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Il bambino e la scuola

 

 

Poche istituzioni, come la scuola, sono servite a cambiare il corso dell’umanità.

Alla scuola sono riconosciute quattro funzioni principali:

  1. una funzione culturale;

  2. una funzione educativa;

  3. una funzione socializzante;

  4. una funzione di preparazione all’inserimento lavorativo.

  1. 1.     Funzione culturale.

Mediante l’istituzione scolastica vi è un luogo specifico nel quale sono rese possibili la ricerca, la scoperta, e la valorizzazione di ogni tipo di conoscenza proveniente dalle fonti più varie. Ed è sempre mediante la scuola che è possibile diffondere i contenuti culturali ad un numero vastissimo di esseri umani di ogni età, sesso, luogo, razza, ceto sociale. In tal modo, mediante questa benemerita istituzione, si è attuata l’alfabetizzazione di massa, ma anche la diffusione di una lingua comune per un gran numero di nuove generazioni e per intere popolazioni. Ciò ha consentito un maggior dialogo tra popoli diversi per cultura, lingua, usi e costumi. Con la frequenza della scuola ogni bambino e ogni giovane hanno la possibilità, mediante i libri di testo, di incontrare e confrontarsi con le più diverse e varie esperienze e conoscenze provenienti da eccelsi studiosi, pensatori, poeti, scrittori, musicisti e matematici di ogni parte del mondo, di ogni lingua e di ogni cultura.

 

  1. 2.     Funzione educativa.

Accanto a questa funzione non è da sottovalutare la dimensione educativa. Nella scuola è data la possibilità ai minori di incontrare giornalmente, al di fuori dell’ambiente familiare, altri adulti capaci di ascolto, dialogo, accoglienza, attenzione e cure. L’insegnante è l’adulto con il quale il bambino può scambiare le idee e i concetti che in lui, gradualmente, vengono a maturarsi. Per molti minori alcuni insegnanti particolarmente vicini e capaci di dialogo, sono anche dei modelli ideali da introiettare insieme alle figure genitoriali o in loro sostituzione, quando queste ultime appaiono scialbe, assenti o abbiano instaurato, con il minore, dei rapporti scarsi, conflittuali, difficili o penosi.

 

 

 

  1. 3.     Funzione socializzante.

Quando il suo centro di interessi si sposta progressivamente dall’ambiente familiare al gruppo dei coetanei, la scuola permette al bambino di vivere alcune ore della giornata in un ambiente diverso rispetto a quello familiare, ma sufficientemente protetto e ricco di stimoli alla socializzazione. Nella scuola, infatti, ai minori è data la possibilità di un gran numero di incontri con altri coetanei con i quali possono essere scambiati pensieri, opinioni e con i quali è possibile instaurare rapporti di conoscenza o di profonda amicizia. Anche il gruppo scolastico, infatti, può rappresentare uno strumento educativo e pedagogico di primaria importanza, così come il gruppo spontaneo nel quale il bambino si inserisce nell’ambito del suo quartiere se, da parte della scuola, l’amicizia ed il legame profondo e stabile tra gli allievi sono valorizzati e non sviliti o temuti. Questa potenzialità socializzante, infatti, viene spesso sprecata o compromessa nel momento in cui gli insegnanti, pur di avere sempre dei bambini attenti e collaborativi, ‹‹che non chiacchierino tra di loro››, tendono a disgregare i gruppi che spontaneamente si formano piuttosto che favorirli. Altre volte vi è quasi la paura che si instaurino dei forti legami di amicizia e di dialogo intenso tra due o più alunni, in quanto si preferirebbe raggiungere l’ambizioso, ma spesso impossibile obiettivo, che tutti siano amici di tutti. Per ottenere questo scopo si attua una continua rotazione tra i compagni di banco che impedisce o limita molto la possibilità di instaurare delle vere e profonde amicizie, mentre stimola soltanto l’abitudine a rapporti superficiali saltuari e banali. Rapporti questi che incidono pochissimo sulla maturazione dell’allievo.

  1. 4.     Funzione di preparazione all’inserimento lavorativo.

Mediante la scuola è possibile diffondere delle conoscenze ed esperienze di tipo professionale utili, se non indispensabili, per un futuro impiego lavorativo.

 

 

Possibili effetti negativi della scuola

Dopo aver brevemente accennato ai benéfici apporti della scuola, non possiamo però non descrivere anche le conseguenze negative sulla vita affettiva dei minori che si determinano quando questa utilissima istituzione manca dei requisiti indispensabili o non è utilizzata e gestita in maniera corretta.

 

Possibili conseguenze negative nell’ambito scolastico si possono avere:

  1. Quando il reclutamento e la selezione del personale docente non avviene in maniera ottimale.

  2. Quando gli insegnanti sono sottoposti a stress eccessivo.

  3. Quando il servizio scolastico è utilizzato in maniera abnorme.

  4. Quando l’inserimento scolastico avviene in modo precoce o poco adeguato.

  5. Quando il tempo trascorso nelle aule scolastiche è notevole.

  6. Quando non sono rispettati i fisiologici ritmi di impegno, svago e riposo.

  7. Ogni qualvolta viene sottovalutato l’obiettivo dello sviluppo di una corretta identità e ruolo di genere.

  8. Quando la scuola e le attività didattiche si inseriscono in modo invadente e prioritario nella vita dei minori.

  9. Quando il gruppo classe deve affrontare problemi più gravi e pesanti rispetto alle sue possibilità.

  10. Quando è presente un’ eccessiva competizione.

  11. Quando la scuola non riesce ad attuare un rapporto ed un insegnamento individualizzato.

     

 

  1. 1.     Quando il reclutamento e la selezione del personale docente non avviene in maniera ottimale.

I requisiti di una scuola dovrebbero riguardare non solo gli spazi sufficientemente ampi e luminosi, l’arredamento funzionale, gli adeguati strumenti didattici a disposizione dei docenti e degli allievi ma, soprattutto, tali requisiti dovrebbero concernere le caratteristiche del personale docente e non docente. Gli insegnanti dovrebbero possedere delle peculiarità molto vicine a quelle richieste a un buon genitore. Pertanto dovrebbero essere accuratamente selezionati, così da mettere accanto ai bambini solo adulti che possiedano buone doti di maturità, stabilità emotiva, gentilezza, pazienza, comprensione, buon umore e capacità di affetto nei confronti degli allievi. I minori si aspettano, inoltre, che gli insegnanti abbiano anche una buona preparazione psicologica, indispensabile nell’azione educativa tesa a prevenire ed eliminare determinati disturbi degli alunni ma anche fondamentale nella normale attività d’insegnamento.[1] Per BASSI ‹‹L’attitudine dell’insegnante non incide quindi solo sul profitto scolastico del fanciullo, sulla sua disciplina in classe, ma anche sulla formazione dei modi di comportamento individuali e sociali, quindi sullo sviluppo della sua personalità››.[2] Insegnanti con queste caratteristiche hanno la capacità di influire positivamente sull’animo degli alunni, in quanto riescono a contemperare in modo armonico il dialogo e l’accoglienza, il rispetto e la tolleranza, l’ordine e la disciplina. Molte paure e rifiuti della scuola e delle attività didattiche sono legate all’atmosfera che si respira nelle aule. E’ nociva per il bambino un’atmosfera pervasa da ansia, timore, disadattamento emotivo, giudizi aspri e severi, eccessiva presenza di limiti, norme, punizioni e limitazioni che rendono invivibile la sua vita tra i banchi di scuola. Altrettanto nociva però è una scuola inquinata da un eccessivo permissivismo che crea, nell’ambito della classe, disordine, aggressività incontrollata, scarso rispetto l’uno dell’altro. Clima questo che annulla ogni possibilità di apprendimento e rende caotiche le ore trascorse in classe.

 

Quando, come avviene oggi, la selezione è fatta, nel migliore dei casi, solo sulle qualità culturali, oltre che sull’anzianità, si rischia di mettere a contatto con dei minori, ancora immaturi e psicologicamente fragili, delle persone che, con i loro atteggiamenti e comportamenti poco congrui sul piano relazionale ed educativo, non solo non riusciranno a dare adeguati apporti formativi, ma vi è il rischio concreto che possano danneggiare, in modo più o meno grave, la personalità in formazione dei minori. Gli insegnanti, infatti, nel rapporto educativo, sono in grado di trasmettere ai discenti sentimenti di gioia, coraggio, serenità, fiducia in se stessi, determinazione, piacere nella relazione, nella vita e nel mondo, oppure, al contrario, ansia, inquietudine, tristezza, malinconia, pessimismo, freddezza, instabilità e insicurezza, non solo in base alla loro volontà di scelta, ma in relazione alle caratteristiche di personalità.

  1. 2.     Quando il personale docente è sottoposto a stress eccessivo.

Gli insegnanti, come tutti i lavoratori, possono essere sottoposti a situazioni di stress eccessivi difficilmente gestibili. Data la delicatezza, la complessità e il costante impegno psicologico necessari nell’attività didattica, queste situazioni possono modificare in peggio l’equilibrio interiore dei docenti, con conseguenze sul piano personale, sull’attività didattica ma, soprattutto, sul rapporto insegnanti - allievi. Le cause dello stress possono essere consequenziali alla difficile gestione di un numero sproporzionato di alunni o alla presenza in classe di troppi minori che presentano comportamenti disturbanti, chiare disabilità intellettive o psichiche. Causa di stress possono essere anche i delicati rapporti con i genitori degli alunni, rapporti che, in questi ultimi decenni, sono notevolmente peggiorati, come sono peggiorati i rapporti con i dirigenti scolastici. Questi ultimi si sentono stretti tra due fuochi: da una parte avvertono la necessità della disciplina e dello svolgimento ottimale delle attività didattiche, dall’altra percepiscono le continue minacce da parte dei genitori, spalleggiati dalla magistratura e dalla stampa, per ogni intervento che possa essere interpretato come repressivo o autoritario.

Come conseguenza di questa continua tensione, negli insegnanti vi è un aumento dell’ansia, degli stadi depressivi, della cefalea, dei disturbi psicosomatici, mentre vi è un peggioramento nelle capacità di ascolto, nella comprensione e nel dialogo. Tutto ciò non può non ricadere sugli stessi allievi i quali si ritrovano a rapportarsi, giorno dopo giorno, con insegnanti stanchi, depressi, demotivati, irritabili e poco disponibili.

  1. 3.     Quando questo servizio viene utilizzato in maniera abnorme.

Per quanto riguarda l’utilizzazione, sempre più spesso, negli ultimi decenni, a questo servizio sono stati affidati compiti che non sono di sua competenza e spesso si sono confusi gli specifici ruoli educativi e formativi. Ad esempio, non dovrebbe essere compito della scuola intrattenere i minori mentre i genitori sono impegnati nel lavoro o in altre occupazioni, così come non è compito della scuola offrire ai minori quelle primarie relazioni affettive ed educative che sono di specifica prerogativa del padre e della madre. Insomma non è compito della scuola sostituirsi alla famiglia o a genitori poco presenti, distratti o incapaci di relazionarsi adeguatamente con i loro figli.

Quando ciò succede, quando la scuola si propone di dare alla società e ai genitori dei servizi che non è in grado di svolgere, tradisce i suoi scopi, sia perché distrae le sue attenzioni e la sue energie dai compiti istituzionali, sia perché offre promesse che non può mantenere, in quanto non ha le caratteristiche, né le competenze di un genitore o di una normale famiglia. La relazione che si stabilisce tra insegnanti e alunni non può, infatti, avere quelle qualità specifiche e quei vincoli affettivi stabili e di particolare responsabilità, che dovrebbero essere presenti nella relazione con dei genitori e familiari. Questo non significa che gli insegnanti non debbano attivarsi quando notano delle lacune educative da parte dei genitori o delle famiglie dei propria allievi ma, nel confronto con le famiglie e con la società nel suo complesso, deve essere chiaro che questo impegno è solo di parziale, momentaneo supporto e mai ha o può avere una stabile e continua funzione vicariante.

  1. 4.     Quando l’inserimento scolastico avviene in modo precoce o poco adeguato.

 

 

L’inserimento precoce può riguardare la scuola dell’infanzia ma anche la scuola primaria e secondaria. Allo stesso modo l’inserimento precoce può riguardare i bambini normali e quelli disabili.

L’inserimento precoce nella scuola materna.

Una delle condizioni dalla quale può derivare una notevole sofferenza ai minori, è data dal precoce o non adeguato inserimento scolastico. Per molti genitori, e purtroppo per altrettanti docenti, vi è la errata e diffusa idea di affidare bambini ancora psicologicamente piccoli o immaturi alla funzione socializzante degli insegnanti e dei compagni di classe. Sia i genitori sia i docenti sottovalutano una componente fondamentale della realtà dei minori che riguarda la maturità affettivo – relazionale. L’integrazione nell’ambito scolastico richiede, come prerequisito, che il minore abbia superato, in assenza della figura materna o di altro familiare che faccia da supporto, il timore nei confronti di un ambiente sconosciuto e di persone estranee. Il superamento di queste paure non può avvenire nelle aule della scuola, né può essere affidato in maniera prioritaria agli insegnanti, ma può e deve avvenire soltanto a livello familiare. Per BASSI, infatti, ‹‹Senza questa azione socializzante della famiglia lo sviluppo della personalità infantile non sarebbe possibile e, di conseguenza, sarebbe impossibile anche l’esperienza del gruppo che è la nuova entità sociale che si sostituisce, non senza conflitti, alla famiglia, per operare una ulteriore socializzazione del fanciullo. È, infatti, sperimentalmente dimostrato che il fanciullo normale che è bene adattato nella famiglia lo diventa anche nel gruppo. Il bambino che non riesce ad integrarsi nel gruppo dei coetanei, che non si adatta ad andare alla scuola materna, di solito è un bambino “difficile” anche in famiglia.[3]

Pertanto, la socializzazione all’esterno del nido familiare non è avviata in modo corretto ogni qualvolta si forzano precocemente i bisogni di sicurezza del bambino. Bisogni che sono soddisfatti solo dalla presenza e dalla protezione delle figure familiari e dell’ambiente della sua casa.

Quando si attuano queste forzature, non solo non si ottiene quanto desiderato ma, poiché viene ad essere più o meno gravemente turbato il mondo interiore del bambino, possono manifestarsi tutta una serie di sintomi come la paura della scuola, l’ansia, le somatizzazioni, la tristezza, la chiusura. Sintomi questi che rendono evidente la sofferenza ed il disagio del minore.

 

In realtà la socializzazione avviene per fasi, le quali sono strettamente legate alla natura degli esseri umani. Queste fasi, è bene sottolinearlo, non possono essere modificate o anticipate.

Vi è l’età delle braccia e del seno materno, quando il bambino si sente sicuro, sereno e protetto soltanto quando si trova immerso in un costante intimo contatto con il corpo della madre. A questa fase segue l’età della disponibilità materna, quando il bambino prova sensazioni rassicuranti e calde anche se la madre o chi ha cura di lui con caratteristiche nettamente materne, si allontana all’interno della casa, ma rimane disponibile e pronta al suo richiamo. Vi è poi l’età del nido, quando il bambino accetta nel suo spazio psicologico con serenità, gioia e fiducia il papà, ma anche gli altri familiari (nonni e zie), che ben conosce e che sono molto vicini al suo cuore.

