INFANZIA E ADOLESCENZA

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Credibly benchmark worldwide applications before a plug play processes dramatically.

Integrazione scolastica del bambino disabile

 

 

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L’inserimento di bambini che presentano un qualche problema psicologico, organico o genetico nella scuola si è rivelato fin dall’inizio un progetto ambizioso. Ambizioso a causa delle enormi difficoltà che le diverse tipologie di handicap procurano a tutti gli operatori, anche ai più specializzati e preparati.

Ambizioso in quanto, un buon inserimento, per i complessi contenuti umani e civili che comporta, presuppone una crescita educativa ed una maturazione di tutte le componenti scolastiche: dirigenti, personale ausiliario, insegnanti e alunni "normali".

Ciò presuppone un impegno totale e massiccio, competenze specifiche, dedizione, studio e aggiornamento da parte dei vari operatori del settore. Pertanto, questo lavoro non può essere delegato alla sola figura dell’insegnante di sostegno la quale, sebbene abbia una sua preparazione specifica, deve potersi inserire in un gruppo operativo di cui fanno parte il dirigente scolastico (con le sue capacità e possibilità gestionali e di coordinamento degli interventi), gli insegnanti curriculari, l’équipe medico-psico-pedagogica della scuola, i genitori, ma anche gli altri servizi sociali e di volontariato presenti nel territorio.

É da questo gruppo operativo che deve scaturire un progetto educativo realistico ed incisivo, verificabile ed aggiornabile continuamente. Tale progetto, partendo da un’attenta e minuziosa osservazione della realtà familiare e sociale del bambino, deve contenere le linee operative, gli strumenti ed i tempi di attuazione.

Quale collaborazione fra gli operatori?

 

Quando si parla di un problema difficile da risolvere, come in realtà  è l’inserimento di un bambino disabile nella scuola, si parla molto spesso di collaborazione. Collaborazione tra insegnante di sostegno e insegnante curriculare; tra insegnanti ed équipe; tra operatori e genitori.

Ma che significa collaborare?  Come e quando è possibile tale collaborazione?

Sappiamo che questa disponibilità a lavorare insieme aiutandosi e sostenendosi a vicenda, in  realtà nasce non dall’esterno, ma dentro di noi.

É dentro di noi, infatti, che sboccia e a volte diventa reale e concreta,  mentre altre volte abortisce o viene soffocata dalla gelosia, dall’invidia o dall’aggressività nascosta o palese.

La capacità alla collaborazione è, infatti, legata alle esperienze fondamentali della nostra vita affettiva e relazionale. Le esperienze positive che nascono da momenti di amore, di gioia, di disponibilità all’interno dei primi affetti familiari,  modellano la nostra personalità di base, così che questa è disponibile ad aprirsi, sostenere, aiutare e capire l’altro.

Oppure, al contrario, sono i modelli genitoriali improntati ad assenza, freddezza e chiusura, le carenze affettive e i grandi, ma anche i piccoli e ripetuti traumi infantili che accentuano le ansie, le paure e le difese e quindi ci spingono a chiuderci all’altro, a difenderci in maniera eccessiva o ad aggredire chi ci sta accanto.

Nonostante ciò, conosciamo la possibilità di sviluppare  dentro di noi e accanto a noi la disponibilità alla collaborazione e quindi conosciamo la strada per renderla concreta e operante mediante modalità di rapporto che prima che esternamente devono essere vissute interiormente.

Dinamiche dell’insegnante di classe e di sostegno.

 

Per quanto riguarda le dinamiche degli insegnanti di classe, il rifiuto conscio o inconscio di occuparsi del bambino disabile nasce, a volte, dalla sensazione che far effettuare delle attività molto semplici e limitate sia degradante: “Io che mi sono laureata in matematica con ottimi voti e che ho insegnato per anni teoremi complessi ed equazioni, non posso mettermi a giocare con questa bambina con trenini e aeroplanini per far capire la corrispondenza delle quantità come farebbe un’insegnante di scuola materna”. “Io che sono uno studioso di Dante, io che ho scritto un saggio sulla sua vita non posso mettermi ad insegnare le vocali a questo bambino: sarebbe stupido, inutile e degradante.”

In altri insegnanti prevale invece la paura di non potersi occupare bene del problema reputandolo al di sopra delle proprie possibilità: “Io sono solo un’insegnante di lettere; non conosco nulla delle patologie e dei problemi dei bambini con handicap; non so, pertanto, cosa fare e come fare”.

Altre volte prevalgono sulla ragione i moti istintivi e le paure irrazionali. Si cede in questo modo alla istintiva ancestrale sensazione di rifiuto che ci coglie davanti a persone disabili. “Non posso farci niente ma quando vedo quel bambino mi sento male.”

Le conseguenze di tutto ciò sono estremamente negative: a quel bambino mancherà l’apporto di uno o più insegnanti curriculari e sarà molto limitata la collaborazione di questi sia con l’insegnante di sostegno che con i genitori. In realtà a quel bambino disabile, che dovrebbe avere di più, viene concesso meno che agli altri suoi coetanei.

Per quanto riguarda l’insegnante di sostegno, le dinamiche negative nascono quando l’amore e la passione per il bambino in difficoltà lo coinvolgono eccessivamente.

In questi casi egli avverte il bambino disabile che gli è stato affidato come una cosa propria o come un figlio con problemi da difendere con le unghie e con i denti, da chi non sente e pensa come lui; un figlio da tutelare da chi non se ne occupa con la stessa passione e dedizione;  un figlio da preservare da chi non ha le stesse capacità.

Ogni atteggiamento di rifiuto, di indifferenza o di disimpegno da parte della scuola o degli altri insegnanti viene vissuto in modo eccessivo ed abnorme. Tutto ciò impedisce di capire i problemi e le ragioni degli altri e spinge ad una lotta senza quartiere o ad una chiusura, in quanto gli altri “non capiscono, non amano, non vogliono.”

É più rara, ma è presente, la situazione opposta e cioè l’alleanza con gli altri insegnanti curriculari contro il bambino visto come troppo disturbato, troppo grave, con troppi problemi per potersene occupare in maniera proficua.

Frequente è inoltre la gelosia nei confronti dei genitori “che non capiscono, non collaborano, non si attivano sufficientemente.”  “ Io mi impegno e lotto fino allo spasimo per vostro figlio, ma voi non fate nulla per lui, anzi distruggete il mio lavoro.”

Quali gli atteggiamenti più utili?

Il primo atteggiamento interiore è, o dovrebbe essere, comune a tutti gli operatori: psicologici, medici, insegnanti ecc.. Per tutti dovrebbe valere la regola fondamentale che è giusto e sacrosanto capire, aiutare, sostenere, proteggere, la persona che ci è stata affidata o che si è affidata a noi ma mai identificarsi con essa; mai coinvolgersi e vivere come propri i suoi problemi; mai assumere un ruolo non proprio: di padre, madre, fratello, sorella, amico. É indispensabile, infatti, restare  sereni, equilibrati e liberi, nel rapporto con ogni persona a cui diamo il nostro apporto professionale.

Nei confronti di tutte le forze che identifichiamo attorno a noi e che potrebbero essere utili per i nostri obiettivi, come gli altri insegnanti e operatori, è bene assumere un atteggiamento intelligentemente affettuoso.

 

 In tal modo potremo identificare, scoprire e poi stimolare, valorizzare e aiutare a crescere,  tutti quegli elementi positivi che si trovano nell’animo, nella cultura e nell’intelligenza di ogni persona con cui ci saremo trovati a collaborare.

