche a livello genetico, oltre che educativo, si sono venute a selezionare nelle donne alcune caratteristiche che chiamiamo femminili e nell’uomo caratteristiche maschili. Questi caratteri, ripetiamo, si evidenziano mediante il concorso d’elementi innati e d’elementi educativi ambientali. Gli uni e gli altri sono indispensabili per ottenere il risultato voluto in quanto, gli elementi genetici non potranno svilupparsi correttamente senza l’apporto ambientale e d’altra parte gli elementi ambientali non potranno modificare di molto, ma soprattutto non in maniera corretta e completa quelli congeniti.
Come il rapporto esistente tra un progetto e la sua esecuzione. L’uno e l’altro sono indipendenti, ma l’uno ha bisogno dell’altro. Per cui se vi è concordanza il risultato sarà perfetto, se vi è discordanza il risultato sarà monco e deficitario.