Vi è, infine, verso i tre – quattro anni, l’età dell’apertura all’estraneo. In questa fase accetterà fisiologicamente, senza traumi, l’inserimento in un ambiente, come la scuola materna, dove si ritrova con bambini con cui non c’è fratellanza e parentela e con adulti nei confronti dei quali non si è stabilito un rapporto affettivo solido e individuale. La maestra infatti, anzi spesso le maestre, ognuna con la propria personalità, anche se hanno un atteggiamento materno, sono a disposizione di tutto il gruppo classe e non possono essere vicini in modo esclusivo ad un singolo allievo. Nella scuola materna come dice RUSSO: ‹‹Il bambino si trova nelle condizioni di dover affrontare diverse difficoltà: la presenza stimolante e limitante dei coetanei, il nuovo ambiente, il modello di funzionamento sociale, l’accettazione della pluralità e variabilità delle educatrici, la rinuncia parziale alle abitudini consolidate, l’assenza dell’affettività e della tutela delle figure familiari››.[4] Si ritrova, inoltre, a confrontarsi con usi e costumi diversi da quelli familiari ai quali era abituato e con modelli a volte conflittuali, con la conseguenza di determinare nel bambino confusione riguardo al modello da seguire o da rifiutare.[5]

 Non vi è dubbio che solo a questa età e in questa fase, la scuola materna sia utile, in quanto permette al bambino di aprirsi a persone insegnanti e altri bambini non legati a lui da vincoli familiari ed affettivi, che lo stimolano a mettere in gioco le sue capacità di instaurare rapporti nuovi e diversi.

La scuola materna è, quindi, utile quando:

  • ·        questa esperienza non avviene precocemente;
  • ·        è stato predisposto un inserimento graduale;
  • ·        sono presenti delle buone maestre, capaci di accoglienza;
  • ·     i genitori sono pronti a lasciare questa scuola se notano segnali evidenti di sofferenza nel loro figlio come può essere il pianto, la tristezza, la difficoltà ad allontanarsi dalle braccia materne o sintomi somatici come la cefalea, la diarrea, i dolori addominali.

 

Le varie fasi che abbiamo indicato hanno, però, soltanto un valore indicativo. Non sempre lo sviluppo psicoaffettivo corrisponde all’età cronologica. Pertanto un bambino può raggiungere più precocemente o più tardivamente una delle fasi che abbiamo descritto, in base alle caratteristiche del suo sviluppo psicologico che può essere più o meno ritardato o accelerato. La possibilità di vivere serenamente il rapporto con persone estranee al suo ambiente familiare, è tanto più facile quanto più serena e soddisfacente è stata vissuta la sua prima infanzia con la madre, il padre e con le figure parentali più vicine a lui. Pertanto è la bontà di questo rapporto, è la serenità dell’ambiente di vita nel quale è vissuto il bambino, che gli renderà possibile aprire il proprio animo, il proprio interesse e la propria attenzione costruttiva anche agli estranei. Al contrario, più il bambino è stato trascurato, più il bambino ha subito una relazione non sufficientemente ricca e gratificante, più difficoltà avrà a conquistare dei livelli superiori di autonomia, in quanto nel suo animo albergheranno ancora paure e timori, ogni qualvolta dovrà o sarà costretto ad allontanarsi dalla sua casa, dai suoi genitori o addirittura dalla presenza fisica della madre.

Per attuare una scelta consapevole non basta quindi tener conto solo dell’età anagrafica e mentale del bambino, ma bisogna porre attenzione a quegli indicatori che, se letti correttamente senza l’influenza dei nostri desideri o bisogni personali, familiari o lavorativi, esplicitano la maggiore o minore maturità del bambino, rispetto alla possibilità o meno di inserirlo nella scuola materna.

 

I segnali che ci indicano la maturità affettiva e relazionale e, quindi, ci danno un’utile indicazione su un possibile positivo inserimento nella scuola dell’infanzia, sono fondamentalmente tre:

  • ·         un atteggiamento sereno, gioioso e fiducioso del bambino nei rapporti con se stesso e con gli altri (genitori, nonni, cugini e compagni);
  • ·         una sufficiente e ampia conquista sia dello spazio fisico che psicologico attorno a lui. Ci accorgiamo di ciò quando notiamo che il bambino non ha paura del buio, non teme di lasciare la mano della mamma o del papà per spostarsi da una stanza all’altra della casa. Riesce, inoltre, a restare per qualche ora, senza particolari problemi, non solo nella casa dei nonni e degli zii ma accetta, anche se con qualche titubanza, di rimanere affidato alle cure della mamma di qualche compagno che ben conosce e con il quale si è particolarmente legato. Inoltre un bambino è maturo per la scuola materna quando preferisce restare nel suo lettino piuttosto che dormire nel letto dei genitori;
  • ·         la conquista ed il superamento del rapporto esclusivo con alcuni oggetti con i quali era particolarmente legato: ad esempio la sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto. Mentre prima non poteva fare a meno di questi oggetti e li cercava quasi ossessivamente, ora accetta con piacere anche quelli che gli vengono proposti in sostituzione dei suoi.

Le cause dell’inserimento precoce nella scuola dell’infanzia.

Nonostante vi siano molti motivi per ritenere che l’inserimento precoce nella scuola possa essere nocivo per il bambino, tanto da peggiorare il suo benessere psicologico, alcuni fattori tendono a provocare nei genitori questa errata decisione.

Il primo di questi fattori riguarda l’età cronologica: ‹‹Se mio figlio ha l’età per essere accettato nella scuola dell’infanzia deve essere inserito in questa scuola. Per cui se dimostra difficoltà o netto rifiuto durante questo inserimento le possibili cause riguarderanno sicuramente o delle lacune negli insegnanti di classe o un comportamento capriccioso del bambino››. 

 

Determinante è anche l’influenza ambientale: ‹‹Se il figlio della mia migliore amica o della cugina che abita di fronte, ha iniziato la sua carriera scolastica a due - tre anni, mio figlio non può essere da meno››. ‹‹Se il mio primogenito è stato inserito precocemente nella scuola materna, altrettanto dovrà fare il secondogenito››.

A volte l’influenza ambientale utilizza gli stessi deficit e difficoltà del bambino: ‹‹Tuo figlio si comporta così: piange per un nonnulla, è capriccioso, vuole dormire ancora nel vostro letto, ha difficoltà nell’alimentazione, perché ancora non è andato all’asilo. Mandalo là e tutti i suoi capricci finiranno, in quanto le maestre non saranno così permissive come sei tu››. Quando le cose non vanno poi per il verso giusto, per cui i sintomi di disagio del bambino si accentuano, piuttosto che ricredersi e ritornare sui propri passi, le stesse persone sono pronte ad accentuare i problemi con frasi come questa: ‹‹Se neanche l’asilo è riuscito a fargli superare queste fisime, non c’è proprio nulla da fare››. Come dire che quel bambino è fatto così male che non vi è rimedio alcuno se non qualche scappellotto.

 L’ambiente sociale può influire sui genitori anche evidenziando dei motivi economici: ‹‹Tu non ti puoi permettere di stare a casa, per cui per potere lavorare in pace devi mettere tuo figlio alla scuola materna, pianga o non pianga, stia bene o stia male, si abituerà››.

Questo concetto dell’abituarsi e cioè dell’adattamento, è esposto anche dagli insegnanti: ‹‹Tanti bambini piangono durante i primi giorni di scuola ma poi si abituano e non piangono più››. In questo caso viene estrapolato solo uno dei sintomi di malessere: il pianto, senza tener conto che la sofferenza psicologica ha mille altre strade mediante le quali può manifestarsi ed il pianto è solo una di queste.

Inserimento precoce nella scuola primaria.

Vi è poi il problema dell’inserimento precoce in attività didattiche che il bambino non è ancora in grado di affrontare ed in comportamenti richiesti che non è in grado di gestire. Intanto l’età mentale non sempre corrisponde all’età cronologica anche in bambini perfettamente “normali”. Non bisogna dimenticare che fra un quoziente intellettivo “normale” di 80 ed un quoziente intellettivo altrettanto “normale” di 120 vi sono quaranta punti di differenza. Pertanto, nella stessa classe, possono convivere alunni di età mentale di meno di cinque anni e alunni con un’età mentale di più di sette anni. Se poi si considerano normali anche gli alunni con un Q.I, ai limiti della norma, che per le attuali leggi italiane non hanno diritto all’insegnante di sostegno, il divario tra gli stessi alunni aumenta in maniera considerevole in quanto, nella stessa classe, sono posti sullo stesso piano e dovrebbero apprendere le stesse materie, alunni di età mentale di 4 anni e sei mesi e alunni di sette anni e più.

Quando ciò avviene, quando il bambino viene precocemente inserito in un ambiente a lui non idoneo è costretto a confrontarsi non solo con una disciplina nettamente più coartante rispetto a quella presente nella scuola dell’infanzia, ma anche con attività, come la lettura, la scrittura e la matematica che richiedono determinati prerequisiti di carattere logico-percettivo, spaziale e visuo –motorio. Se questi prerequisiti non sono maturati, un bambino o non impara quanto proposto subendo giorno per giorno l’umiliazione di non capire, di non conoscere, di non sapere, oppure può anche imparare a leggere e a scrivere ma il risultato non compensa lo sforzo che dovrà fare e le umiliazioni che dovrà subire nell’essere considerato il reietto della classe. OLIVERIO FERRARIS: “Un bambino che si impegna ed è animato dal desiderio di dare il meglio di sé, che vorrebbe contare all’interno del gruppo classe e avere i giusti riconoscimenti si sente, infatti, frustrato di fronte ai propri modesti risultati. E poiché il piccolo non sa che il vantaggio degli altri dipende dall’età, può pensare di valere di meno, convincersi di non essere benvoluto dagli insegnanti per qualche sua carenza, oppure, peggio ancora, sentirsi marginale ai propri compagni di scuola che lo tengono in scarsa considerazione››.[6] Ciò comporta dei segnali di disagio psichico come i disturbi dell’attenzione, l’irrequietezza, l’insofferenza per la scuola e le attività didattiche, l’insonnia, i disturbi psicosomatici ecc.. Se, come oggi avviene in Italia, i genitori sono stimolati a iscrivere i loro figli a cinque anni e sei mesi le difficoltà ed i problemi sopraddetti non possono che aumentare notevolmente.

Per quanto riguarda poi la necessità dell’ordine e della disciplina, spesso il bambino è costretto a restare buono e tranquillo nella propria classe, seduto nel proprio banco, spesso per ore, ad un’età nella quale, soprattutto i maschietti, avrebbero bisogno di alternare brevi momenti di impegno e attenzione ad altri nei quali sia preponderante il gioco e l’attività motoria libera, da effettuarsi, se possibile, all’aria aperta. Queste condizioni non fisiologiche possono comportare, in alcuni maschietti, forme di disagio psichico che tendono ad aggravarsi proprio a causa degli interventi finalizzati a soffocare tali sintomi. Infatti, se il bambino si muove troppo nel suo banco o non sta attento, viene rimproverato, richiamato, o punito. Queste frustrazioni accentuano il suo malessere che si potrà manifestare con una aumentata instabilità, irrequietezza, scarsa attenzione e memorizzazione. Questi comportamenti, a sua volta, porteranno ad un’accentuazione dei richiami e degli atteggiamenti repressivi da parte dei docenti, ma anche dei genitori che, a sua volta, tenderanno a peggiorare il quadro psichico e comportamentale, con una netta diminuzione delle capacità di apprendimento.

 

 

L’inserimento dei bambini disabili

Per quanto riguarda poi l’inserimento dei bambini disabili, o come ora si preferisce chiamare diversamente abili, nella scuola, i problemi si complicano notevolmente. Ad esempio, i bambini con ritardo mentale dovrebbero frequentare la classe più vicina alla loro età mentale e al loro sviluppo culturale. Se poi la loro età mentale e il loro sviluppo psicoaffettivo sono inferiori ai tre – quattro anni, dovrebbero continuare a vivere e relazionarsi all’interno del nido familiare. Capita invece, sempre più spesso, che genitori, insegnanti e operatori dell’infanzia, frequentemente in piena sintonia, inseriscano il bambino affettivamente o intellettualmente piccolo, con bambini di uguale età cronologica ma molto superiori per possibilità affettivo relazionale, per età mentale e per capacità di apprendimento, creando di fatto un notevole disagio nel minore disabile.

Lo stesso avviene con bambini notevolmente disturbati, come i bambini affetti da autismo o da altre psicosi, i quali sono costretti a restare in un ambiente, la classe, e con delle persone, gli altri bambini della classe, nella vana speranza di ottenere un legame socializzante. Si trascura il dato fondamentale che questi bambini vivono male l'allontanamento dalla propria casa, soprattutto vivono male l'ambiente classe perché troppo rumoroso, numeroso, limitante e frustrante. Pertanto, prima di essere inseriti in ambiente scolastico, dovrebbero aver fatto un percorso relazionale che li renda maturi e pronti alla socializzazione. La qual cosa è molto difficile che possa essere effettuata in classe anche con l’aiuto dell’insegnante di sostegno.

 

5. Quando il tempo trascorso nelle aule scolastiche è eccessivo.

 

 

Dopo gli anni sessanta il tempo trascorso nelle aule scolastiche è andato sempre più aumentando con l’inserimento del tempo pieno, del tempo prolungato, della settimana corta, ma anche a motivo dei vari progetti organizzati dalla scuola. Nello stesso tempo sono aumentate le occasioni nelle quali la scuola ha iniziato a sostituirsi alla famiglia con l’intento di aiutarla nei compiti che non riusciva più a svolgere. Prima il momento del pranzo: ‹‹Come può una madre che lavora e che ha solo due ore di intervallo ritornare a casa, preparare il pranzo per i figli e ritornare al lavoro? Per aiutare queste famiglie è più utile che il bambino resti a scuola e mangi insieme ai suoi coetanei. Ciò servirà anche come educazione alimentare e l’aiuterà a superare tanti capricci››. A ciò si è quasi subito aggiunto “l’aiuto” nell’effettuare i compiti scolastici: ‹‹Chi c’è a casa nel pomeriggio, se non una vecchia nonna lontana dagli argomenti didattici che oggi la moderna pedagogia propone ai suoi studenti? Come può questa vecchietta assistere e aiutare i bambini? È molto meglio che questo sostegno sia offerto da alcune insegnanti durante il tempo pieno o tempo prolungato››. E ancora per altre attività ludiche: ‹‹Ora che sono scomparsi i cortili e le aree attrezzate per i giochi per i bambini vi è il rischio reale che questi stiano tutto il pomeriggio a casa davanti alla TV e ai video-giochi; meglio, molto meglio attivarli con delle esperienze ricreative e culturali da effettuare durante il tempo pieno a scuola››.