Possiamo imparare a porci nei confronti di chi dovrebbe o potrebbe aiutarci, non come chi giudica, chiede e pretende, ma come colui che comprende e dirime le altrui difficoltà, scopre e valorizza le altrui capacità. E quindi non io che giudico te, non io che chiedo a te, non io che pretendo da te, ma io che aiuto te a capire e valorizzare le tue capacità. Io che aiuto te a scoprire gli strumenti più idonei ed i mezzi più opportuni per fare bene il tuo e nostro lavoro.

Il primo ostacolo  che gli insegnanti sono costretti a  superare è certamente dovuto alla diversa formazione. Per un grave errore del nostro Ministero della Pubblica Istruzione, che solo con le nuove leggi si sta cercando di correggere, solo gli insegnanti di sostegno avevano l’obbligo di effettuare un corso di specializzazione che li avrebbe dovuto rendere non solo più idonei ad affrontare i problemi dell’handicap, ma anche più sensibili verso questa realtà.

Questa scelta operativa ha reso molto difficile non solo la collaborazione ma anche un proficuo dialogo tra le due categorie di insegnanti, per cui è facile trovare, nonostante la legge dica il contrario, una netta divisione di ruoli: “ Io mi occupo dei miei bambini normali“, dicono gli insegnanti curriculari, “tu occupati del tuo bambino handicappato” .

E a nulla valgono leggi, circolari o reprimenda dei superiori.

A questo grave peccato originale di impostazione bisogna che siano gli insegnanti stessi, coordinati dai dirigenti scolastici, a  porre rimedio mediante una serie di attività comuni come la ricerca e l’aggiornamento; come l’osservazione, la programmazione e la valutazione di ogni bambino  con problemi. Infine ancora insieme, con entusiasmo, creatività e fantasia nel momento dell’attuazione del programma educativo concordato e nella verifica e valutazione dei risultati ottenuti.

Disabilità e famiglia

 

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La famiglia in cui è presente  un bambino con problemi, molto spesso, al momento in cui viene coinvolta da questo evento, non è diversa dalle altre.

Certamente il vivere quotidianamente questa realtà così difficile e a volte drammatica, sottopone questa famiglia a prove e difficoltà non indifferenti, sia di carattere psicologico, che economico e di vita pratica.

Le modalità  del vissuto e le conseguenze che ne hanno i singoli componenti: genitori, altri figli e  familiari, dipendono da molti fattori:

•    le caratteristiche psicologiche di ognuno dei coniugi e degli altri familiari;

•    le dinamiche relazionali tra loro, con gli altri figli e con i parenti;

•    le possibilità economiche;

•    le caratteristiche del tessuto sociale;

•    la presenza di una rete di operatori e servizi efficienti ed efficaci.

Non è infatti uguale il modo in cui viene affrontato un evento stressante: vi sono caratteristiche di personalità che possono portare l’individuo a viverlo con serenità, coraggio e determinazione oppure a struggersi dal dolore fino a fuggire con disperazione da esso, ignorandolo o facendo finta che non sia mai successo.

Ciò dipende in parte dall’ottimismo o dal pessimismo di base, che ognuno di noi si porta dentro, ma soprattutto dipende dal substrato culturale in cui siamo stati educati: substrato emarginante o accogliente rispetto alla malattia e alla diversità.

É inoltre determinante l’esistenza o non di problemi personali di tipo nevrotico, e quindi la presenza di conflitti interiori non risolti che possono portare ad ansie eccessive, a paure o a modi incongrui nelle modalità di approccio al problema.

Il dialogo esistente nella vita familiare, la presenza di un amore profondo, l’aiuto e l’assistenza reciproca, un rispettoso e caldo rapporto tra i vari membri della rete affettiva, fanno da presupposto positivo all’accoglienza e alla gestione positiva del bambino disabile.

Al contrario la scarsità di dialogo, il distacco o la conflittualità coniugale, la mancanza di una rete familiare efficace renderanno difficili e più problematiche l’accoglienza e la gestione.

In questi casi sono frequenti  le accuse reciproche: “É colpa tua, non sei stata attenta; hai fatto delle cose che non dovevi fare.” E viceversa : “Non hai fatto ciò che dovevi fare…Hai una tara ereditaria di cui dovevi tenere conto, sei un incosciente!”

Le accuse possono essere rivolte dai genitori a se stessi: ”É colpa nostra dovevamo comportarci in altro modo e non l’abbiamo fatto… Non dovevamo avere questo figlio data la nostra età e invece l’abbiamo voluto.” E così via.

Sono frequenti, inoltre, le riflessioni e le accuse agli altri o al destino, del tipo: “É qualcosa che meritavamo... Qualcuno voleva il nostro male… Qualcuno era invidioso di quello che abbiamo, della felicità della nostra famiglia.”

O alla divinità: “Dio ci ha voluto punire... Ci vuole mettere alla prova... Ci ha abbandonato.”

In questi casi sono facili le depressioni e le ansie individuali, l’accentuarsi dei dissapori coniugali, con conseguente talora abbandono da parte di uno dei due, della famiglia e quindi del problema.

    Fondamentali sono, inoltre, i rapporti parentali e sociali che questa famiglia  ha: se adeguati e positivi possono aiutare ad affrontare con serenità e ottimismo questo vissuto; se negativi, scarsi o assenti possono accentuare e aggravare il problema con i loro errati comportamenti, interventi ed atteggiamenti. La conflittualità tra i coniugi, le separazioni, i divorzi, così frequenti nella nostra società occidentale, complicano di molto la gestione di un bambino che, per le sue caratteristiche, avrebbe bisogno di un ambiente sereno, equilibrato e stabile.

Influenza sugli altri fratelli.

L’influenza che può avere un bambino con disabilità sugli altri fratelli, dipende da come viene vissuta questa realtà dai genitori, ma anche da come viene fatta vivere ai figli.

Se la presenza di un bambino con difficoltà viene avvertita con serenità e ottimismo e se l’impegno maggiore per la sua educazione non preclude, ma anzi rafforza, il legame della coppia e della famiglia, nessuna paura, il bambino disabile non potrà che avere un effetto positivo sia sui genitori sia sugli altri figli.

L’apporto degli operatori.

 

Il modo con cui un bambino disabile sarà accolto, aiutato, integrato nella sua famiglia e il modo con cui questa saprà trovare delle strategie di cambiamento per vivere serenamente e con grande impegno questo evento difficile, certamente dipende da fattori individuali, relazionali, sociali ed economici, ma dipende anche molto dagli operatori che questa famiglia incontrerà nella sua strada. Affrontare nel modo più opportuno questa realtà, che non é certamente lieta, questo avvenimento che non è certamente facile, dipende in gran parte dal modo in cui gli operatori: medici, psicologi, pedagogisti, infermieri, assistenti sociali, insegnanti, amministrativi si porranno nei confronti di questa famiglia.

La loro preparazione e capacità nel dare risposte adeguate e psicologicamente valide, la loro sensibilità e disponibilità sono fondamentali per il benessere psicologico, relazionale e sociale dei genitori e della famiglia del disabile nel suo insieme.

É fondamentale infatti il modo di porsi nei loro confronti  fin dal momento in cui il problema viene evidenziato, anzi soprattutto nel momento in cui viene evidenziato.

Sarà sicuramente più traumatizzante l’impatto psicologico se, ad esempio, un pediatra, un’ostetrica o il medico di famiglia,  si saranno limitati soltanto a sottolineare le  difficoltà che avrà quel bambino invece di  indicare il modo migliore per affrontare il problema, una strada da percorrere con il loro aiuto, un programma di recupero, una speranza reale e concreta.

A questo riguardo ricordo ciò che mi riferì la mamma di un bambino Down: “Dopo qualche ora dalla nascita del mio bambino, mentre ancora stavo cercando di riprendermi da questo evento così difficile, mi si avvicinò un’ostetrica in compagnia di un dottore. Mi dissero che quello che era nato era un bambino Down. Io allora ero molto giovane e non sapevo neanche che cosa significasse questo termine. Mi spiegarono che mio figlio sarebbe stato un deficiente e poi, forse per consolarmi, aggiunsero che sarebbe stato così deficiente che non si sarebbe neanche accorto del suo handicap. E per finire mi spiegarono che sarebbe stato e sarebbe vissuto come un vegetale.

 

Quando ritornai a casa non sapevo cosa fare, pertanto non facevo niente; lo guardavo soltanto, mentre stava sdraiato nel suo lettino.”

 A questo punto del racconto, spinto dal mio viziaccio di sdrammatizzare con qualche battuta di spirito, la interruppi chiedendo: “Signora, ma cosa aspettava? Aspettava forse che al suo bambino spuntassero le foglioline dalle braccia, per darsi da fare?”

“Infatti, continuò la mamma, per diversi mesi non feci nulla, aspettavo non so che cosa. Ad un certo punto mi accorsi con mia grande meraviglia che quello che mi era stato descritto come un bambino - vegetale, si muoveva come gli altri bambini, mi sorrideva come ogni bambino sorride alla sua mamma, mi accarezzava il viso quando lo cambiavo come fanno i bambini veri. Solo allora, ma già erano passati diversi mesi, mi diedi da fare e cominciai a stimolarlo e a parlargli come fanno tutte le mamme con i loro piccoli.”

Questo bambino a cui era stata prospettata una vita da vegetale, stimolato adeguatamente, andò a scuola a sette anni che già sapeva leggere e scrivere. A nove anni effettuava moltiplicazioni e divisioni. Attualmente frequenta le scuole superiori.

Pensando a questo argomento non potrò mai dimenticare il volto di una maestra che timidamente mi si era avvicinata mentre visitavo un altro bambino, affinché dessi un’occhiata alla bambina più grave che si trovava proprio nella sua classe. Era una bambina con tetraparesi spastica. Il suo corpo non rispondeva alla sua mente se non con movimenti scomposti e sgraziati. Non parlava, si sbavava, non era in grado di deambulare ed i movimenti delle mani erano notevolmente compromessi dalla spasticità e dai riflessi patologici. Mi riferì con le lacrime agli occhi la storia di questa bambina la quale, l’anno prima, era stata bocciata in quanto non era in grado, non solo di leggere o scrivere ma neanche di parlare. “Io- mi riferì la maestra – l’ho avuta quest’anno nella mia classe e rappresenta il mio quotidiano cruccio in quanto non so come poterla aiutare. Spesso la notte piango pensando a questa mia incapacità.”

Il successivo incontro lo dedicammo a questa bambina. Fu subito chiaro che aveva un’intelligenza normale se non superiore agli altri bambini. Ai test di performance dava delle risposte inequivocabili. Quando riferimmo il risultato dei test alla maestra questa aggiunse: “Mi deve scusare dottore, forse è una mia impressione ma, mentre spiego e scrivo alla lavagna, dai suoi movimenti scomposti e dai mugolii che emette ho come l’impressione che capisca quello che scrivo. È come se reagisse per cercare di comunicare, a modo suo, la sua approvazione o disapprovazione.”

Non fu difficile con un piccolo espediente (domande a scelta multipla) capire che la bambina sapeva leggere perfettamente. Quando per l’ultima volta vedemmo la bambina per un controllo, stava per completare la scuola media. Durante l’ultima verifica la bambina, ormai ragazza, seguiva regolarmente il programma della classe e ci stupì per le sue capacità nella matematica, tanto che noi, per i nostri scarsi, lontani ricordi di questa materia non riuscivamo più a seguirla nelle complesse operazioni che effettuava.

I motivi per cui ho voluto riportare questo episodio sono diversi:

1.    spesso le persone comuni ma purtroppo anche gli operatori, rimangono come paralizzati  ed incapaci di agire con intelligenza ed acume, bloccati dalle prime impressioni o da quanto letto o studiato in vecchi libri di scuola. “Se io ho letto, ho saputo, ho studiato che è così deve essere così.”  Vengono così a tramandarsi per generazioni antichi pregiudizi. Inoltre, il che è peggio, questi operatori tendono anche a trasmettere e a trasferire agli altri i loro limiti, le loro incapacità, i loro pregiudizi, le loro false idee;

2.    spesso l’apparenza inganna. Molti bambini apparentemente gravi hanno notevoli capacità che non si riesce a far emergere a causa dei nostri limiti o per le scarse o limitate conoscenze;

3.    molte volte viene riferito al bambino un problema che è invece nostro e che non riusciamo a risolvere adeguatamente.

Da quanto abbiamo detto è evidente che l’intelligenza degli operatori, il loro intuito, la loro sensibilità, la loro capacità professionale, ma anche la loro apertura mentale saranno determinanti per il minore ma anche per la sua famiglia e per la società.

É necessario, infatti, che noi operatori sappiamo coniugare  il realismo alla speranza, l’obiettività all’ottimismo, la programmazione più precisa ad una grande  duttilità.

Gli operatori che la famiglia incontra sono numerosi: si inizia molto spesso con gli infermieri e medici di un  reparto di ostetricia. Si continua poi con il pediatra e il personale dei reparti di neuropsichiatria infantile e quindi con gli operatori addetti alla  riabilitazione. Quando il bambino sarà più grande, entrerà in scena anche il personale scolastico o quello dei centri di assistenza. Per non parlare degli impiegati ai vari sportelli degli uffici che gradualmente saranno contattati e quindi coinvolti nel bene e nel male da questa famiglia.

Questo personale, quindi, deve sviluppare e dimostrare notevoli capacità se vuole essere di valido aiuto.

 

 Ad esempio esso deve saper vedere il problema in modo globale: non soltanto l’organo o la funzione interessata ma tutto il bambino. Non soltanto il bambino ma anche la sua famiglia. Non soltanto la sua famiglia ma anche l’ambiente sociale di provenienza. Questa che potremmo chiamare “visione orizzontale del problema” è necessaria quanto la “visione verticale” che  vede lo sviluppo nel tempo del bambino: com’era, com’è, come probabilmente sarà, attraverso gli interventi più opportuni, in modo da preparare la strada migliore per lui e la sua famiglia.

Oltre a saper effettuare una diagnosi precisa evidenziando le cause  del problema, gli operatori dovranno saper proporre un valido programma di recupero e di stimolazione in cui siano evidenziate le tecniche, le metodologie e gli  strumenti  più opportuni. Questo programma, a sua volta, dovrà essere inserito in un progetto realistico a breve, medio e lungo termine che contempli non solo tutti gli aspetti della vita del minore ma anche tutti gli aspetti della vita relazionale della famiglia in cui questo bambino vive e cresce.

Infine, gli operatori devono saper coinvolgere altri specialisti del settore e altre forze sociali, attraverso un lavoro di rete nel territorio, collegando forze e realtà diverse per un grande o-biettivo comune.

Il training familiare.

Per lungo tempo la nostra società si è illusa di risolvere i problemi dell’handicap mediante  l’utilizzazione di tecnici (psicologi, insegnanti, pedagogisti, assistenti sociali, medici, terapisti della riabilitazione) trascurando l’apporto insostituibile della famiglia. Ciò ha provocato gravi conseguenze sia sul piano teorico: riguardo al significato dell’educazione o riabilitazione del bambino disabile; che pratico.

 

Dal punto di vista teorico ha portato ad una proliferazione di centri specializzati che hanno dato molti apporti scientifici su alcune specifiche tecniche riabilitative, ma pochi studi sull’attività educativa globale di questi bambini. Dall’altro la sottovalutazione degli apporti affettivo-relazionali dell’ambiente familiare e sociale ha vanificato e vanifica molto spesso la stessa attività educativa e riabilitativa.