 

Ma la scuola con il concorso del comune riesce a fare anche meglio. ‹‹Perché costringere i genitori ad accompagnare i figli a scuola quando è possibile avere dal comune degli ottimi scuolabus?››

 

In una società, come la nostra, nella quale i rapporti genitori –figli sono molto ridotti e limitati dalle necessità lavorative, un bambino, specie se piccolo, desidererebbe e ne avrebbe il diritto, di essere accompagnato a scuola da almeno uno dei suoi genitori o da una persona a lui legata affettivamente, come un nonno o una nonna. Questa funzione, infatti, ha delle notevoli valenze affettive ed educative. In quei minuti trascorsi insieme, mentre il bambino lotta contro il timore di staccarsi da un ambiente conosciuto e sicuro come la propria stanza e la propria casa per affrontare un contesto diverso, difficile e problematico, come quello scolastico egli, mediante il contatto della mano ferma e calda del genitore, ha la possibilità di percepire prima e poi far propria la sicurezza e la serenità di questi. Inoltre, mediante il dialogo, ha la possibilità di comunicare con la persona amata le nuove esperienze, le nuove gioie e soddisfazioni come quelle di un bel voto o di riuscire ad instaurare un nuovo rapporto d’amicizia ma gli è possibile anche confidare i timori e le difficoltà come l’accettare un cattivo voto, un richiamo dell’insegnante o le cattiverie di qualche compagno di classe.

 

In questi casi l’offerta e l’accettazione di un servizio come quello degli scuolabus, specie per un bambino piccolo o alle prime esperienze scolastiche, può comportare notevoli disagi e sofferenze, in quanto questi si ritrova ad affrontare da solo i suoi timori, le sue paure, i suoi dubbi, le sue difficoltà, mentre rimane privo dei preziosi consigli, suggerimenti, incoraggiamenti e chiarimenti, dei suoi genitori ma anche del contatto fisico offerto dalla loro mano o dal bacio dato al momento del distacco.

 

“L’aiuto” che la scuola o il comune cerca di dare ai genitori e alle famiglie, in realtà si traduce in una deresponsabilizzazione, ma anche in una collusione con il mondo economico o meglio finanziario, che tende sempre di più a gestire persone e famiglie a suo esclusivo beneficio, senza tener conto dei danni prodotti alle future generazioni.

 

 

6.     Quando non sono rispettati i fisiologici ritmi di impegno, svago e riposo.

 

Possibili effetti negativi si possono avere quando la scuola e le attività didattiche correlate non rispettano i bisogni di riposo, di gioco e di svago del minore. Negli ultimi decenni la scuola è sottoposta da parte della società a continue richieste formative, sia per l’aumento delle conoscenze, sia per la complessità delle attitudini indispensabili agli adulti per comprendere e padroneggiare le varie attività lavorative e sociali. Ciò comporta un carico di lezioni, compiti e attività, in alcuni casi insostenibili per le possibilità di un bambino. Tendono ad aumentare le ore di lezione e quelle di studio necessarie per prepararsi alle interrogazioni quotidiane o per superare le varie prove d’esame. Inoltre, la necessità di utilizzare al massimo il tempo trascorso dal bambino a scuola, ma anche la paura di incidenti che possono avvenire fuori delle aule scolastiche, ha fatto da una parte diminuire la durata della pausa di riposo, dall’altra, in molti casi, ha spinto gli insegnanti a costringere i bambini a consumare una frettolosa merendina nello stesso banco. Queste modalità di gestione degli alunni, assolutamente non fisiologiche per soggetti in età evolutiva i quali hanno bisogni di movimento, svago e gioco, ha comportato un aumento dell’instabilità e dell’irritabilità, una diminuzione delle capacità di attenzione, una maggiore svogliatezza, ma anche atteggiamenti aggressivi e disforici poco consoni ed utili in una classe. Insomma, piuttosto che liberare tensioni represse mediante il gioco libero, nelle giuste pause, è facile vedere un numero sempre maggiore di bambini, soprattutto maschietti, che per tutto il tempo delle lezioni ma soprattutto nelle ultime ore si alza spesso dal banco e vaga nella classe oppure, al contrario, resta imbambolato, apatico e addormentato nel suo banco per evitare rimproveri e punizioni. Questa modalità poco fisiologica di gestire i tempi dello studio e quelli necessari per il riposo ha, inoltre, determinato un calo nell’impegno scolastico soprattutto degli alunni maschi, con conseguenze anche sul piano del benessere psicologico.

 

7.     Ogni qualvolta viene sottovalutato l’obiettivo dello sviluppo di una corretta identità e ruolo di genere.

 

L’identità di genere è data dal vissuto che la persona ha di sé come maschio e come femmina.

 

Quando l’individuo avverte una costante, chiara e netta consapevolezza di appartenere ad uno specifico genere sessuale, per cui può dire a se stesso e agli altri: ‹‹Io sono maschio›› oppure ‹‹Io sono femmina››, la sua identità di genere è chiaramente ben definita. Al contrario, quando la persona, qualunque siano le sue scelte sessuali, qualunque siano le sue caratteristiche anatomiche, non riesce a collocarsi in un sesso specifico, non ha una chiara identità di genere.

 

L’identità sessuale va distinta dal ruolo sessuale che è dato dal comportamento che l’individuo attua esprimendo le sue caratteristiche. ‹‹Io sono maschio e quindi vivo e mi comporto da maschio nelle mie scelte, nel mio lavoro, nel modo di vestire, nelle mie scelte amorose e sessuali, ecc..

 

Anche l’impegno per un corretto sviluppo dell’identità e del ruolo di genere sembra scomparso nei programmi ma soprattutto nelle aule scolastiche.

 

Poiché l’identità ed il ruolo di genere sono solo in parte determinati dagli elementi genetici e pertanto necessitano del fondamentale contributo educativo della famiglia e della società, così come per i genitori anche la scuola, in quanto luogo che accoglie precocemente le nuove generazione e si propone di formarle, avrebbe il dovere di lavorare costantemente per aiutare il corretto sviluppo sessuale dei minori. Purtroppo tale contributo, almeno attualmente, appare molto scarso per vari motivi. Intanto le classi miste hanno sottratto agli alunni la possibilità di uno scambio prevalente di idee ed esperienze nell’ambito dello stesso genere; a ciò si è aggiunta la presenza di uguali programmi didattici sia per i ragazzi che per le ragazze. Non è indifferente, inoltre, la netta prevalenza di insegnanti donne non solo nella scuola dell’infanzia, ma anche in quella primaria, che impedisce una corretta identificazione. In queste condizioni entrambi i sessi sono mortificati, anche se i danni maggiori sono avvertiti dai maschi, i quali sono costretti a vivere in un ambito educativo strutturato e gestito prevalentemente con caratteristiche e valori di tipo femminile.

 

 

8.     Quando la scuola e le attività didattiche si inseriscono in modo invadente e prioritario nella vita dei minori.

 

La vita giornaliera di un bambino, ma anche quella di un fanciullo e di un giovane dovrebbe essere la più varia. Durante la veglia dovrebbero essere intervallati momenti di studio ad altri di gioco libero, periodi di riflessione ad altri di impegno, momenti di lettura e momenti di ascolto, occasioni di riposo alternate a sport o comunque ad impegno motorio. Momenti dedicati al dialogo, ai quali dovrebbero seguire periodi ricchi di silenzio interiore. Quando la scuola e le connesse attività didattiche diventano preponderanti nella vita dei minori, molte di queste possibili opzioni si riducono notevolmente, si annullano o non vengono neanche scoperte. In questi casi l’impegno scolastico fagocita ogni minuto, ma anche ogni energia del minore, rendendo monocorde la sua giornata ma anche la sua vita ed il suo sviluppo umano, con grave perdita delle sue globali potenzialità. Il concetto che la scuola dovrebbe essere solo una parte della vita del minore, per alcuni genitori e per tanti insegnanti sembra sconosciuto o nettamente rifiutato, tanto che il dialogo tra genitori e figli, ma anche tra coetanei spesso si riduce a temi quasi esclusivamente di tipo scolastico: ‹‹Sei stato interrogato? Quanto hai preso nell’ultimo compito? Come mai il tuo rendimento scolastico è diminuito in questo periodo? Ti piace la matematica?›› E così via.

 

Per alcuni genitori la scuola e le attività didattiche diventano causa di ansia per loro e motivo di tormento nei confronti dei figli. Non basta la sufficienza è necessario un buon voto. Non basta un buon voto è necessario un rendimento scolastico eccellente. Tutto il resto della vita del minore sembra ruotare solo su questi termini di paragone. Per evitare che il bambino si distragga, nei momenti di riposo alcuni genitori sono felici se il figlio guarda la TV, ‹‹…così apprende qualche altra cosa e rimane concentrato sui compiti da fare.›› Compiti che spesso si prolungano fino a tarda sera. Si riduce il rapporto del bambino con i coetanei. Si riducono le sue possibilità di scelta. Il suo animo e la sua vita si atrofizzano.

 

Questi genitori spesso non sopportano che il loro figlio “non faccia nulla”. Vanno in ansia se lo vedono sdraiato nel letto a pensare guardando il soffitto. Quando si accorgono che, almeno apparentemente è inattivo, lo apostrofano pesantemente. Come fosse un crimine pensare, fantasticare, riflettere. Le conseguenze sono notevoli. La personalità del minore ha difficoltà ad espandersi. Non solo, ma egli comincia a credere, come i suoi genitori ed i suoi insegnanti, che il valore di una persona si misura dal suo successo scolastico; che essere buono e bravo significa prendere dei buoni voti; che le maggiori disgrazie della vita sono quelle che si hanno quando un compito va male e così via. Spesso, in questi minori cresce l’ansia da prestazione, la depressione, la tristezza, la colpevolizzazione e la svalutazione di sé, quando qualcosa non è andato per il verso giusto a scuola. Tutto il bene che essi possono chiedere a se stessi e al mondo si focalizza su questa istituzione.

 

Nonostante questo sia un pensiero molto frequente, resta un pensiero grossolanamente errato. La vita premia chi è più ricco globalmente, non chi è più bravo a scuola. Premia chi è capace di gioire, pensare, riflettere, scoprire, provare, dialogare, non chi prende tutti nove e dieci. Premia chi è pronto e desideroso di impegno verso il prossimo; chi ama arricchirsi della lettura, della musica; chi gode e difende la natura ed in essa cerca riposo e vigore. In definitiva, la vita premia chi è più capace di confrontarsi bene con sé stesso, con gli altri e con il mondo che lo circonda e non chi risponde meglio alle interrogazioni.

 

In questi bambini la cui vita ruota solo attorno alla scuola e allo studio, abbiamo evidenziato nei loro disegni e nei loro racconti, una scarsissima varietà di elementi. A volte tutti i loro sogni e le loro attenzioni sono focalizzate sugli oggetti tecnologici, altre volte sui video – giochi, altre volte sul calcio ma è come se il ventaglio della loro vita fosse enormemente ristretto e limitato e quindi, in definitiva, molto povero.

Un bambino “tutto studio e TV”

Il caso di Vincenzo è emblematico.

 

Questo bambino di nove anni con normali capacità intellettive e con buon profitto scolastico, arriva alla nostra osservazione in quanto presentava numerosi disturbi psicoaffettivi come paura del buio, della bambola assassina, dei ladri, della morte dei genitori e quindi di rimanere solo senza protezione. Presentava, inoltre, facile suscettibilità, ridotta autostima, e notevole tensione interiore. I genitori si impegnavano e lo impegnavano nel fare i compiti dalle quindici alle diciannove. Dopo i compiti l’unica altra attività che gli era concessa era vedere un po’ di TV. Nessuna vita sociale. Niente amici. Nessuna attività di gioco con i compagni.

Come commento al disegno che raffigura un bambino che gioca al pallone, riferisce:

‹‹C’era una volta un bambino di nome Luigi che palleggiava. Sapeva giocare bene a pallone. Andava a calcetto, mangiava, dormiva, ecc. Un giorno un topo gli ha bucato il pallone e lui si è messo a piangere. Dopo se ne è comprato uno nuovo e ha giocato di nuovo a pallone. La madre aveva i capelli ricci e neri e suo papà aveva i capelli ricci e neri. Papà faceva il medico e la mamma faceva il medico. Erano buoni. Papà si arrabbiava se gridava e la mamma per le grida e se non studiava. Era solo e giocava solo!››

Nonostante il disegno ed il relativo commento fossero, almeno in parte, una proiezione dei suoi desideri insoddisfatti in quanto, nella realtà, il bambino non era iscritto a calcetto e non aveva tempo di giocare a pallone, colpiscono in questo racconto tutta una serie di elementi scialbi e monocordi di persone e giornate sempre uguali (Un giorno un topo gli ha bucato il pallone e lui si è messo a piangere. Dopo se ne è comprato uno nuovo e ha giocato di nuovo a pallone) (La madre aveva i capelli ricci e neri e suo papà aveva i capelli ricci e neri). (Papà faceva il medico e la mamma faceva il medico).

Colpisce, inoltre, la sua frase finale (Era solo e giocava solo!)

 

9.     Quando il gruppo classe deve affrontare problemi più gravi e pesanti rispetto alle sue possibilità di dare adeguate risposte.

 

La possibilità che ha una classe di dare risposte adeguate dipende da molti fattori: equilibrio psichico e capacità degli insegnanti, numero degli allievi, quantità di problematiche da affrontare. In definitiva, una maggiore qualità e capacità dei docenti permette di affrontare positivamente anche un numero maggiore di alunni, anche se tra questi vi sono più alunni con problemi. Al contrario minori capacità e qualità sono presenti negli insegnanti, minori possibilità vi sono di affrontare un alto numero di alunni soprattutto se fra questi sono presenti degli alunni con qualche disabilità. Pertanto più una classe è numerosa, più all’interno della classe sono presenti bambini con problemi, anche solo di disagio psichico, più è difficile la sua gestione e più capacità si dovrebbe richiedere ai docenti.

 

10.     Quando è presente una eccessiva competizione.

 

Una giusta competizione stimola l’interesse e la motivazione ed aiuta a raggiungere gli obiettivi didattici programmati. Quando invece la competizione è eccessiva si crea un clima di ansia, tensione e scontro tra gli allievi, per cui gli alunni meno capaci e bravi rischiano di soffrire per i sentimenti di fallimento e di insufficienza.

 

11.     Quando la scuola non riesce ad attuare un rapporto ed un insegnamento individualizzato.

 

Ogni bambino ha per sua natura delle potenzialità e dei bisogni particolari in quanto portatore di diversa personalità, di diverse capacità intellettive, di attenzione, di memoria e così via. Anche se è illusorio pensare che un insegnante possa far effettuare ad ogni alunno della classe, la quale spesso è numerosa, un suo percorso individualizzato di apprendimento, una buona scuola e dei bravi insegnanti dovrebbero riuscire a dare ad ogni allievo l’attenzione necessaria affinché non si sentano e non vengano trattati in maniera anonima. Il racconto di Bruno è, a questo proposito, eloquente.

Un bambino con la paura delle interrogazioni.