É necessario pertanto che gli operatori prendano in carico non soltanto il bambino disabile, ma anche la sua famiglia inserita nell’ambiente sociale. Portatori di bisogni sono infatti non solo i minori ma anche i loro familiari che vivono questa realtà spesso con ansie, insicurezze, paure. É  fondamentale quindi, che gli operatori attuino nei confronti dei genitori un vero e proprio cammino in modo tale da costruire insieme a loro un progetto globale, realistico, ampio, sia a breve che a lungo termine con varie finalità.

•    Comprensione dei limiti ma anche delle possibilità del bambino.

     Ciò sarà possibile evidenziando le sue difficoltà attuali, ma anche le capacità e potenzialità; le sue necessità di base, comuni agli altri bambini ma anche i bisogni specifici.

•    Conoscenza dei servizi.

È importante che i genitori siano messi a conoscenza delle possibilità offerte da centri e istituti specialistici e dai tecnici e personale che si occupano di questi problemi; quindi di che cosa e chi possa essere utile, di che cosa e chi possa essere indifferente e di chi o di che cosa possa essere dannoso per il bambino.

•    Conoscenza delle tecniche.

Quali le tecniche e le metodologie  speciali su cui dovrebbe basarsi l’attività educativa o riabilitativa. Quali le basi su cui si fondano, quali sono i limiti e le possibilità di ognuna.

Quali gli strumenti utilizzabili, con i loro pregi, difetti, limiti, possibilità e difficoltà.

•    Conoscenza del percorso educativo.

Quale percorso educativo o riabilitativo si intende intraprendere. Evidenziando quali ostacoli si potrebbero presentare e come si pensa di poterli affrontare e superare.

•    Quali le prospettive future.

Ai genitori bisogna inoltre saper prospettare con realismo, ma anche con sano ottimismo, quali sono gli scenari presenti e quali quelli di un possibile futuro del figlio.

Gli obbiettivi di fondo del training familiare sono quindi numerosi:

•    si vuole da parte dei genitori una migliore accettazione del bambino e del suo handicap;

•    si cerca di suscitare nei genitori una maggiore fiducia in se stessi, nel loro figlio, nella rete familiare e sociale, negli organi istituzionali;

•    ci si propone di ottenere, nei genitori, una maggiore sicurezza nelle proprie capacità e un’acquisizione di atteggiamenti e comportamenti educativi più validi, equilibrati e sani;

•    ci si propone di instaurare una maggiore e più stabile intesa tra genitori e figlio, genitore e altro coniuge, genitori e altri familiari, genitori e operatori, genitori  e società. Lo scopo, in definitiva, è quello di migliorare i rapporti all’interno della famiglia del bambino, ma anche i rapporti tra questa, gli specialisti e l’ambiente sociale nel suo complesso. Ciò al fine di riuscire ad intraprendere rapporti non di lotta, ma di dialogo e collaborazione reciproca.

 

L’operatore dovrebbe cercare di proporre ai genitori, per il loro figlio, innanzitutto l’inserimento in un ambiente normale, in quanto ogni bambino ha bisogno di normali relazioni affettive ed amicali. Per tale motivo farà in modo che la sua famiglia si occupi di lui senza ansie eccessive, senza paure, ma in maniera serena, intelligente e continua. Le eccessive preoccupazioni comportano infatti stress, confusione, stanchezza, depressione con conseguenti atteggiamenti educativi errati.

 Un figlio disabile necessita inoltre di due genitori realistici che non sottovalutino i problemi ma neanche li accentuino; pertanto necessita di due genitori gioiosi, in quanto la gioia è fondamentale nello sviluppo di ogni essere umano. Egli ha bisogno di due genitori dialoganti e affettuosi tra loro che sappiano e possano vivere con serenità l'amore all'interno della coppia e con tutti gli altri figli.

I bambini disabili infatti, così come tutti i bambini, hanno bisogno di essere circondati da persone che si vogliano bene e che non riversino il loro bene soltanto su di loro; quindi necessitano di genitori che vogliano bene al loro figlio in modo fisiologico, senza morbosità, senza eccessi, senza una deleteria  iperprotettività.  É importante, infatti, che anche gli altri fratelli e familiari godano dell’apporto continuo e intenso di papà e mamma.

Il loro bambino, come tutti i bambini ha bisogno, inoltre, di vere amicizie, in cui vi sia scambio, affetto, dialogo, intesa, legame. Non sono amicizie vere quelle basate soltanto su sentimenti pietistici o per necessità di assistenza.

Anche per quanto riguarda la difficile prospettiva di una futura attività lavorativa, necessità di lavoro vero. Un lavoro è tale quando vi è scambio tra prestazione e compenso, possibilità di integrazione, utilità per i singoli e per la società del servizio offerto. Un lavoro è vero, inoltre, quando riesce a sviluppare tra i vari addetti e tra il lavoratore e il suo datore, dinamiche e scambi positivi per tutti.

 

Educazione del bambino disabile

 

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Quali sono i bisogni educativi di un bambino disabile?

A questa domanda chiara dobbiamo dare una risposta altrettanto chiara: i suoi bisogni fondamentali non sono per nulla diversi da quelli di un bambino con normali capacità.

Anche lui ha bisogno, infatti, di due genitori  che siano capaci di amarlo, ascoltarlo, confortarlo, rassicurarlo, incoraggiarlo ma anche, quando necessario,  sappiano dire di “no” o rimproverarlo, così come dovrebbe fare ogni adulto che si vuole porre come  guida sicura e autorevole per i suoi piccoli.

Anche lui, oltre che di genitori sereni ed equilibrati, ha bisogno per la sua normale crescita di altre figure parentali come i fratelli, i nonni, gli zii, i cuginetti e, successivamente, h

necessità di incontrare e di aprirsi ai coetanei e agli amici.

 

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Inoltre, come tutti i bambini, necessita di persone, con cui instaurare un legame affettivo, che sappiano stimolare il suo sviluppo globale mediante l’educazione di tutte le potenzialità umane: le capacità motorie insieme a quelle sociali; l’intelligenza e la sessualità; la libertà e la volontà insieme alle capacità di critica, di giudizio e di autocontrollo.

Per tale motivo è importante che anche l’ambiente  in cui vive sia aperto e ricco di stimoli, in modo tale che egli possa in esso muoversi liberamente operando delle scelte affettivamente valide. Capite che quanto abbiamo descritto è lontano mille miglia da quello che potrebbe essere il migliore degli istituti specializzati.

Perché qualunque istituto, anche il più ricco di personale altamente qualificato non può offrire che pallidi surrogati rispetto a quello che una normale, semplice famiglia, spontaneamente riesce a dare ai propri componenti.

Purtroppo ciò è stato compreso molto tardi sia dagli operatori che dalla società.

Ci sono volute infatti migliaia di tristi e spesso tragiche esperienze di bambini precocemente allontanati dal normale ambiente familiare e sociale, per capire che il danno da istituzionalizzazione rendeva praticamente nullo ogni miglioramento sul versante dell’handicap. I motivi sono diversi. Nelle istituzioni totalizzanti, per loro natura, e non per colpa degli operatori che spesso, pur lottando, non riescono a contrastarne la tendenza, si viene a stabilire un clima particolare.

 Rispetto a quello familiare spesso si evidenzia:

•    scarso rapporto individualizzato;

•    gravi carenze affettive e relazionali;

•    scarsa libertà;

•    scarso dialogo vero e profondo;

•    scarsi spazi personali;

•    scarsa attenzione ai bisogni e alle necessità individuali;

•    scarso rispetto per gli oggetti personali;

•    presenza di numerose e poco elastiche regole;

•    norme troppo rigidamente e ossessivamente applicate;

•    sfruttamento degli spazi tenendo conto delle esigenze del gruppo o dell’istituzione e non del singolo;

•    scarsa e variabile assunzione di un ruolo specifico di ogni singolo ospite all’interno dell’istituto;

•    frequente rischio che il paziente o il bambino diventino og-getti e non soggetti di diritto.