C’era una volta un ragazzino di nome Carlo il quale prima di essere interrogato era molto spaventato perché temeva che il professore gli avrebbe messo due se non avesse fatto bene. La mattina Carlo cercò in tutti i modi di non andare a scuola, fingendo di sentirsi male. Però non riuscì, doveva solo affrontare il professore. Quando lo chiamò alla lavagna, nessuno capiva perché lui scriveva tremolante. Appena il professore disse di disegnare un parallelogramma lui riuscì a farlo perfettamente. Questo professore di cui tutti avevano paura era diventato amico, perché appena finita la lezione lo portò fuori con lui dicendogli di continuare così con buona volontà. Il bambino passò alle classi superiori e fece notare a tutti di essere un piccolo grande genio.

Il racconto di Bruno evidenzia molto bene il “miracolo” che può fare un buon professore con un piccolo, semplice gesto.

Intanto viene presentato, in questo racconto, un bambino spaventato dalle interrogazioni che, di conseguenza, presenta paura della scuola (C’era una volta un ragazzino il quale prima di essere interrogato era molto spaventato perché temeva che il professore gli avrebbe messo due se non avesse fatto bene). (Quando lo chiamò alla lavagna, nessuno capiva perché lui scriveva tremolante). Questo ragazzino fa di tutto, fingendosi malato, per non andare (La mattina Carlo cercò in tutti i modi di non andare a scuola, fingendo di sentirsi male). Tuttavia, nonostante il terrore, è bastato poco a questo professore per sminuire di molto le sue paure (Questo professore di cui tutti avevano paura era diventato amico, perché appena finita la lezione lo portò fuori con lui dicendogli di continuare così con buona volontà).

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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Le problematiche dell'asilo nido

 

 

 

 

Il bambino e i servizi per l’infanzia

Quando pensiamo ai servizi per l’infanzia è naturale immaginare qualcosa che richiede un costo sociale non indifferente a carico dello Stato o dei privati ma che sarà sicuramente utile allo sviluppo fisico e/o psichico del bambino. Insomma, un servizio per l’infanzia dovrebbe aiutare il bambino nella sua crescita: affettiva, intellettiva, motoria e sociale, dovrebbe prevenire i problemi del bambino, dovrebbe curarli, quando essi si presentano o quando la malattia ha lasciato dei postumi o delle disabilità. Tali servizi dovrebbero poter far recuperare ai piccoli, in tutto o in parte, le abilità perdute o menomate. Tutto ciò per fortuna, in molti casi e per molti servizi dedicati all’infanzia, avviene.

Purtroppo però non sempre è così. A volte, per motivi vari, alle buone intenzioni non fanno seguito dei risultati altrettanto validi.

Le cause sono diverse:

  •   spesso viene proposto un servizio per coprire dei bisogni solo di una parte della società. Ad esempio, viene proposto un servizio per coprire i bisogni economici del paese o peggio i bisogni economici o finanziari di un’azienda, senza preoccuparsi minimamente di quello che avviene nell’animo delle persone che lavorano in quell’azienda e della vita dei loro figli. Ad esempio, viene proposto un servizio che permette ai genitori di essere liberi di lavorare entrambi o di divertirsi insieme, ma, sia quando viene proposto il servizio, sia in una fase successiva, non viene verificato se quel servizio sia stato utile, inutile o peggio dannoso ai minori ma anche alla società nel suo complesso;
  •   altre volte i servizi hanno una visione molto ristretta dei bisogni dei cittadini e, quindi, hanno delle finalità molto limitate, per cui non riescono ad affrontare la realtà umana nella sua complessità e globalità. Ad esempio, si soffermano a studiare, ad esplorare e a recuperare o curare solo uno o pochi aspetti della realtà del bambino, trascurando tutto il resto. In tal modo rischiano di offrire risposte parziali e, quindi, scarsamente idonee. Per tale motivo può capitare che nel cercare di risolvere un danno o una carenza, complichino o peggiorino la situazione globale del bambino che è a loro affidato;
  •   in altri casi i servizi, nel reclutare il personale, sono poco attenti alle qualità affettivo–relazionali degli operatori assunti, con conseguente possibile danno per gli utenti;
  •   inoltre, poiché gli operatori che lavorano in queste strutture hanno dei diritti irrinunciabili: diritto alle ferie; diritto a lavorare per un certo numero di ore; diritto al giorno di riposo; diritto ad assentarsi per malattia e altri eventi straordinari; diritto a cambiare lavoro; i servizi, tutti i servizi, non sono e non saranno mai in grado di offrire le caratteristiche presenti in una normale famiglia, quali la continuità, la stabilità, la costante responsabilità, oltre che un profondo legame affettivo. Quando i servizi pretendono di fare ciò, offrono solo delle promesse che non possono essere mantenute, per cui, molto spesso, peggiorano la realtà interiore del bambino a loro affidato;
  •   non si può, inoltre, negare che molti servizi facciano di tutto per autoalimentare la loro esistenza, in quanto sono fonte di introiti, occupazione e potere. Per tale motivo, spinti da motivazioni non sempre nobili ed altruistiche, tendono ad ingrandirsi e moltiplicarsi, o cercano in tutti i modi di occupare spazi non di propria competenza, prescindendo dai bisogni reali degli utenti.
L’asilo nido

Uno dei servizi offerti alle famiglie e al bambino è l’asilo nido. Questa istituzione, che dovrebbe sostituire per il bambino che ancora non può frequentare la scuola materna, le mura della sua casa e le cure sia fisiche sia psicoaffettive della sua mamma, del suo papà o degli altri familiari, è sempre più utilizzata dai genitori soli, dalle famiglie dove entrambi i genitori lavorano, ma anche da quei papà e quelle mamme di bambini piccoli con ritardo mentale, autismo e altre patologie invalidanti. Questi vedono nel nido un luogo più ricco di stimoli culturali, linguistici, educativi, rispetto ad una normale famiglia e, quindi, una maggiore opportunità offerta dalle istituzioni pubbliche e private per i loro piccoli. [1]

Negli ultimi anni anche le famiglie nelle quali la donna non lavora e che non hanno bambini problematici bussano alla porta di queste strutture, in quanto sono convinte che l’asilo nido possa dare più di una normale famiglia.

Per tale motivo, da parte di molte componenti della società: famiglie e associazioni, sindacati e politici, medici e amministratori, è sempre più pressante la richiesta di più asili nido, così da soddisfare il “bisogno” di ogni comune, di ogni quartiere, di ogni famiglia e di ogni donna che intende o è costretta a “realizzarsi” nel lavoro. E non importa che questi servizi abbiano un costo notevole. “Se sono utili ai bambini, ai genitori, soprattutto alle madri, al mondo del lavoro ed in definitiva alla società, tali costi vanno affrontati. Se i soldi necessari sono ben utilizzati vanno trovati”.

Abbiamo però il dovere di chiederci: Quanto l’asilo nido è utile al bambino normale? Quanto è adatto al soggetto disabile? Quanto è valido e necessario ai genitori, al mondo del lavoro e alla società?

Se guardiamo questi servizi con occhi superficiali notiamo, almeno nei migliori, la pulizia che spesso regna sovrana, ma anche la bellezza e la ricchezza delle pareti e dei locali nei quali predominano a volte i colori caldi e vivaci della primavera, come il giallo e l’arancione, mentre in altri casi sono più evidenti le tonalità più distensive e serene, come il blu del mare o l’azzurro del cielo. Nel contempo le pareti sono ricche di disegni che si ispirano alla natura: con grappoli di fiori, piante rigogliose o animali e pesciolini variopinti. Altre volte, sulle pareti, sono rappresentati i temi delle classiche favole dei bambini o dei personaggi televisivi più amati, mentre a terra non mancano di fare bella mostra di sé numerosi giocattoli educativi. Il tutto ha lo scopo di inviare ai genitori un messaggio rassicurante sulla qualità del servizio. Per quanto riguarda il personale, se i nidi privati più alla buona, che cercano in tutti i modi di guadagnare e risparmiare, inseriscono del personale raccogliticcio e poco efficace nella cura dei minori in quanto mal pagato, poco motivato e non gestito adeguatamente, le strutture più attente al benessere del bambino, si impegnano a selezionare operatori preparati nel campo pedagogico, psicologico ed educativo. Nonostante ciò, nonostante la ricchezza e lo sfarzo, nonostante la preparazione del personale, quello che si definisce e vorrebbe essere un “nido”, per il bambino che lo frequenta, nido non è.

Non è un nido quello nel quale un bambino molto piccolo chiama e non vi è una vera madre che risponde al suo richiamo. Le brave pedagogiste, le ottime insegnanti, le preparate psicologhe presenti, non hanno gli occhi di sua madre, non hanno l’odore del suo corpo, non possiedono gli stessi tratti del suo viso, non hanno la tenerezza del suo abbraccio, non hanno il tono carezzevole della sua voce.

Prima dell’ingresso nel nido tra lui e quelle professioniste non si è creato nessun particolare legame affettivo con caratteri di stabilità. Legame questo che crea e mantiene la fiducia reciproca. Quella donna che accorre al suo richiamo non è la stessa dalla quale lui ha preso il latte il primo giorno della sua nascita. Non è la stessa che riusciva a scacciare le paure solo con la sua presenza, solo con il suo sorriso, solo con il suo respiro, soltanto con il tono della sua voce. Non è la stessa e non conosce i piccoli segreti che si sono strutturati già dal momento in cui egli è stato accolto tra le sue braccia: il segreto per farlo sorridere, quando il visino si è fatto triste e spaurito; il segreto per farlo calmare e rassicurare, quando la bufera dell’ansia scuote forte il suo animo; il segreto per farlo alimentare con gioia e soddisfazione, quando nulla sembra essere di suo gusto; il segreto per farlo addormentare felice, quando ha paura di lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo. Questa donna, questa ragazza ricca di attestati, lauree, specializzazioni, corsi, master e tirocini non era presente quando, dopo la prima caduta nella quale egli si è fatto male, la sua mamma lo ha accolto tra le braccia e ha trovato in un bacio la medicina più adatta per sconfiggere il dolore e l’umiliazione. Quella donna, quella ragazza non c’era quando la sua mammina ha scoperto il corretto modo di stringere il suo corpo, e le parole più adatte per rassicurarlo quando ha manifestato la paura dell’acqua. Queste nuove donne che si occupano di lui non sanno che ad una certa ora egli ama dormire e guai a svegliarlo e guai a fare il benché minimo rumore. Queste non sanno quanta serenità egli ritrovi nella sua stanzetta quando la luce entra dalle tapparelle appena alzate e bacia lui ed il suo lettino, né conoscono il trauma di essere svegliati dallo strillo acuto e spaventato di altri bambini che, come lui, chiamano a gran voce, incessantemente ma inutilmente la propria madre. Non sanno che lui aveva imparato una cosa fondamentale, che quando la mamma scompare dalla porta, basta un gridolino più forte per farla riapparire, come d’incanto, così da soddisfare la sua fame, la sua sete, il suo bisogno di coccole. Questa donna, anzi queste donne che si scambiano l’una con l’altra, senza tener conto dei legami di amicizia e di amore tra loro ed i piccoli che curano, tutte queste cose, le devono ancora imparare; a sue spese.

Ma soprattutto la sua mamma non scompare per giorni o settimane intere quando è ammalata o quando è in ferie. Anzi, nei suoi confronti, in questi casi, è ancora più presente, per cui è bello ritrovarsi insieme nello stesso letto, come quando da neonato era cullato dal suo respiro. Lei, la sua mamma, non scompare per sempre da un momento all’altro, perché ha deciso di sposarsi, perché deve prepararsi per affrontare gli ultimi esami, perché ha trovato un lavoro migliore: più gratificante, più conveniente, più vicino a casa sua. Lei, la sua mamma, sta con lui per il tempo che vuole, nessuno la rimprovera perché usa il suo tempo con un solo bambino mentre gli altri aspettano le sue cure. Nessuno la richiama se si attarda a coccolare il suo tesoruccio, piuttosto che fare le pulizie. Ma poi che posto è questo nel quale i suoi compagnetti, a differenza del suo fratello maggiore, scompaiono per sempre o ricompaiono da un momento all’altro senza che lui capisca il perché?

In definitiva, l’asilo nido non è un vero nido in quanto:

  1. Il bambino ha bisogno di una figura materna. Ma non sempre nell’animo del giovane personale femminile adibito nei nidi è maturata questa istintiva e basilare realtà interiore che prescinde e travalica la preparazione professionale. Teniamo presente che ogni cura fisica prestata al bambino ha per lui anche dei risvolti psicologici ai quali bisogna rispondere adeguatamente (Winnicott, 1973, p.14).
  2. Il bambino ha bisogno della propria madre. La sua serenità e sicurezza interiore sono legate ad una figura ben precisa che ha un suo viso, un suo odore, una sua specifica caratteristica individuale che la distingue da tutte le altre donne.
  3. Il bambino ha bisogno di una persona con la quale si sia stabilito un legame d’amore reciproco. Per Winnicott:[2] “Il modo di trattare un bambino molto piccolo è al di là del pensiero cosciente e delle intenzioni. È qualcosa che diviene possibile solo grazie all’amore. Talvolta affermiamo che il bambino piccolo ha bisogno di amore, ma quello che intendiamo dire è che solo qualcuno che lo ama è in grado di appagarne i bisogni e di graduare il mancato appagamento in base allo sviluppo della capacità da parte del bambino stesso di utilizzarlo positivamente”. Questo legame d’amore tra il bambino e il personale del nido è molto difficile che si instauri in quanto mancano i presupposti indispensabili, dati non solo dal legame di sangue ma anche dalla diversa responsabilità e ruolo esistente. Il bambino ha bisogno che questo legame sia stabile e non venga mai tradito da lunghi periodi di lontananza fisica. Le esperienze passate del bambino rivestono un ruolo vitale per lo sviluppo e continuano ad influenzarlo, pertanto bisognerebbe garantire, per quanto possibile, che ogni bambino riceva cure regolari sempre dalla stessa persona. In caso contrario in lui si manifestano collera e rabbia oltre che ansia e angoscia. E ciò è impossibile garantirlo per le necessità personali e per i diritti sindacali di ogni lavoratore.
  1. Il bambino ha bisogno di una madre che abbia con lui effettuato un cammino e un percorso. Una madre con la quale ha maturato reciproche esperienze ed intese. Una madre che cresca ed impari insieme al suo bambino. E ciò è molto difficile che possa avverarsi con il personale di un’istituzione.
  1. Il bambino ha bisogno di una figura di riferimento principale. Se questa figura cambia nel tempo, non si riesce a stabilire un legame profondo. Ma anche quando si concretizzassero i fattori più favorevoli, per cui questo legame e questa intesa dovessero diventare realtà, saranno legami ed intese destinate a spezzarsi dopo pochi anni o pochi mesi, con conseguente frustrazione e dolore per tali perdite. Mentre, durante la frequenza di questa istituzione, non potranno mancare i sensi di colpa e i conflitti che nasceranno dalla difficoltà di vivere con chiarezza ruoli e realtà diversi e contrastanti. Se il bambino si lega con un legame forte e speciale alla “zia” del nido, tradisce il legame precedente con la propria madre. Se, al contrario, permane in lui il legame con la propria madre, nonostante la frustrazione di essere ogni giorno, a volte per anni, allontanato dal proprio ambiente familiare per essere portato in un luogo sconosciuto, in compagnia di coetanei e di adulti sconosciuti, gli sembrerà di fare un torto alla persona che nel nido si occupa di lui con amore ed affetto, come fosse una madre vera.

 

Per Winnicott:[3] “Riconosciamo che il gruppo adatto al bambino ai primi passi è la sua famiglia; e sappiamo che sarebbe un disastro per il bambino di prima infanzia se si rendesse necessaria un’interruzione nella continuità della vita familiare”.

E ancora lo stesso autore:

“Da parte mia sono convinto che la parte tecnica della cura del bambino possa essere insegnata e persino appresa attraverso i libri, ma che la capacità di comportarsi come una madre nei confronti del proprio bambino, sia del tutto personale e che nessuno sia in grado di assumersi tale compito e svolgerlo altrettanto bene della madre stessa”.[4]  

Per Wolff:[5]

“Tutti questi studi indicano che durante i primissimi anni di vita i bambini hanno bisogno di qualcosa di più di un ambiente stimolante e di possibilità di scoprire le cose e di giocare: essi hanno anche bisogno di un rapporto continuato con una persona che li cura come una madre, che sa rispondere ai loro bisogni individuali e che è in grado di agire come fonte di continuità dell’esperienza che i bambini stanno facendo”.

E ancora Wolff [6]:

“In sintesi, possiamo dire che fra i sei mesi e i tre anni di vita il futuro sviluppo emotivo ed intellettuale del bambino dipende dagli stimoli e dalle cure affettuose della gente che gli è familiare e che conosce i suoi specifici tratti e bisogni individuali (...)la perdita della madre, specialmente se ad essa fa seguito l’affidamento a una istituzione impersonale, tende ad avere conseguenze nocive di lunga durata e forse permanenti.

Per Osterrieth:[7]

“Bisogna ricordare tuttavia che il nocciolo della vita infantile, a questa età, è di ordine affettivo familiare, e che se il bambino trae grande vantaggio dalle attività regolate, a contatto con gli altri, la sua personalità in formazione ha altrettanto bisogno di solitudine, di tranquillità, e di attività autonoma: “pasticciando” nel suo angolino con i suoi tesori personali, egli fa importanti scoperte e impara ad agire senza essere sempre motivato o guidato dagli altri”

Per Spiegel (in Arieti)[8]:

“Abbiamo visto come l’emergere del linguaggio sia integralmente legato alla funzione materna. La reciproca relazione tra madre e bambino è essenziale non solo per l’apprendimento, ma anche per la strutturazione della personalità di quest’ultimo, che dipende in larghissima misura dalla comunicazione interpersonale”.

Per Pellegrino e Sentiello[9]:

“Il quadro attuale è quello di una rete familiare fortemente atrofizzata, i cui componenti più giovani passano poco tempo con i genitori, sono allevati da figure esterne all’ambito familiare, o trascorrono gli anni della loro giovinezza in più famiglie, dato che i divorzi portano al formarsi di coppie in cui solo uno degli adulti è genitore del figlio con cui convive. Questo è in contrasto con le tradizionali teorie della psicologia dell’età evolutiva e dell’apprendimento, che considerano fondamentali per lo sviluppo dei figli l’apporto fornito dai genitori e il loro ruolo all’interno della famiglia”.

In conclusione pensiamo che questa istituzione, che per sua natura non può rispondere adeguatamente ai bisogni di un bambino piccolo, dovrebbe essere utilizzata solo per brevi periodi di emergenza quando, per gravi motivi contingenti, non è possibile ad una madre essere vicina in modo stabile al proprio bambino e non sono assolutamente utilizzabili altre opzioni: nonni, altri familiari, oppure la presenza stabile di una tata affidabile e con buone caratteristiche materne.

L’asilo nido ed i bambini con disabilità fisica

Non ci appare assolutamente utile, inoltre, l’inserimento in un asilo nido dei bambini disabili affetti da malattie organiche come la paralisi cerebrale infantile, il ritardo mentale, l’epilessia, i disturbi del linguaggio e così via, in quanto questi bambini con problemi di natura organica hanno bisogno che siano soddisfatti tre tipi di necessità.

  1. La prima è quella di ricevere stimoli abilitativi o riabilitativi in quantità maggiore rispetto a quelli proposti ai bambini normali.
  2. La seconda vuole che a questi bambini siano offerti stimoli qualitativamente migliori: più incisivi, più graduati, più vari e più interessanti, rispetto a quelli offerti ai bambini normali.
  3. La terza necessità impone che questi stimoli, quantitativamente e qualitativamente migliori, siano proposti rispettando i bisogni affettivo–relazionali dei minori E quindi vuole che siano proposti al momento giusto, nel modo giusto, in un clima di piacevole gioco, di intesa reciproca, di dialogo intimo e di ascolto dei bisogni affettivi del bambino. In caso contrario, non solo questo tipo di stimolazioni: non importa se di tipo intellettivo, cognitivo o motorio, risulteranno scarsamente efficaci, ma altresì vi è il rischio di aggiungere alla disabilità organica una disabilità psichica, che aggraverebbe di molto la realtà interiore del bambino e le sue future possibilità di socializzazione e d’integrazione sia all’interno della sua famiglia sia nel rapporto con gli altri coetanei.

Queste tre necessità difficilmente possono essere soddisfatte in una struttura, come l’asilo nido, in quanto non solo non vi è del personale particolarmente preparato a questo tipo di stimolazioni o di attività riabilitative, ma, soprattutto, non vi è un ambiente idoneo dal punto di vista affettivo–relazionale.

L’asilo nido ed i bambini con problemi psicoaffettivi

Per quanto riguarda i bambini affetti da problematiche psicoaffettive, che si manifestano con sintomi come le paure, i disturbi dell’attenzione, l’iperattività, l’aggressività, i disturbi della condotta, ecc., questi bambini, già provati e affettivamente traumatizzati, rischiano di aggravare la loro condizione in quanto il legame difficile, patologico, scarso o assente con i genitori, può peggiorare a causa dell’ulteriore sofferenza e frustrazione dovute all’inserimento in un asilo nido. In realtà, alle esperienze negative precedenti: di non essere ben capito, accettato, curato da parte dei suoi genitori o della sua famiglia, si rischia di aggiungere una nuova e traumatizzante esperienza. Per un bambino che già vive tormentato dalle ansie, dalle paure, dai conflitti e dalle tristezze, acquista un significato ben preciso di segno negativo, l’essere allontanato dal suo ambiente naturale, dalla casa, dalla stanza e dagli oggetti che gli procurano un minimo di serenità, per essere inserito, senza tener assolutamente conto dei suoi bisogni, in un luogo sconosciuto, con altri bambini e altri adulti altrettanto sconosciuti, i quali non sono in grado di mitigare i suoi problemi, le sue ansie e le sue paure. Ai suoi occhi e al suo cuore questo comportamento dei genitori conferma la sua sensazione di non essere un bambino buono, bravo, desiderato e degno d’amore. Pertanto, la necessità di allontanarlo dalla sua famiglia, può avere ai suoi occhi il valore di una punizione per i suoi pensieri negativi o i suoi comportamenti da bambino “cattivo”. Ancora più problematico ci appare l’inserimento in asilo nido di un bambino con gravi disturbi, come potrebbe essere un bambino affetto da autismo o da regressione psicotica. Per questi bambini nei quali le ansie, le paure sono notevoli, mentre sono intensi il sospetto, la diffidenza e il rifiuto verso il mondo esterno, l’inserimento in un luogo sconosciuto, ricco di tensione, a causa delle grida o dei pianti di tanti altri bambini, risulta ancora più doloroso e traumatico.

Una buona gestione della prima infanzia vorrebbe che, fino ai tre-quattro anni, i piccoli senza particolari problematiche restino con la propria mamma o con il proprio papà, nel proprio ambiente familiare e, quindi, nella propria casa, con i propri giocattoli, circondati da persone, oggetti e spazi ben conosciuti. Solo se ciò non fosse assolutamente possibile, in subordine a questa ideale organizzazione familiare, i bambini piccoli potrebbero essere affidati ai nonni o agli zii. In ogni caso, l’affidamento ad una tata affettuosa, stabile, capace di ben relazionarsi con i piccoli, è sicuramente una soluzione migliore rispetto all’asilo nido. 

 

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Il 40% dei piccoli frequenta l’asilo nido per 40 - 49 ore la settimana, il 31,2% per 30 - 39 ore e il 21,4% per 20 - 29 ore settimanali.

[2] Winnicott D.W., (1973), Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti e Barbera, p. 15.

[3] Winnicott D.W., (1986), Il bambino deprivato, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 242.

[4] Winnicott D.W., (1986), Il bambino deprivato, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 144.

[5] Wolff S., (1969), Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando - Armando Editore, p. 34.

[6] Wolff S., (1969), Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando - Armando Editore, p. 36.

[7] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 136-137.

[8] Arieti S., (1970), Manuale di psichiatria, Torino, Boringhieri, p. 2117.

[9] Pellegrino A.,  Santinello M.,     (1998), “La formazione dei genitori sulle competenze educative: i risultati di un’esperienza”,  Difficoltà di apprendimento, 4, p. 541.

 

Servizi e famiglie

 

“Con il termine - servizi alle famiglie- si intendono indicare tutte quelle forme di intervento atte a promuovere il benessere della persona e dunque di tutta la famiglia, ma anche e soprattutto le azioni mirate a sostenere l’organizzazione familiare in caso di presenza di gravi situazioni di difficoltà.”

I servizi sociali che lo Stato  ormai da vari decenni offre alla donna, alla coppia e alla famiglia sono sempre più numerosi e organizzati. Servizi di pediatria, consultori familiari, centri di mediazione familiare, centri per le famiglie in difficoltà, reparti di ostetricia e ginecologia, asili nido, scuole, università, servizi di neuropsichiatria infantile, centri medici psicopedagogici, centri di riabilitazione ecc..

Verso la fine degli anni ’60 la diffusione capillare, anzi l’esplosione di questi servizi, fu vista come una panacea ai mali degli individui, delle famiglie e delle coppie. Questi servizi dovevano nello stesso tempo servire a permettere alla donna di intraprendere, con più serenità ed abnegazione, la strada dell’impegno lavorativo, sociale e politico e quindi il suo “riscatto civile.”

Di questi servizi, in quegli anni, veniva sottolineata ed esaltata l’immagine di strutture che, utilizzando personale selezionato e qualificato, avrebbero dovuto offrire un valido sostegno, aiuto e supporto alle singole persone, ai genitori, ai minori e alle famiglie. Anche oggi, i gravi problemi educativi che si manifestano in modo eclatante nelle società occidentali, vengono imputati quasi sempre ad una “carenza dei servizi sociali”.

Le carenze quantitative vengono individuate soprattutto nella scuola ( rapporto docenti - alunni non ottimale in particolar modo per quanto riguarda i soggetti portatori di handicap); nel numero e diffusione degli asili nido: “Ogni bambino che nasce avrebbe diritto al suo asilo nido”;  nelle residenze per anziani: “Ogni persona che invecchia avrebbe diritto ad essere assistita da personale specializzato e competente in un luogo idoneo”. La stressa lagnanza viene ripetuta per i problemi delle coppie che “non si possono affrontare adeguatamente per la carenza di consultori familiari ben distribuiti nel territorio.” E così via.

L’altro corno del problema è stato ed è visto in termini di carenze qualitative. “Se le cose non vanno bene è perché non c’è personale adeguatamente qualificato e motivato nella scuola, negli asili nido, nei consultori ecc..”

Come conseguenza di questa visione del problema i servizi, in parte gratuiti, in parte a pagamento, si sono notevolmente moltiplicati e hanno ampliato di molto la loro sfera di competenza, soprattutto nelle regioni più ricche, meglio amministrate o più “sensibili ai problemi della donna e della famiglie”, mentre nel contempo sono stati proposti numerosissimi corsi di formazione e specializzazione per preparare al meglio o aggiornare il personale che dovrebbe far fronte a tutte o quasi tutte le emergenze sociali: bambini, adolescenti, anziani, tossicodipendenti, malati mentali, coppie, famiglie. Negli anni però, insieme alle possibilità reali dei servizi, che non possono e debbono in alcun modo essere dimenticati o svalutati, si sono evidenziati i loro difetti ed i loro limiti.

Il primo limite riguarda l’esatta natura dei fruitori del servizio.

Gli amministratori, nei discorsi d’inaugurazione, spesso con orgoglio e con una punta di commozione ( non si sa se vera o fasulla) sottolineano o promettono nuovi e più funzionali servizi. Ma nessuno si chiede se e chi se ne avvantaggerà. L’assioma che noi accettiamo acriticamente è che, se viene spesa una certa cifra per un servizio utilizzato ad esempio dai minori normali o disabili, ne trarranno vantaggio i minori o i disabili.

Naturalmente più la cifra è alta, più il personale che se ne occupa è numeroso, più l’iniziativa viene giudicata favorevolmente. Insomma noi accettiamo acriticamente che i soldi dedicati e spesi per i bambini e i disabili siano sempre soldi ben utilizzati. Eppure molte volte non è affatto così.

L’esempio degli asili nido è il più eclatante. Una città, una regione, ma anche un piccolo paesino di montagna, è tanto più orgoglioso di quello che fa per i cittadini amministrati, quanto più alto è il numero degli asili nido. Eppure da sempre la psicologia e la neuropsichiatria infantile hanno messo e mettono in guardia riguardo ai gravi rischi che corrono i bambini quando vengono allontanati precocemente dal nido familiare.

Per Winnicott: “Riconosciamo che il gruppo adatto al bambino ai primi passi è la sua famiglia e sappiamo che sarebbe un disastro per il bambino di prima infanzia se si rendesse necessaria un’interruzione nella continuità della vita familiare”

Dice ancora Winnicott: “Da parte mia sono convinto che la parte tecnica della cura del bambino possa essere insegnata e persino appresa attraverso i libri, ma che la capacità di comportarsi come una madre nei confronti del proprio bambino sia del tutto personale e che nessuno sia in grado di assumersi tale compito e svolgerlo altrettanto bene della madre stessa.”

Per Pellegrino: “Il quadro attuale è quello di una rete familiare fortemente atrofizzata, i cui componenti più giovani passano poco tempo con i genitori, sono allevati da figure esterne all’ambito familiare, o trascorrono gli anni della loro giovinezza in più famiglie, dato che i divorzi portano al formarsi di coppie in cui solo uno degli adulti è genitore del figlio con cui convive. Questo è in contrasto con le tradizionali teorie della psicologia dell’età evolutiva e dell’apprendimento, che considerano fondamentali per lo sviluppo dei figli l’apporto fornito dai genitori e il loro ruolo all’interno della famiglia”

Purtroppo, il rischio è alto qualunque sia la qualità del “nido” istituzionale nel quale il bambino viene inserito.