Oggi,  per fortuna,  buona parte degli istituti sono chiusi. Rimane però ancora  in noi operatori, la tendenza a sottovalutare le capacità  educative dei genitori dei bambini disabili  sopravvalutando le nostre; pertanto è come se trasmettessimo loro, un messaggio fuorviante, che è poi anche un messaggio fondamentalmente falso: “il vostro bambino è giusto che stia con voi, ma  egli ha problemi particolari che solo noi specialisti  possiamo comprendere. Per tale motivo la sua riabilitazione o stimolazione speciale deve essere affidata esclusivamente a noi che abbiamo  tecniche, metodologie e strumenti per fare questo.”

Come educare.

 

É necessario che l’adulto si ponga nei confronti del bambino disabile con un atteggiamento non apprensivo, ansioso o limitante ma in modo gioioso, dialogante, affettuoso, rispettoso delle sue esigenze psicologiche. É indispensabile, infatti, rispettare la fisiologia del bambino: la sua età mentale, la sua vita affettiva, i tempi di attenzione, la  faticabilità, il bisogno di  giochi di movimento e di gruppo da effettuare da solo o con i coetanei. Per quanto riguarda le tecniche e i materiali da utilizzare questi devono essere studiati, sperimentati e approntati dai tecnici (medici, pedagogisti, psicologi, riabilitatori),  l’attuazione può invece essere fatta dagli insegnanti, dai pedagogisti e dai riabilitatori, ma sarebbe augurabile che fosse affidata anche ai genitori, i quali, più di ogni altro, hanno potenzialità e caratteristiche indispensabili nel favorire un migliore apprendimento in quanto:

  • sono i soggetti che hanno maggiore interesse nei confronti del bambino, per cui garantiscono, se ben seguiti, una maggiore continuità e attenzione al programma da noi stabilito;

  • sono le persone che riescono ad avere, più di ogni altra, nei con-fronti del minore, quel legame affettivo che stimola la gratificazione,  l’apprendimento e la memorizzazione;

  • sono quelli che possono, meglio di altri, capire le esigenze del bambino e saperle soddisfare.

É necessario, però, che questi genitori siano costantemente seguiti mediante controlli periodici, ravvicinati nel tempo, in modo tale da verificare sistematicamente gli apprendimenti del minore, sostenendo e correggendo, quando occorre, la loro modalità di proporre tali apprendimenti. Il rapporto sistematico coi genitori servirà inoltre ad effettuare un training efficace che li aiuterà a capire il loro bambino così da potere intervenire nel modo più opportuno ed utile durante le fasi della sua crescita.

Affettività e sessualità nei disabili

 

 Dott. Emidio Tribulato

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Le difficoltà sono il pane quotidiano e sembrano accompagnare tutta la vita di questi bambini.

Si capisce benissimo lo scoraggiamento a cui queste difficoltà possono portare, come si comprende  il desiderio, a volte, di  gettare la spugna non solo da parte della persona e della famiglia interessata ma anche, e questo è molto più grave, da parte degli operatori e della  società.

    Tuttavia queste stesse difficoltà possono e devono essere lette anche come una sfida alla persona colpita, alla sua famiglia e anche a tutti noi. Sfida alla  nostra capacità di accettazione, alla nostra apertura mentale, alla nostra duttilità e intelligenza; sfida inoltre, io credo, tanto più interessante quanto più difficile da affrontare e risolvere.

    Ebbene, anche la sua vita affettiva e sessuale è una sfida: al nostro buon senso, al nostro perbenismo e al nostro moralismo che si può e si deve combattere e vincere.

    Per affrontare questo problema dobbiamo prima comprendere che cosa spinge l’essere umano a un rapporto affettivo e sessuale di coppia.

Un ragazzo si avvicina a una ragazza, un uomo a una donna spinto da varie pulsioni interiori: una di queste è la  paura della solitudine.

    Nessun essere vivente è fatto per essere solo. La solitudine intristisce e fa rinsecchire e morire lentamente un uomo o una donna, così come un qualunque altro essere vivente, che ha bisogno dell’altro per iniziare a vivere, per aprirsi al mondo, ma anche per camminare nel mondo.

    Accanto a questo elemento c’è il bisogno di protezione, di aiuto, di conforto, di sicurezza. C’è il bisogno di un dialogo intimo con un altro essere umano a cui aprire il nostro cuore quando capiamo che quello saprà accoglierlo e accettarlo.

    Ma ancora più importante ci appare il bisogno del piacere e della gioia che caratterizzano e sono così abbondanti nello scambio affettivo e sessuale; pulsioni che sono fondamentali per la crescita fisica e della personalità.

    Da non dimenticare, poi, il desiderio di far fiorire altre vite umane, il desiderio di costruire una nuova famiglia e di esprimere se stessi, abbandonando il ruolo filiale, per diventare  marito o  moglie, padre o madre.

    Ma anche fattori inconsci ci spingono l’uno nelle braccia dell’altro. Ritroviamo questi fattori inconsci nella ricerca di quella parte di noi che non abbiamo o non conosciamo, perché di un altro sesso, perché assente nella nostra personalità o perché non accettata o rifiutata da una parte del nostro io.

Questa perdita di una parte di sé e questo bisogno di unione con quella parte inconscia e nascosta della propria anima, è stata ben simbolizzata nella Bibbia con la perdita della costola di Adamo e con il suo bisogno di unirsi a Eva.

    Da quanto abbiamo detto ci appare difficile pensare che una persona, solo perché deficitaria in una o più funzioni possa fare a meno, rinunciare o cancellare da sé questi bisogni umani fondamentali.

    Dobbiamo quindi, e questa è la sfida, annotare le difficoltà allo stesso modo con cui dobbiamo studiare le possibilità, in modo tale da diminuire le prime e rendere sempre più concrete le seconde, fino a far diventare attuale e concreta anche per queste persone una vita relazionale, affettiva e sessuale la più ricca e umana possibile.

Vi sono sicuramente dei limiti. Molti di essi derivano dalla disabilità stessa che rende difficile un impegno così pieno  di responsabilità, di implicazioni e coinvolgimenti emotivi.

Altri limiti nascono dalle ridotte possibilità di scelta che ha il disabile rispetto al giovane normale, quando sboccia in lui e si manifesta impetuoso il bisogno di amare e di essere amato.

Ma ci sono limitazioni che nascono dal legame particolare che spesso si stabilisce tra i genitori e il figlio con problemi. Molti di questi genitori, infatti,  vedono il figlio come qualcuno che chiede e ha continuamente bisogno degli altri e non come qualcuno che è capace di dare e di staccarsi pienamente dal legame affettivo con i propri genitori e la famiglia di origine per intraprendere una vita affettivo - relazionale autonoma.

    Questa possibilità, da parte dei genitori, ma anche degli operatori, non solo non viene vista come obiettivo possibile, ma anzi viene negata o rifiutata quando nasce o si manifesta.

Molte altre restrizioni provengono sicuramente dall’ambiente sociale. In questo, specie nelle persone cosiddette “benpensanti”, è spesso presente e serpeggia un immotivato o eccessivo senso di sfiducia,  ogni volta che un giovane disabile parla, sogna, si avvicina o intraprende un cammino affettivo sentimentale o peggio sessuale con un’altra persona normale o no.