Non è quindi un problema di numero, né di preparazione più o meno accurata del personale, ma è un problema di istituzione. L’istituzione nido non è uguale all’istituzione famiglia. Non ha né caratteristiche uguali, né caratteristiche simili, è altra cosa, è cosa diversa.

Il fatto che il bambino resti nel nido “solo” qualche ora non cambia ai suoi occhi e al suo cuore la prospettiva. In realtà le “poche” ore che il bambino trascorre nel nido sono veramente “molte” se si pensa che il 40% lo frequenta per 40-49 ore la settimana, il 31,2% per 30-39 ore e il 21,4% per 20-29 ore settimanali.

La fisiologia vorrebbe che, almeno fino ai tre anni, il bambino fosse vicino ai suoi genitori o almeno a dei familiari molto vicini al suo cuore: nonni, zii, in modo stabile. Se questo non avviene e il piccolo, invece, viene inserito in un ambiente estraneo, come l’asilo nido o il baby - parking, questo gesto viene avvertito dal suo fragile animo come un abuso e una violenza fatta nei suoi confronti. Come fidarsi ciecamente e pienamente di una madre o un padre che tutte le mattine ti allontana dalla tua stanzetta, dal tuo lettino, dai tuoi giocattoli, dalle loro stesse braccia sicure e calde, per inserirti in un ambiente per te estraneo, freddo ed estremamente pauroso e difficile, a causa della presenza di persone verso le quale non si è stabilito alcun rapporto affettivamente valido?

Come voler bene, anzi amare, dei genitori che tutti i giorni ti costringono a restare per ore in un luogo privo delle loro presenze, le uniche capaci di darti sufficiente sicurezza, calore, conforto?

Come amare la realtà attorno a te e quindi il mondo che ti circonda, quando permette queste quotidiane violenze nei tuoi confronti?

Che la richiesta o il “bisogno” dei genitori sia stato esaudito, almeno nella forma, se non nella sostanza, non vi è dubbio, ma dovremmo chiederci se accanto al “bisogno” dei genitori è stato soddisfatto quello dei bambini.

Un altro esempio lo si trova nelle scuole. “Per venire incontro ai problemi delle famiglie, nelle quali entrambi i genitori lavorano,” i servizi scolastici, privati in primo luogo ma anche quelli pubblici, cercano in tutti i modi di prolungare l’orario di permanenza nella scuola inserendo il tempo pieno, il tempo prolungato, la mensa scolastica. Per completare la catena dei servizi spesso mettono a disposizione degli alunni, gli scuolabus per mezzo dei quali i bambini senza l’intervento dei genitori o di un altro familiare possono essere trasportati da casa a scuola e viceversa o in altre strutture richieste dai genitori.

Anche in questo caso, che il bisogno o la richiesta dei genitori e quella degli insegnanti che cercano un posto di lavoro sia stata esaudita, almeno apparentemente, non vi è dubbio, ma dovremmo chiederci se, accanto al “bisogno” dei genitori e degli insegnanti, siano state soddisfatte le necessità dei bambini.

Siamo certi che i bambini preferiscano andare a scuola trasportati da un pulmino in compagnia di vocianti e a volte aggressivi compagni e di un anonimo assistente e non accompagnati e confortati dalla mano, dal saluto, dal bacio e dai consigli del papà o della mamma?

Siamo certi che i bambini siano felici di trascorrere lontani dalle loro case, in un ambiente estraneo, molte, troppe ore della propria giornata seduti in un banco o tra le mura di una scuola?

Siamo certi che trascorrere buona parte della giornata in un ambiente istituzionalizzato lontani dalla loro casa, dai loro genitori, dalla loro famiglia, dai loro giocattoli, sia utile al loro sviluppo psicofisico?

Non vi è dubbio che, se i bambini interessati sapessero a quale deputato o assessore devono la loro prolungata presenza nell’ambiente scolastico, non gli riserverebbero molti applausi.

Ma anche noi adulti, penso, avremmo una visione diversa del problema se solo potessimo valutare appieno il danno causato nel rapporto madre – bambino, padre - bambino.

Rapporto fragile e delicato, che dovrebbe essere tutelato e salvaguardato in ogni modo ma che viene invece calpestato, messo in crisi, sfaldato e, a volte distrutto per sempre, proprio a causa dei “servizi” offerti alla donna e alla famiglia.

Se poi si ponesse attenzione all’importanza che hanno nello sviluppo del bambino, anche dal punto di vista culturale, i suoi genitori e la sua famiglia, non vi dovrebbero essere dubbi sulla scarsa utilità e bontà di tali servizi.

E la società civile? Anch’essa difficilmente potrebbe considerare positive queste scelte nel momento in cui sarà costretta ad occuparsi e preoccuparsi del disagio di questi bambini. Per questi, per valutare e cercare di affrontare le conseguenze di tali violenze, per guarire le piaghe purulente dell’anima di questi suoi figli, che sono anche il suo futuro, dovrà impegnare numerosi e valenti professionisti, con un costo notevole per l’erario dello Stato  e per le singole famiglie, con risultati molto dubbi e sicuramente limitati, in quanto le cicatrici affettive come quelle organiche non guariscono o guariscono molto lentamente lasciando quasi sempre qualche reliquato.

Per non parlare poi delle conseguenze che dovrà affrontare quando il disagio si evidenzierà sotto forma di disturbi nell’apprendimento o del comportamento: necessità di insegnanti di sostegno, necessità di terapie psicologiche e riabilitative.

Certamente non tutti i bambini che usufruiscono dell’asilo nido o del tempo pieno diventeranno bambini disturbati, caratteriali o con problemi nell’apprendimento, ma a quale scopo aumentare il rischio al quale sono esposti?

L’esperienza del passato sembra non sia affatto servita ad illuminarci o insegnarci alcunché. Eppure sono ancora tra noi, molti gravi adulti disabili, i quali, quando ancora erano bambini, in seguito ad una martellante campagna condotta da parte dei servizi sociali nei confronti delle loro famiglie, da queste venivano affidati a grandiosi e splendidi istituti specializzati.

Istituti costruiti e gestiti con amore e abnegazione cristiana, spesso da frati e sacerdoti nei luoghi più ameni delle periferie delle città. Istituti nei quali prestavano la loro opera insigni luminari nelle scienze psichiatriche, neurologiche e pedagogiche. In queste istituzioni si promettevano, per quei bambini, le migliori cure e la migliore assistenza, per affrontare e superare il loro handicap. Purtroppo i risultati non sono stati affatto quelli promessi o sperati.

Buona parte di questi bambini, entravano in questi istituti specializzati con una disabilità e ne uscivano adulti con maggiori e più gravi problemi. Strappati dalla loro famiglia e dal loro ambiente sociale, al primitivo problema si aggiungevano anche gravi disturbi psicologici che peggioravano la loro condizione e rendevano molto più problematica la gestione di questi soggetti all’interno della famiglia e della società.

In definitiva, un’enorme quantità di tempo, professionalità e denaro veniva utilizzato e speso per aggravare, e di molto, la primitiva disabilità. Anche perché “una famiglia (così come gli operatori di un’istituzione) tollera in misura ben superiore i disagi che concernono la sfera fisica rispetto a quelli che riguardano la sfera psichica e comportamentale.”

Si dirà che poche ore di asilo nido non si possono paragonare alle prolungate istituzionalizzazioni del passato.

Purtroppo, offuscati da quelli che sentiamo come bisogni imprescindibili di una moderna società, abbiamo difficoltà a guardare la realtà ed il tempo con gli occhi e con il cuore di un bambino.

E’ noto, infatti, che tanto più piccolo è l’essere umano, ma lo stesso principio vale per gli animali superiori, tanto più forti sono i legami di dipendenza affettiva dalle figure genitoriali, tanto più grande è la paura del distacco, della perdita e dell’abbandono. Ciò in quanto, queste figure fondamentali, sono per lui le uniche ancore di sicurezza, le uniche fonti di serenità e gioia.

Tanto più piccoli sono i bambini, tanto più grande è il bisogno di sentire i loro genitori vicini alle loro mani, presenti al loro sguardo, disponibili alla protezione e all’accoglienza. Perché tanto più piccolo è il bambino tanto più pauroso è ai suoi occhi il mondo estraneo alla sua famiglia e alla sua casa.

Una dimostrazione eclatante di questa paura verso tutto ciò che non è familiare l’ebbi molti anni fa.

Le mie figlie giocavano spesso con una bambina del condominio. Un giorno, questa bambina portò anche la sorellina Simona di quasi tre anni. A me, che avevo già tre figli, a me che amo i bambini e ho sempre avuto un ottimo rapporto con loro, sembrò naturale invitarla a guardare un album di associazioni logiche che avevo appena pubblicato, per fare divertire lei, ma anche per avere la conferma dell’età mentale per la quale avevo proposto l’album. Ricordo i suoi occhioni passare, in pochi secondi, dall’ansia, alla paura, ed infine al terrore, prima di scoppiare in un pianto dirotto. Immediatamente fui costretto a smettere il tentativo di coinvolgerla in questa attività.

Mi stupii della sua reazione anche perché accanto a lei vi era la sorella maggiore e le mie due figlie, ma mi stupii ancora di più quando, negli anni successivi, dovendo accompagnare e prendere da scuola le mie figlie e le due bambine dei vicini, mentre la sorella non aveva alcun problema a venire nella mia auto, Simona si rifiutò per diversi anni di farsi accompagnare da me.

Ero diventato ai suoi occhi il mostro da cui stare perennemente lontani. Furono sempre inutili i tentativi di rassicurarla portati avanti dalla madre e dalla sorella, io rimasi per lei l’uomo mostro. Troppo fragile Simona, troppo goffo e prematuro il mio intervento o troppo piccola la bambina per un approccio di questo genere da parte di un quasi sconosciuto?


Trascuriamo, inoltre, il fatto che tanto più il bambino è piccolo, tanto più il suo tempo soggettivo si dilata. Quelle che per noi sono soltanto poche ore di distacco, per il bambino possono rappresentare lunghe ore di paura, di attesa e quindi di sofferenza. D’altra parte basta vedere quello che succede nella scuola materna con bambini non di uno – due anni o di pochi mesi ma di tre - quattro anni. Nonostante per la loro età cronologica questi dovrebbero aver superato la paura dell’estraneo e quella del distacco e dell’abbandono, alcuni di loro, quelli il cui sviluppo psicoaffettivo non è adeguato all’età cronologica, dimostrano ancora con il pianto, con il malessere fisico, con il rifiuto di andare a scuola, la loro sofferenza a volte per mesi, se non ascoltati e capiti. Per Osterrieth “Bisogna ricordare tuttavia che il nocciolo della vita infantile, a questa età, è di ordine affettivo familiare, e che se il bambino trae grande vantaggio dalle attività regolate, a contatto con gli altri, la sua personalità in formazione ha altrettanto bisogno di solitudine, di tranquillità, e di attività autonoma”.

Per quanto riguarda gli anziani inseriti nei gerontocomi chiamati nei modi più dolci e poetici: “Villa Quiete”, “Residenza dei Pini”, “Casa di riposo Le betulle”,” Parco delle Rose.” Non credo siano molti quelli disposti a ringraziare figli, nipoti e amministratori, per aver permesso loro di trascorrere gli ultimi anni della loro vita tra queste splendide ville, che però ai loro occhi si rivelano per quello che sono: tristi e grigi gerontocomi, in compagnia di altri poveri infelici vecchietti. E sappiamo anche che a poco vale scegliere la villa più accogliente con il personale più qualificato.

Il secondo limite è dato dalla visione parcellizzata della realtà.

I servizi, tutti i servizi, per loro natura, hanno una visione molto parcellare di realtà complesse e articolate come sono le realtà del cuore umano. Spesso la cura dell’organo interessato, ad esempio un braccino paretico o un cervello non pienamente efficiente, fa dimenticare che dietro a questi organi interessati dalla patologia, vi è un bambino piccolo, con la fragilità di un Io ancora in formazione. Un bambino con le sue paure, le sue angosce, i suoi bisogni.

Dietro alla necessità di una donna di abortire vi è una donna che avrebbe bisogno di vicinanza e conforto e vi è un bambino che avrebbe voluto vivere. Accanto a un uomo che vuole scindere il suo contratto matrimoniale vi è l’altro coniuge che vuole lottare per preservarlo.

La visione parziale dei problemi porta i servizi ad effettuare frequentemente interventi poco coordinati che spesso, più che affrontare globalmente queste difficili realtà, danno risposte parziali le quali, in definitiva, complicano il problema stesso o ne fanno nascere altri.

Il terzo limite nasce dal reclutamento del personale.

Nei servizi in contatto con persone e quindi con notevoli implicazioni sul piano affettivo ed emotivo, ci si aspetterebbe un’attenta selezione del personale soprattutto per quanto riguarda le attitudini specifiche e la maturazione umana, da completare poi, naturalmente, con delle ottime capacità tecniche e professionali. Troppo spesso però le cose non procedono in questo modo. Insieme a persone tecnicamente preparate e umanamente impegnate e disponibili, si associa, sia nei servizi gestiti dal pubblico, sia in quelli organizzati dai privati, una marea di persone poco preparate, per nulla motivate e spesso, a loro volta, disturbate. Nella nostra attività professionale abbiamo incontrato molte di queste persone che non solo non erano in grado di dare aiuto agli altri ma che, a loro volta, avrebbero avuto bisogno di aiuto in quanto affetti da gravi disturbi nevrotici, caratteriali o addirittura da forme psicotiche.

Le cause di ciò sono ben note:

•    intanto raramente viene effettuata una selezione che tenga nel dovuto conto la presenza di disturbi psicologici o di abnormi caratteristiche di personalità;

•    anche quando questa selezione viene effettuata, giacché, proprio a causa del disagio affettivo nel quale vengono educati i bambini, gli adolescenti ed i giovani, il numero delle persone in qualche modo disturbate è in notevole aumento, la scelta diventa molto difficile e laboriosa;

•    l’assunzione nei servizi, sia pubblici che privati, è spesso pilotata da politici, sindacalisti, o comunque da persone che, per un motivo qualunque, hanno la possibilità di esercitare il loro potere. Queste persone considerano i servizi pubblici un loro pascolo esclusivo nel quale sistemare parenti, amici di partito o conoscenti. In tal modo prevale, in definitiva, la logica clientelare che inserisce, in attività estremamente delicate, senza una selezione che tenga conto non solo della struttura della personalità ma anche semplicemente del merito puramente professionale, persone non in grado di garantire il minimo di funzionalità dell’istituzione stessa.

Il quarto limite è consequenziale ai diritti sindacali.

Anche questo limite è insito nella logica stessa dei servizi. Gli operatori, come tutti i dipendenti, sono pagati per svolgere un dato lavoro ma hanno dei diritti sindacali che non possono essere sottovalutati o eliminati. Hanno diritto di lavorare un certo numero di ore e un certo numero di giorni la settimana e non di più e poi “staccare”, per andare ognuno nella propria casa e attendere alle varie personali occupazioni. Hanno diritto ad un certo numero di giorni di ferie e di permessi durante l’anno. Hanno diritto al trasferimento quando richiesto e se hanno i requisiti necessari. Hanno diritto di licenziarsi o di cambiare occupazione, e così via.

Questo significa che anche quando, nelle migliori delle ipotesi, viene inserito del personale perfettamente preparato e motivato, questo non ha e non può dare un legame affettivo stabile e continuativo ma saltuario, parziale e limitato nel tempo. Questo particolare non è insignificante perché è gravido di conseguenze. Se il bambino trova una persona particolarmente sensibile, affettuosa e vicina, le vorrà bene come ad una mamma o a un papà. Ma cosa succede quando questa persona dopo poco o molto tempo scompare? Come continuare a volere bene e riporre la propria fiducia sulle persone, se poi queste ti abbandonano? Non è assolutamente facile per un bambino capire, ma soprattutto accettare, che vi sono diritti sindacali e bisogni personali.

In definitiva, quando si pensa di potere sostituire, ad esempio, il nido familiare con il nido istituzionale, bisogna tenere in considerazione il fatto che, la presenza anche di personale altamente qualificato, al posto di una mamma, un papà o una nonna, non sarà in grado di dare al bambino qualcosa di più dell’ambiente familiare in quanto, questo personale, quasi sicuramente, sarà costretto a trascurare, per esigenze personali o gestionali, molte delle necessità del bambino, specie se piccolo.

 Il quinto limite deriva dalla tendenza all’autoalimentazione del servizio.

Se il servizio è modesto e occupa poco personale, la fama e la gratificazione per chi gestisce quel servizio sarà scarsa, ma anche la disponibilità occupazionale e di gestione del denaro sia pubblico sia privato sarà minima. Se un servizio è ampio, l’importanza e la fama per chi gestisce il servizio crescerà, come cresceranno anche le possibilità occupazionali ed il denaro da gestire.

Ciò significa che molte volte non è il bisogno che spinge a creare o ad ampliare un servizio, ma è il servizio che crea, stimola e amplia il bisogno.

Un esempio di ciò lo si ritrova nell’uso eccessivo di esami clinici e di interventi medici e chirurgici, non strettamente necessari, presenti nei servizi di ostetricia e ginecologia. Mentre nei paesi più poveri non si riesce a rendere operativo anche il monitoraggio più semplice e basilare della madre, dell’embrione e del feto, nei paesi più ricchi si moltiplicano le visite ginecologiche e gli esami che la donna in gravidanza “deve” effettuare. 

Alcuni di questi esami sono indispensabili, altri utili, molti, almeno per il bambino e per la madre, sono inutili o superflui. Se è sicuramente lodevole l’apporto dato dai servizi di ostetricia e ginecologia che hanno notevolmente diminuito i rischi e le conseguenze di patologie organiche, sia per i bambini sia per le loro madri, sempre di più negli ultimi anni, le madri sono spinte ad effettuare un numero crescente di esami clinici, ecografie, interventi diagnostici non sempre utili o strettamente necessari. La medicalizzazione di un evento fisiologico come la gravidanza si è sempre di più accentuata: ecografie, amniocentesi, esami genetici, episiotomie preventive, analgesie epidurali, parti cesarei. 

La grandiosità dell’evento della nascita viene così ridotto ad un insieme di pratiche di tipo medico e specialistico. La donna viene considerata un involucro che deve dare alla luce un bimbo perfetto. Si perde la naturalezza dell’evento. Come si perde il legame, la solidarietà ed il sostegno della comunità femminile.

A causa di tutti questi interventi la sensazione che si trasmette ai futuri genitori è che un figlio equivale a impegni notevoli, appuntamenti da prendere, file da fare, spese da sostenere, interventi chirurgici e medici da affrontare. Questo eccesso di visite, controlli, esami ed interventi chirurgici e medici, di fatto crea, nei genitori più ansiosi e fragili, una disposizione d’animo non sicuramente favorevole verso il nascituro, visto, ancor prima di venire al mondo, come fonte di sofferenze, impegni, problemi ed esborsi economici, piuttosto che come apportatore di gratificazione e gioia. La medicalizzazione se non la mercificazione di un evento fisiologico non è sicuramente il modo migliore per iniziare un rapporto.

Il mondo della produzione, a questo aggiunge i giudizi quasi sempre negativi sulla lavoratrice madre. Chi è la futura madre se non una donna che per capriccio o per imperizia mette in forse la sua carriera con una gravidanza, mentre nel contempo porta sconvolgimento al buon andamento dell’azienda, specie se piccola, privandola per diversi mesi dei suoi apporti lavorativi? Questo stimola le madri, più attente ai problemi del lavoro e della carriera, a continuare ad impegnarsi, se non fisicamente almeno psicologicamente, in favore delle ditte e degli enti per i quali danno la loro prestazione, mentre non riescono ad entrare in quell’intimo mondo particolare, necessario nell’attesa e nel rapporto con una nuova vita umana.

Il sesto limite nasce dagli effetti “domino” e “paradosso”.

Giacché per far funzionare uno o più servizi sono necessarie delle persone, a volte diverse centinaia di migliaia di persone, vi è il concreto rischio che per far funzionare al meglio un incarico se ne trascurino altri. Se una madre lascia il proprio bambino piccolo al nido, per andare a svolgere il lavoro di infermiera in ospedale, questa madre, da una parte richiede un servizio, dall’altra lo offre. A sua volta la o le donne che si occuperanno del bambino nelle ore nelle quali lei è impegnata in ospedale, sono costrette a trascurare altre persone per potere svolgere quest’attività, ad esempio sono costrette a trascurare la madre o il padre invalido o anziano. Questi, a loro volta, saranno affidati ad altre donne che hanno il compito di seguire persone invalide o anziane. Ma anche queste donne per svolgere questo servizio sono costrette a trascurare chi la pulizia della casa, chi il proprio marito ammalato, chi i propri figli.

Si innesca un effetto domino che lega tutte queste persone le quali, nel momento in cui danno una prestazione agli altri, sono costrette a chiedere ad altre persone, altri servigi che loro stessi avrebbero potuto eseguire forse meglio e con maggiori risultati positivi.

In questa situazione i servizi tendono ad ingigantirsi e si può arrivare all’effetto paradosso, meno frequente, ma altrettanto reale. Può succedere cioè che un’insegnante, molto occupata ed impegnata a svolgere nella scuola il proprio lavoro, tra lezioni, preparazione, riunioni, e attuazione di progetti specifici, sia talmente impegnata da avere bisogno, a sua volta, di una collega che aiuti il figlio o i figli nei compiti a casa. E così può capitare che un medico sia talmente oberato di lavoro che abbia bisogno di un collega per curare i propri figli.

Nel mondo economico l’effetto domino, non solo non porta conseguenze negative, ma permette, mediante la specializzazione, di migliorare e di rendere competitivi i prodotti. Se la mia specializzazione è quella di fare scarpe, è molto facile che riesca a produrne in gran quantità ad un prezzo competitivo.

Lo stesso purtroppo non avviene nel mondo affettivo. In questa realtà è fondamentale il rapporto ed il legame che si stabilisce o che si è stabilito tra la persona che dà un servizio e quella che lo riceve. Un bambino chiede, per il suo accudimento, non uno specialista, ad esempio un pedagogista o un puericultore, ma una persona ben definita con la quale ha instaurato un profondo legame affettivo e di fiducia: la propria madre, il proprio padre o al massimo i propri nonni.

Sono queste le persone in cui lui ripone assegnamento, ed è da queste e non da altre che accetta e cerca con piacere e gioia cure e attenzioni.

Lo stesso vale per gli ammalati specie se minori, come per gli anziani o i disabili. Pertanto, anche se il bambino, la persona ammalata, disabile o anziana, in mancanza dei propri familiari, stringendo i denti e facendo violenza su se stessa, riesce ad accettare l’aiuto, l’assistenza e cura di estranei, poiché quest’aiuto e questa assistenza sono vissute di malavoglia o controvoglia, non si ha l’effetto voluto. Spesso queste realtà si colorano di tristezza, risentimento, sfiducia e scarsa considerazione sia verso le persone che le privano delle loro attenzioni, sia verso la società che permette o peggio favorisce queste situazioni.

 

 

Tratto dal libro: "MONDO AFFETTIVO E MONDO ECONOMICO" DI Emidio Tribulato

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Insegnanti ed attività educative


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Figura fondamentale nell'educazione dei minori è l'insegnante, in quanto molto spesso è la prima figura d’adulto con cui il bambino stabilisce un rapporto dialogico importante al di fuori della famiglia. L'insegnante è, inoltre, l'adulto che più d’ogni altro, aiuta il bambino a rapportarsi ed integrarsi in maniera positiva ed efficace con i coetanei.

E' anche uno dei fondamentali attori nella trasmissione della cultura alle nuove generazioni. Dopo la famiglia, è anche il primo e principale adulto, con cui i minori possono approfondire e confrontare le idee e i concetti che man mano acquisiscono. L'insegnante, inoltre, aiuta e media il passaggio del minore dalla famiglia, alla società, al mondo del lavoro. La figura del maestro si affaccia nell'animo del bambino come immagine ideale di uomo e donna adulti e spesso vi permane, in senso positivo o negativo, per tutta la vita.

Ma perché avvenga tutto ciò sono necessarie alcune condizioni di base.

La prima è che gli insegnanti e la scuola nel suo complesso, riacquistino quell’autorevolezza che, come nelle altre agenzie educative sembra, dopo il ’68, andata perduta. Non è funzionale al suo scopo educativo e formativo una scuola nella quale sono i ragazzi a decidere se fare lezione o dedicarsi, con la scusa di assemblee, occupazioni, manifestazioni, scioperi, ecc. ad altre attività molto più amene, come il passeggiare nelle vie della città gridando insulti o occupare in pianta stabile bar, pub e villette di quartiere davanti ad una birra o fumando uno spinello.

A. Oliverio Ferraris riporta in un suo articolo il modo in cui una ragazzina con esperienze di droga e con una vita da “sballo” vede la scuola: “La scuola è una cosa che non mi costa fatica, anzi non costa fatica a nessuno di noi della classe: possiamo entrare quando ci pare, alle 9, alle 10…e se un giorno non ci va di andare a scuola non ci andiamo. Va sempre bene. Nessuno controlla. Dobbiamo controllarci da soli, dicono loro. Così ci interrogano quando decidiamo noi e sugli argomenti che vogliamo noi. I miei professori sono come i miei genitori, cercano di essere simpatici, quasi dei compagni, alcuni di loro parlano proprio come noi…” 

Non è funzionale al suo scopo educativo una scuola in cui si può entrare tranquillamente in ritardo senza che nulla succeda, ci si può drogare o si può spacciare droga senza che dirigenti, professori o bidelli si accorgano di nulla. Né svolge la sua funzione una scuola in cui la disciplina e l’ordine  riguardano solo i soggetti più educati, mentre per gli altri tutto è concesso e accettato in nome della libertà, della disponibilità e dell’accoglienza.

La seconda è che la scuola svolga il suo compito specifico senza accettare compiti e funzioni di altri educatori o, peggio, cercare di sostituirsi ad altre istituzioni. Gli insegnanti non possono essere dei genitori, come non possono essere nonni, zii o amici.

Il loro compito, come abbiamo detto, è molto ricco ed ampio ma non può avere, per sua natura, i risvolti affettivo - relazionali propri delle figure parentali, come non può avere il distacco educativo di un coetaneo amico.

Spesso la scuola negli ultimi decenni ha dato ai genitori l'illusione che questi potessero defilarsi, senza danno, dagli specifici impegni educativi e di cura. Gli insegnanti, infatti, dovrebbero affiancare i genitori e le famiglie nel compito educativo quando i minori hanno raggiunto una maturazione psicologica tale da potersi aprire, senza danno, a figure estranee al di fuori della famiglia. Per tale motivo la scuola non dovrebbe inserirsi nell'ambito educativo prima dei tre - quattro anni. Quando ciò non avviene per cui le attività educative al di fuori della famiglia iniziano troppo presto, si dà l'illusione alle famiglie ed alla società che personale più o meno qualificato, ma senza un legame affettivamente valido, solido e continuo con il bambino, possa sostituirsi al rapporto empatico che il bambino ha instaurato o ha bisogno di instaurare con i genitori e, soprattutto, con la madre.

Si dà la falsa illusione che un ambiente estraneo diventi affettivamente caldo e vicino al cuore dei bambini, nel momento in cui viene riempito di giocattoli, di belle immagini colorate e delle teorie pedagogiche e psicologiche più alla moda. Si pensa di dare una risposta efficace alla donna che lavora od  impegnata nella società, mentre in realtà si inizia a provocare, spesso senza volerlo, un'azione di estraniamento e di scollamento tra lei ed il suo bambino, tra quest'ultimo ed i suoi fratelli, nonni ed altri familiari. Ma soprattutto si dà inizio alla frattura tra l'Io del bambino e la realtà, la quale da sicura, stabile e affidabile, diventa ad un tratto aleatoria, fragile, paurosa e spesso drammatica. 

In altri casi, meno gravi di quelli descritti, la scuola cerca di sostituirsi all'impegno educativo e culturale delle famiglie prolungando a dismisura l'orario scolastico, con le attività di tempo pieno, con il doposcuola e altre attività.

Anche in questo caso la scuola "cerca di venire incontro alle esigenze delle famiglie e della società odierna", in realtà ancora una volta contribuisce a dare alle famiglie ed alla società, insieme a delle illusioni, delle nefaste conseguenze. E' come se dicesse: "Tu papà, tu mamma, non abbiate alcuna preoccupazione nei riguardi degli aspetti culturali di vostro figlio. Io, scuola, penserò a tutto. Non è necessario che voi genitori vi sediate accanto a lui per assisterlo nei compiti o nelle ricerche. Non è necessario spiegargli alcunché; io scuola, noi insegnanti baderemo a tutta la sua istruzione nel modo migliore possibile.”

Peccato che le conseguenze di questa politica non siano per niente le migliori possibili. La conoscenza, non filtrata e modellata dall'esperienza, dalla cultura e dalla personalità dei genitori appare al bambino estranea, asettica e fredda e quindi da dimenticare il più presto possibile.

Peccato che i processi d’apprendimento con questa politica, non si possano più collegare alla relazione affettiva e al dialogo tra genitori e figli.

Peccato che all'aumento notevole d’insegnanti, libri, strumenti educativi e culturali e ore d’impegno scolastico non vi sia, rispetto a qualche decennio fa, un aumento corrispondente di cultura di base, ma addirittura un calo di questa, per bambini della stessa età o della stessa classe.

A difesa della scuola bisogna però dire che questi comportamenti quasi mai nascono dal suo interno, ma vengono accettati e subiti da politiche sociali e scolastiche insensate, perché prive di valenza scientifica e pratica.

Abbiano affermato che l'educazione di un bambino non può prescindere dagli apporti provenienti da sessi diversi. La figura, la personalità, gli interessi, la visione del mondo, l'atteggiamento educativo che un uomo può offrire ad un minore è diverso e complementare rispetto a quello che può offrire una donna.