C’è in questa sfiducia la paura ancestrale di tutto ciò che è diverso o che esce dai classici canoni di “normalità”. Tale distruttivo e castrante atteggiamento viene giustificato con la possibilità, che è sicuramente reale in alcuni casi, ma non in molti altri, di conseguenze  genetiche negative per la prole, oppure con la difficoltà che questi giovani riescano a gestire un rapporto così complesso come quello sentimentale, coniugale o familiare.

Pur tenendo conto di queste e altre limitazioni che sicuramente esistono e che non devono essere sottovalutate, i genitori, i familiari e gli educatori, devono riuscire però a porsi come obiettivo il graduale superamento dei reali problemi presenti e la conquista da parte del minore di relazioni affettive sempre più valide, complete e coinvolgenti.

Essi devono inoltre impegnarsi, giorno dopo giorno, fin dall’infanzia ad educare il giovane disabile in questi aspetti così importanti della realtà umana, in modo da renderlo pronto ad affrontarli e viverli con pienezza nel momento in cui si presenteranno o saranno richiesti. 

Nasceranno infatti sicuramente, e molto presto, sentimenti d’amicizia che hanno bisogno, per essere vissuti pienamente, di  buone capacità di dialogo e di ascolto, ma anche di disponibilità al sostegno, alla comprensione e all’aiuto della persona che ci è vicina.

A questi seguiranno i rapporti sentimentali veri e propri, per i quali è necessario aver sviluppato nel giovane o nella ragazza disabile una grande capacità di amare e di donare. Dovrà essere inoltre maturo in questi giovani, come in tutti, il rispetto per la vita, accanto alla capacità di sacrificio.

Infine, dovrà essere ben sviluppato il giusto senso di responsabilità.

Responsabilità verso se stessi e gli altri, tanto più grande quando si manifestano i primi impulsi sessuali, che non vanno sicuramente repressi ma educati ed indirizzati in modo tale che diventino non solo fonte di gioia e di piacere, ma anche strumento di dialogo, unione e crescita reciproca.

Per tale motivo, educare al senso di responsabilità significa anche saper accettare dei limiti, se ci sono, oppure riuscire ad affrontarli e superarli insieme, mano nella mano, se possibile.

 

Emarginazione ed integrazione



L’immagine che vi presentiamo evidenzia bene il concetto di emarginazione. Una donna con probabile handicap motorio, osserva tristemente un quadro, mentre al di là di un muro, che può essere visibile e concreto come le mura di un istituto o di una casa in cui il soggetto disabile resta segregato, oppure soltanto psicologico, altri, “i normali”, vivono la loro vita relazionale e sociale: cantano, ballano, leggono e giocano.

 

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L’INTEGRAZIONE

Quando pensiamo, invece, all’integrazione del soggetto disabile, ognuno di noi ha una sua immagine mentale.

Sono immagini molto spesso contrastanti; sono immagini, purtroppo, molto spesso negative.

Alcuni collegano questa realtà alle difficoltà, ai problemi che, ad esempio, un bambino diverso crea alla classe dei bambini “normali.” Altri, sempre nel caso di bambini inseriti nell’ambiente scolastico sottolineano pietisticamente la sua sofferenza, nel ritrovarsi in un ambiente “normale”, lui che normale non è; con le sue difficoltà nel capire, nel partecipare a ciò che avviene nella classe, a ciò che si svolge nella scuola, che si è aperta anche a lui, ma che ha difficoltà a integrare anche lui.

I genitori del bambino disabile, invece la pensano sicuramente in maniera diversa. Per molti di loro la scuola é sicuramente un punto fondamentale di riferimento per la crescita del figlio e spesso lottano per questa integrazione e cercano, in maniera spasmodica, di attuarla quanto prima possibile, quanto meglio possibile.

Ma di quale integrazione ognuno pensa e parla? Perché vi sono almeno tre livelli d’integrazione. Quindi, come società, dobbiamo deciderci a scegliere quale di questi livelli noi vogliamo raggiungere e rendere attuale. Perché non capiti di ingannare genitori e famiglie che già si sentono sviliti nei loro sogni e nelle loro aspirazioni, dal momento in cui si rendono conto delle difficoltà del figlio.

Primo livello: “ Stare insieme con gli altri.”

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C’è un primo livello che potremmo chiamare dello ”stare insieme con gli altri.”

Perché ciò avvenga il bambino o la persona normale e il disabile frequentano la stessa casa, la stessa palestra e scuola, vivono nella stessa classe, sono seduti nello stesso banco. Con la legge sull’integrazione scolastica la nostra società ha raggiunto quasi pienamente questo primo livello.

Buona parte dei bambini con difficoltà, spesso anche gravi, di tipo motorio, psichico e sensoriale, non affollano più gli istituti specializzati e neanche sono reclusi in una stanzetta della loro casa, come avveniva precedentemente, ma utilizzano la scuola del proprio quartiere, vanno nella stessa palestra, frequentano la stessa parrocchia. Questa non è una conquista così grande e importante come sembra. Per secoli, prima che l’illuminismo ed il razionalismo spingessero le società più evolute a segregare, pensando di curare ed aiutare meglio, le persone con disabilità negli istituti, queste vivevano nella società con gli altri, accanto agli altri.

Il disabile non era affatto segregato, come oggi si pensa, ma, a modo suo e con tutti i suoi limiti, partecipava alla vita della comunità e spesso, anche se era canzonato dai bambini più monelli, era protetto e coccolato da tutta la comunità degli adulti.

Secondo livello: ”Socializzare con gli altri”

 

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Il secondo livello d'integrazione si propone, oltre allo stare insieme, anche la socializzazione con gli altri.

In questo caso i genitori, gli insegnanti, gli educatori e gli adulti in genere si pongono come obiettivo non solo la presenza fisica del bambino disabile accanto ai normali ma anche la sua integrazione e comunione fatta di scambi, di amicizia, di dialogo e dono reciproco. Non accetteranno soltanto che il bambino disabile stia in classe, nei cortili o in palestra accanto agli altri bambini, ma lavoreranno attivamente affinché l’obiettivo della socializzazione si attui pienamente, cosicché la vicinanza e la presenza siano occasione di conoscenza, dialogo, dono e collaborazione. Cercheranno, ad esempio, di attuare un buon inserimento in gruppi giovanili così importanti per la crescita del bambino, sia per la maturazione che consegue la relazione con coetanei durante varie attività, (sportive, spirituali, sociali e civili), che per la possibilità di instaurare ed introiettare valide figure di adulti oltre quelle dei genitori.

Gli insegnanti, dal canto loro, approfitteranno di ogni sua conoscenza per farne partecipe gli altri. Quindi l’aiuteranno ad avere un’immagine positiva sia verso se stesso, che nei confronti dei suoi genitori, degli altri adulti e dei coetanei.

Di questa modalità d’approccio ne trarranno vantaggio tutti i bambini, sia quelli normali che disabili, in quanto lo scambio sarà prezioso per tutti. Ognuno però resterà al proprio livello di sviluppo, rimanendo quindi il bambino in situazione di handicap con i suoi limiti e quello normale con le sue  normali capacità.

 

Terzo livello: "Essere come gli altri."

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Il terzo livello d’integrazione possibile, che è certamente molto più difficile da raggiungere, lo potremmo chiamare dell’”essere come gli altri.”

In questo caso, ogni sforzo della società, della scuola, della famiglia dovrà tendere ad eliminare o ridurre in maniera significativa il deficit.

Che significa superare o limitare il deficit?

Significa diminuire, o se possibile annullare, gli effetti che la limitazione crea.

Ad esempio, un cieco ha mille difficoltà che nascono proprio dalla mancanza di apporti sensoriali fondamentali nel riconoscere, gestire e muoversi nella realtà che lo circonda.

Ha difficoltà di movimento. Ha difficoltà nella lettura, nella scrittura, nella relazione autonoma con gli altri; ma se, come abbiamo rappresentato nell’immagine, studiamo, sperimentiamo e poi forniamo a questa persona che ha tale grave deficit sensoriale una serie di ausili: un bastone con particolari caratteristiche tecnologiche con cui poter “sentire” gli ostacoli mediante un radar; dei marciapiedi in cui sia presente una striscia lievemente più rilevata su cui poter camminare sicura; dei semafori che l’avvisino quando può tranquillamente attraversare la strada; un cane guida che l’aiuti negli spostamenti; questa persona sarà in grado di muoversi agevolmente sia nella sua casa sia nella città; pertanto il suo handicap sarà notevolmente ridotto.

Se poi al cieco insegniamo a scrivere, con delle metodiche particolari ad esempio con il metodo Braille o con l’uso di computer che riconoscano la sua voce, il suo handicap sarà ancora più ridotto il bambino, infatti, potrà arricchire più facilmente la sua cultura e potrà esprimere i propri pensieri non soltanto a voce ma anche per iscritto.

Lo stesso può e dovrebbe avvenire per un bambino con ritardo mentale. Se facilitiamo gli apprendimenti o offriamo una serie notevole di stimoli in grado di sviluppare o utilizzare al meglio le sue ridotte capacità intellettive, il miglioramento che avrà nel comprendere, collegare e capire la realtà che lo circonda farà nettamente diminuire il suo handicap in quanto potrà relazionarsi con se stesso, con gli altri e con la cultura dell’umanità in modo più valido ed efficace.

Le condizioni indispensabili per una buona integrazione sono numerose:

1.    La prima condizione di cui dovremmo disporre è certamente il nostro cuore.

 

La nostra sensibilità e disponibilità dovrebbe riuscire a sentire vicino a noi, chi è diverso o ha più limiti di noi; ma anche a riconoscere “come noi” chi partecipa della nostra stessa umanità. Il nostro cuore e la nostra sensibilità ci fanno capire inoltre che il bambino disabile, i suoi genitori, la sua famiglia, non hanno bisogno delle nostre lacrime ma del nostro sorriso; non hanno bisogno, attraverso i tanti sussidi statali delle nostre elemosine, ma di impegno intelligente e costante. Non hanno bisogno di pacche sulle spalle, ma di interventi specifici ed appropriati.

2.    La seconda condizione è sicuramente la cultura e l’intelligenza dei normali.

Quindi, accanto alla disponibilità del nostro cuore, vi deve essere l’impegno delle nostre menti, perché quanto più grave è la disabilità, tanto più perfetti e adeguati devono essere gli interventi e gli strumenti per affrontarla e superarla. L’intelligenza e la cultura portano alla conoscenza dei problemi, delle difficoltà, ma anche alle possibili soluzioni. Se io so, se io conosco, posso meglio capire, posso meglio scegliere e operare.

Se io non conosco, se io non so, avrò grandi difficoltà nel proporre ed attuare dei percorsi integrativi validi e realistici. È nemica dell’integrazione, quindi, l’ignoranza, intesa come non perfetta conoscenza dei problemi e delle necessità dei soggetti con disabilità. L’ignoranza porta allo sperpero di denaro, tempo, energie e risorse umane. L’ignoranza porta al sospetto e alla paura. Stimola ad interventi errati, inutili o addirittura controproducenti.

 

 

Un esempio di ciò lo ritroviamo in quei “scuolabus per handicappati”, che scorrazzano fin dal mattino presto in città per raccogliere i bambini disabili e portarli a scuola. Cosa c’è di più nobile e generoso di questa iniziativa, caldeggiata dalle associazioni benefiche e portata avanti dagli assessori comunali più illuminati e sensibili? Come non magnificare gli amministratori che organizzano questo servizio in favore dei più bisognosi? Peccato che in questa gara di solidarietà e di bontà non siano stati evidenziati e soddisfatti alcuni bisogni fondamentali del bambino disabile. Un bambino con problemi è spesso un bambino più fragile degli altri, più immaturo, più bisognoso di coccole, attenzioni e rassicurazioni degli altri. Egli vorrebbe alzarsi, circondato dalle tenere attenzioni dei suoi, quanto più tardi è possibile.

Egli vorrebbe essere accompagnato a scuola dalla mano della mamma, del papà o al massimo dei nonni, perché queste sono le persone con cui ha voglia di dialogare lungo il tragitto casa - scuola, sono queste le persone che lo rassicurano, sono queste le persone che lo fanno stare bene.

Ed è da loro che vorrebbe l’ultimo bacio e saluto prima di entrare in classe, sono i loro occhi attenti e sorridenti che vorrebbe ricordare nelle ore scolastiche. Per tali motivi non è molto piacevole per lui alzarsi prima degli altri studenti, vestirsi e prepararsi in fretta per aspettare sotto casa il pulmino che lo porterà, dopo un lungo giro per la città, a scuola. Come non è assolutamente piacevole per lui essere scorrazzato in lungo ed in largo per la città, insieme ad altri bambini con problemi a volte più gravi dei suoi, in compagnia di un’anonima accompagnatrice che sgrida i soggetti più monelli o pericolosi, per poi essere scaricato in fretta e furia davanti alla scuola.

3.    La terza condizione è l’impegno personale, il personale sacrificio. 

Sono, pertanto, nemici dell’integrazione l’ignavia, l’indifferenza, la noia, il disimpegno. L’ignavia e l’indifferenza non sono odio, non sono acredine, non sono violenza. L’ignavia e l’indifferenza spingono a non porsi i problemi o costringono a porseli ed affrontarli in modo sbrigativo e superficiale, evitando ogni riflessione, ogni coinvolgimento profondo, operando spesso senza credere neanche in quello che si fa. Anche l’indifferenza, come l’ignoranza, porta allo sperpero di denaro, di tempo ed energie preziose.

4.    La quarta condizione che favorisce l’integrazione è l’ottimismo. 

Sicuramente, nella vita di ogni giorno, sono numerosi i motivi del pessimismo: lo scarso valore dato alla vita umana nonostante gli impegni di facciata; le tante morti per guerra, terrorismo, incuria; la constatazione che è il mondo della politica più deteriore, dell’economia e della finanza più aggressiva a prevalere sul mondo dei servizi, dei sentimenti, degli affetti e della ragione. Nonostante ciò abbiamo lo stesso il dovere dell’ottimismo ragionato. Abbiamo il dovere di credere in noi stessi, nei bambini che ci sono affidati, nelle loro famiglie e nei colleghi, nei superiori, nelle istituzioni. Abbiamo il dovere di mettere accanto ad ogni pianta che muore il seme nuovo della speranza. Leggevo che in Inghilterra vi è un grande parco dedicato non a un Lord della Corona, né a un nobile come ce ne sono tanti in quell’isola ma a un uomo qualunque. Un uomo amante delle passeggiate e della natura il quale, inerpicandosi tra le brulle colline che sovrastano il suo paese, ogni tanto si fermava per riposarsi. Mentre era intento a contemplare il brullo panorama, con un legnetto era solito fare un piccolo buco nel terreno nel quale inseriva il seme di una pianta d’alto fusto. Con il tempo quei semi germogliarono. Con il tempo e con la pioggia quelle piantine crebbero. E quando formarono un bosco e nel bosco si volle creare un parco affinché i compaesani e gli stranieri potessero godere di quello splendido polmone verde, si dovette dargli un nome. Al solito, vi fu chi lo voleva chiamare con il nome di un re o di un principe del passato o ancora abitante i palazzi del potere, ma prevalse l’idea di chiamarlo, e non potevano fare una scelta migliore, con il nome di quell’ometto, apparentemente insignificante che, con il suo ottimismo e fiducia nella vita, aveva messo sotto terra tanti tanti semi sperando che un giorno germogliassero e diventassero alberi grandi e maestosi.