Sarebbe pertanto utile ed auspicabile che il minore incontrasse nella sua vita scolastica modelli maschili e femminili, portatori entrambi di caratteristiche peculiari e fondamentali al suo sviluppo. Purtroppo si è venuta a creare negli anni, soprattutto nelle classi materne, elementari e medie, una scuola quasi tutta al femminile. E ciò non può che essere limitativo per i minori. Anche T. Giani Gallino e A. Arace sono molto critici per quanto riguarda una scuola tutta al femminile: “ Certo la matematica o la storia, o l’arte di saper scrivere (esisterà ancora nella scuola italiana?) possono essere insegnati indifferentemente da un uomo o da una donna ciò che cambia profondamente è però la trasmissione del sapere, a seconda che si appartenga al genere femminile o maschile.” 

Di questo soffrono soprattutto i maschietti, i quali non vedono valorizzate le loro caratteristiche peculiari, come la vivacità motoria, la curiosità, l'inventiva meccanica, la ricerca scientifica ed il bisogno di gioco e di confronto anche fisico.

Spesso questa vivacità e bisogno di moto vengono visti come elemento di disturbo e quindi soffocati e puniti, mentre d'altra parte vengono valorizzate le maggiori prestazioni verbali e l'atteggiamento più "tranquillo e riflessivo" delle coetanee, che pertanto ottengono considerazione e voti migliori.

L'organizzazione scolastica dovrebbe tenere conto della diversità e dei bisogni dei due sessi.

P. Lombardo dice, infatti,: “L’esperienza mi consente di dire che, se si vuole rispettare la psicologia maschile e femminile è impossibile adottare un identico metodo d’insegnamento per i ragazzi e per le ragazze.”   Se lo scopo dell'educazione è di costruire e sviluppare tutte quelle qualità che serviranno alla persona adulta, i maschietti avrebbero bisogno di più ore in cui potersi muovere, agire, scoprire, inventare, costruire, conquistare, organizzare, dibattere. Le femminucce di più ore in cui poter dialogare, sognare, scrivere, disegnare, e imparare tutte le attività finalizzate alla comunicazione con i più piccoli, alle problematiche della maternità, alla cura della casa ed al benessere dei suoi abitanti, soprattutto dei più fragili. Ma ciò non viene attuato giacché è prevalso nell'educazione un modello uniforme per maschi e per femmine. L'immagine che si ha di una futura donna e di un futuro uomo è sostanzialmente uguale. L'educazione ad un futuro ruolo di padre o madre, di marito o di moglie viene quasi totalmente sconosciuta o sottovalutata. Diventa blasfemo allora, solo il pensare di proporre dei percorsi educativi differenziati.  Mentre d'altra parte viene esaltata e sottolineata la preparazione professionale, vista come la sola che possa dare un apporto economico alla società. 

L'organizzazione scolastica dovrebbe tenere conto dei bisogni psicologici delle varie età.

Ogni età ha delle necessità, dei tempi d’attenzione e delle capacità d’apprendimento particolari. Purtroppo non si tiene conto di questi ogni qualvolta l'attività scolastica inizia ad un'età precoce, le ore scolastiche sono eccessive in quanto strutturate per venire incontro alle “esigenze” dei genitori che lavorano e quando non vengono intervallate attività di studio con altre di tipo motorio o libere.

E’ sicuramente un impegno ed un traguardo lodevole ed è segno di progresso, il fatto che la società e i genitori diano la possibilità ai giovani di frequentare la scuola fino a raggiungere le più alte mete: la laurea o addirittura una o più specializzazioni, ma non ci appare di alcuna utilità nei confronti della cultura e del vivere sociale il fatto che dei giovani, demotivati e annoiati rispetto ai contenuti culturali, insofferenti nei confronti degli insegnanti, delle regole e della disciplina, si trascinino fino a quasi trent’anni nelle aule scolastiche fintantoché, per anzianità, non ottengono il fatidico pezzo di carta, L’allontanarli per decenni dalla vita vera, dal lavoro, dagli impegni familiari per farli vivere in un limbo, improduttivo per loro, ma anche per la società, ci appare notevolmente diseducativo. Quando la scuola e l’istruzione non sono obbligo ma opportunità data dai genitori e dalla società il loro valore viene maggiormente apprezzato, se, come spesso succede adesso, sono solo un mezzo per trascorrere, con la scusa dello studio, belle giornate e interessanti serate tra musica, spinelli e sesso, divertendosi in compagnia di amici. Allora la scuola diventa un deleterio luna park, una scusa per allontanare il più possibile ogni impegno e responsabilità.

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

Scuola materna ed asilo nido

 

E’ indubbia l’utilità della scuola materna se questa viene ad inserirsi in un’età ideale: tre - quattro anni, in cui il bambino, normalmente, è pronto ad aprirsi a persone, insegnanti ed altri bambini, che sono al di fuori della sua famiglia, senza la presenza di un genitore o di un familiare. A quell’età il bambino dovrebbe essere maturo, per uscire dal suo nido familiare, per cercare e accogliere nuovi stimoli alla socializzazione, nuovi rapporti d’amicizia ed una massa maggiore d’elementi culturali che lo possono arricchire ad aiutare nella sua crescita. La scuola materna dà al bambino la possibilità di socializzare con adulti che non conosce, ma con cui impara presto a dialogare e con cui avrà la possibilità di instaurare un rapporto affettivo e d’amore, diverso e complementare rispetto a quello genitoriale. Impara a vivere ed ad incontrarsi con altri bambini sconosciuti, diversi dai suoi parenti e dai suoi fratellini, con cui può stabilire rapporti d’amicizia, dialogo e collaborazione o con cui può imparare a difendersi ed a limitare gli elementi espansivi del proprio Io.

Abbiamo detto che questo è possibile normalmente ad un'età compresa tra i tre - quattro anni. Questo margine è dovuto al fatto che l’età cronologica non sempre segue lo sviluppo psicologico del bambino. Vi può essere, infatti, fisiologicamente un diverso livello nella maturazione affettiva tra bambini della stessa età, come vi può essere la presenza di disturbi, e difficoltà relazionali che possono ritardare la maturazione psicologica. Possiamo allora dire che il bambino è pronto ad inserirsi nella scuola materna quando:

1.    lo vediamo sereno, nei rapporti con se stesso e con gli altri (genitori, fratelli, sorelle, nonni, cugini e compagni), con i quali riesce a giocare senza molti problemi e con cui non ha paura di instaurare relazioni di dialogo;

2.    ha conquistato lo spazio fisico e psicologico attorno a lui. Non ha paura di spostarsi, non solo nella sua stanza ma da una stanza all’altra della casa, così come in quella dei nonni e degli zii. E' capace inoltre di restare gioiosamente e serenamente per qualche ora in ambienti per lui non abituali, come le case dei compagni di giochi;

3.    ha conquistato e superato quasi totalmente il rapporto con gli oggetti con cui era particolarmente legato: la sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto, non sono più oggetti di cui non può fare a meno, può accettare e accetta con piacere, per qualche ora altri oggetti per giocare, con cui alimentarsi o adempiere alle funzioni fisiologiche.

Se questo non è avvenuto, l’inserire il bambino nella scuola materna o nell’asilo nido, diventa un trauma ed una forzatura che potrebbe portarlo a regredire a stadi precedenti in alcuni o in tutti i settori evolutivi, impedendogli una normale crescita affettiva e relazionale.

Non bisogna pertanto sottovalutare i campanelli d’allarme che i bambini istintivamente lanciano in queste occasioni. Alcuni di questi sono molto chiari ed espliciti come il pianto o il rifiuto di andare a scuola. Altri hanno bisogno di un'attenzione e valutazione maggiore. La regressione nell’autonomia e nel linguaggio con il ritorno a fasi che aveva già conquistato, la sofferenza espressa attraverso sintomi somatici come il dolore addominale, il vomito, debbono costituire per noi un chiaro campanello d’allarme e farci riflettere sulla sua reale situazione interiore. Solo se riusciamo a ben interpretare questi segnali, possiamo capire se c’è o no quella maturità richiesta per l’inserimento e quindi comportarci di conseguenza. La corretta lettura di questi segnali oggi è resa più difficile dalle “necessità” lavorative e sociali che ci portano a sottovalutare ampiamente il disagio dei bambini

Le cause delle difficoltà d’inserimento possono essere diverse. Spesso è evidente un eccessivo attaccamento ai suoi genitori o ad uno di essi con paure di perdita e d’abbandono. In questi casi solo il proprio ambiente familiare diventa rassicurante.

In altri casi può essere presente un ritardo nella maturazione affettiva, oppure uno scarso legame con l’insegnante, un eccesso di frustrazioni durante i primi giorni di frequenza della scuola, l’aggressività da parte degli altri bambini non controllata efficacemente dal docente, la scarsa attenzione ai suoi bisogni fisici e affettivi.

 

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

Attività scolastiche ed extra scolastiche



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Lo studio è sicuramente un elemento importante per la crescita dell’essere umano, in quanto gli elementi culturali che la scuola fornisce arricchiscono i piccoli dell’uomo di una gran quantità d’informazioni importanti in una moderna società postindustriale. Pur tuttavia non bisogna assolutamente sopravvalutare l’apporto della scuola nella formazione in quanto ciò potrebbe comportare un carico d’impegni, tensioni, ansie e paure nocive per lo sviluppo sereno della personalità.

I bambini hanno bisogno di impegnare il loro tempo anche in altre attività, in modo da poter liberare la fantasia, accrescere la creatività e dar sfogo ai loro bisogni relazionali. È molto importante, quindi, organizzare le ore pomeridiane in modo da poter equilibrare i due momenti, quello scolastico e quello ricreativo, così da riservare un momento della giornata ad altre attività libere: giochi con i compagni, disegno, lettura, sport, attività domestiche, etc.

Dedicare allo studio un lasso di tempo eccessivo non è mai produttivo sia perché si costringono i bambini ad una immobilità che non è fisiologica, sia perché l’interesse e l'attenzione per le materie studiate comincia a scemare velocemente, quindi i risultati ottenuti in molte ore non saranno superiori a quelli ottenuti in un tempo molto più ristretto. È molto più produttivo studiare bene ma per poco tempo, che studiare a lungo ma distrattamente. Tra l’altro la possibilità di potersi dedicare a ciò che più piace è un ottimo incentivo per utilizzare al meglio le ore di studio.

La socializzazione

 





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La socializzazione con i coetanei, con gli insegnanti e gli estranei, crea numerose problematiche che non sempre vengono affrontate correttamente.

Ad esempio spesso non si tiene conto che la socializzazione nasce dall’interno del bambino e non dall’esterno. É nel suo animo, è nella sua mente che stanno i presupposti affinché l’Io del bambino accolga gli altri, li accetti, li cerchi e desideri, con loro instauri un dialogo efficace.

Nei processi di socializzazione entrano in gioco varie componenti: l’età, la maturità affettiva, la situazione psicologica.

L’età

La socializzazione avviene attraverso varie tappe. La prima è quella che permette al bambino di stare bene con se stesso e con la propria madre. Il rapporto con la madre è il primo basilare pilastro dal quale possono partire gli altri momenti di socializzazione. Solo se il rapporto e la comunicazione con la figura materna è stato positivo e creativo, il bambino si aprirà al padre e poi, successivamente ma gradualmente, alle altre figure: fratelli, nonni, zii, amici, compagni di scuola, insegnanti, estranei.

 

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Se il rapporto con la madre ed il padre presuppone un’età mentale di pochi giorni, il rapporto con i nonni, i fratelli e gli zii presuppone un’età mentale di qualche mese. Quello con i cugini o amici con i quali vi è una frequentazione molto intensa, necessita di circa due – tre anni. Quello con i compagni di una scuola materna almeno tre - quattro anni. Quello con i compagni di scuola elementare almeno cinque – sei anni di età cronologica o mentale.

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Non sempre questi limiti riguardanti l’età vengono rispettati. Spesso viene consigliato l’inserimento in scuola materna a bambini che ancora avrebbero bisogno del caldo nido delle braccia materne o della protezione della loro casa. Spesso si inseriscono bambini ritardati nella scuola elementare quando ancora avrebbero bisogno di spazi liberi e gioiosi come quelli presenti nelle scuole materne. In tal modo, non solo non viene conquistato nulla sul piano della socializzazione, ma il disagio psicologico che queste situazioni comportano limita di molto anche la possibilità di acquisire elementi cognitivi (linguaggio, autonomia, sviluppo logico e della percezione, pregrafismo ecc.), rendendo vano ogni tentativo volto all’apprendimento.

La serenità interiore.

Se l’età mentale è adeguata e l’io del bambino è maturo e sereno, egli coglierà ogni occasione per dialogare, giocare, collaborare, scambiare e legarsi affettivamente agli altri. Se l’io del bambino è immaturo, spaventato o fragile,  gli altri coetanei e gli ambienti sconosciuti spesso rappresentano per lui solo minaccia, limitazione, disturbo, inquietudine ed ansia. 

È indispensabile in questi casi un attento esame del minore teso a valutare l’impatto con una realtà nuova e diversa,  come può essere un’aula scolastica, con figure di adulti e coetanei con cui non si è instaurato né un legame affettivo, né un rapporto di fiducia.

Bisogna valutare pertanto:

1.    il grado di serenità del bambino in tutte le occasioni della vita quotidiana;

2.    l’avere o no conquistato lo spazio fisico e psicologico attorno a lui. Segnali positivi si hanno quando il bambino non ha paura di spostarsi non solo nella sua stanza ma da una stanza all’altra della casa, e non teme di  restare nella casa dei nonni, degli zii, e degli amici o compagni di gioco, con i quali si intrattiene piacevolmente senza problemi;

3.    altri segnali positivi sono dati dal superamento del legame con gli oggetti con i quali vi è un particolare attaccamento. La sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto, non sono più cose di cui non può fare a meno. Può accettare e accetta con piacere, per qualche ora altri oggetti per giocare, altri oggetti con cui alimentarsi o adempiere alle funzioni fisiologiche.

Se questi segnali non sono evidenti, l’inserire il bambino disabile in un ambito istituzionale: asilo nido, scuola materna o scuola elementare diventa un trauma ed una forzatura che potrebbe portarlo a regredire a stadi precedenti in alcuni o in tutti i settori evolutivi, impedendogli una normale crescita affettiva e relazionale.

I campanelli d’allarme che, in queste situazioni di disagio, i bambini lanciano sono abbastanza precisi: il pianto, la chiusura, la tristezza, la malinconia, il rifiuto di andare a scuola, i sintomi somatici (cefalea, vomito, disturbi gastrointestinali). Ebbene questi campanelli d’allarme devono essere prontamente riconosciuti e accolti.

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Purtroppo, non sempre questo avviene, in quanto è ampiamente sopravvalutato l’apporto scolastico nei bambini disabili rispetto alla sofferenza subita. Conseguentemente si ottiene poco o nulla sul piano della crescita didattica ed intellettiva, mentre nel contempo si aggiunge all’handicap organico anche quello psicologico che fa peggiorare di molto il futuro relazionale e sociale di questi minori.

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