Anche per quanto riguarda l’obiettivo di un alto livello d’integrazione che abbiamo chiamato dell’ “essere come gli altri”, le condizioni affinché lo si raggiunga sono numerose.

1.    La prima è che si abbia come obiettivo proprio questo livello d’integrazione e quindi si creda nella possibilità di raggiungerlo operando in questa direzione con passione e determinazione. Questa condizione non è così scontata come si potrebbe credere. Molti operatori: medici, pedagogisti, psicologici, non credono affatto che l’handicap possa diminuire o migliorare. Essi sono convinti, almeno in cuor loro, dell’inutilità di tutti gli sforzi. Spesso accettano con poca voglia di effettuare degli interventi considerandoli solo come pietosi tentativi, buoni a far tacitare la propria coscienza, oltre che le proteste e le pretese dei genitori.

2.    La seconda è che si creda nelle proprie capacità. Nelle capacità quindi degli operatori e dei genitori di migliorare le potenzialità del bambino diminuendo il suo handicap.

3.    La terza è che si creda anche nelle possibilità del bambino. Che si creda cioè che il bambino, ogni bambino, anche il più grave, abbia la possibilità di migliorare la sua condizione, e di superare gradualmente le limitazioni che la malattia gli ha provocato.

4.    La quarta é che la scuola diventi un luogo di studio, non soltanto un luogo in cui si studia. Luogo quindi in cui tutti gli insegnanti, coordinati dai dirigenti e con il supporto di esperti nel settore, facciano sistematicamente ricerca. Ricerca di strumenti, metodologie, tecniche e materiali sempre più perfetti e sofisticati, indispensabili allo scopo riabilitativo ed educativo.

5.    Altra condizione é che venga effettuata un’osservazione attenta del bambino e dopo, e soltanto dopo, nasca un progetto individuale a breve, medio e lungo termine, efficace, realistico, attuabile.

6.    È, inoltre, indispensabile che si superino le dinamiche negative e distruttive che vengono spesso a crearsi tra gli operatori e le componenti della scuola. È indispensabile che venga a stabilirsi un’alleanza, un’intesa e una sinergia fra tutte le forze non solo scolastiche ma anche extrascolastiche: tra la famiglia, gli operatori della sanità, il medico di base, le associazioni di volontariato; per raggiungere insieme questo mirabile scopo comune.

 

Quali gli svantaggi e quali i vantaggi dell’integrazione?

L’integrazione del bambino disabile, spesso, almeno nella fase iniziale dell’attuazione della legge, è stata vista come una violenza legislativa. Ricordo il nostro primo intervento come équipe psicopedagogica, con i genitori dei bambini “normali” schierati davanti alla scuola per ostacolare l’invasione di alcuni bambini disabili che, con la loro presenza, per la prima volta, venivano a turbare le normali attività didattiche. In seguito, pur accettando i bambini “diversi” per un senso di giustizia e uguaglianza, molti genitori, ma anche alcuni insegnanti, hanno continuato a sentire questa legge come una violenza, in quanto il bambino con handicap per un verso veniva visto come l’elemento estraneo e diverso che creava disagio al gruppo classe e alla scuola nel suo complesso, mentre, nel contempo, richiedeva molto impegno umano ed economico da parte dello stato e della comunità.

Si sottovalutavano allora e si sottovalutano ancora oggi, molto spesso, gli apporti positivi del bambino, pur portatore di handicap che sono notevoli, molto più di quanto si possa immaginare.

Si sottovaluta, ad esempio, il fatto che il bambino disabile, proprio in quanto essere umano bisognoso di cure e attenzioni particolari, accresce nell’animo degli adulti e dei minori il senso ed il valore della solidarietà, dell’altruismo, della fratellanza, mentre nel contempo dà ai suoi coetanei, stimoli formativi essenziali alla vita sociale: come il senso dell’accettazione, della donazione e dello scambio con chi è diverso da noi.

Valori questi indispensabili per capire e accettare anche le altre diversità e non soltanto quelle legate all’handicap: la diversità del luogo di nascita, la diversità del colore della pelle, la diversità di un’altra lingua o di un’altra religione.

Il bambino disabile fa comprendere, in definitiva, che la diversità è la norma e non l’eccezione nei rapporti umani. Pertanto non solo è da accettare, ma è da valorizzare in quanto fornisce alla società quella ricchezza di apporti diversi che la completano e la rendono più ricca e viva. Questo argomento mi fa pensare ad un’insegnante particolarmente intelligente e capace incontrata in una scuola elementare la quale, avendo nella stessa classe una bambina particolarmente bella e un’altra con una grave disabilità motoria che le dava un aspetto estremamente sgradevole, aveva accettato con gioia che la prima, la più bella della classe, desse all’altra, la più bruttina, l’assistenza e le cure necessarie durante la sua permanenza a scuola. Tra queste due bambine, infatti, era nata un’amicizia ed un’intesa particolare che le aveva unite profondamente nella diversità.

Quando incontrai quest’insegnante, per la prima volta, in occasione della visita alla bambina cerebropatica, ella mi disse che aveva in questo modo risolto due problemi: quello della bambina sgradevole e bisognosa di assistenza, ma anche il problema dell’altra bambina, la quale, sia a casa che a scuola, veniva continuamente vezzeggiata e valorizzata soprattutto per la sua bellezza esteriore, mentre nel contempo veniva trascurata la sua crescita spirituale ed umana.

L’esperienza con questi bambini ci permette quindi di capire che la nostra società, la società dell’effimero, dell’apparenza e del consumismo, commette un grosso errore quando vede come fonte primaria di soddisfazione soltanto la bellezza, il fascino, la forza e l’intelligenza. Sbaglia, quando vede come valori primari la ricchezza, gli oggetti che ne rappresentano i sintomi o il potere.

Queste esperienze ci fanno, inoltre, riflettere sul fatto che le gioie più preziose sono quelle dell’essere e non quelle dell’avere o del possedere, ci fanno intendere ancora che la relazione interumana non dovrebbe avvalersi soltanto di oggetti da dare e da ricevere in mille occasioni, come spesso avviene oggi: onomastici, compleanni, promozioni, Natale, prime comunioni ecc. ma dovrebbe basarsi sullo scambio di caldi sentimenti di dialogo, attenzione, affetto, gratitudine e amore. Ci insegnano che gli oggetti quando facciamo un regalo, dovrebbero essere solo un tramite, un espediente per far comprendere all’altro che noi gli vogliamo bene, gli siamo vicini e che il nostro cuore è accanto al suo.

Il bambino disabile riesce quindi ad inserire, con la sua presenza, nuovi e più maturi parametri nella nostra vita, aiutandoci a diventare più ricchi nell’animo, più responsabili, più maturi, più forti.

E quanto abbiamo bisogno oggi di stimoli ad una maggio-re maturità e responsabilità! Oggi che i nostri ragazzi non riescono a diventare grandi, non riescono a diventare responsabili e maturi a causa delle mille cose futili di cui li circondiamo e copriamo: il vestito firmato, le scarpe griffate o all’ultima moda, gli oggetti con cui riempiamo la loro stanza mentre impoveriamo il loro cuore. Sono questi comportamenti, stimolati dalla società dei consumi, che impediscono loro di crescere attraverso le difficoltà e le conquiste.

 

Ma che vuol dire diventare più maturi, più forti, più grandi?

Significa riuscire a non soccombere alle prime difficoltà, alle prime sofferenze. Significa riuscire a resistere ai nuovi flagelli dell’umanità: come l’indifferenza, l’apatia, la droga, il suicidio, l’alienazione.

Da ciò possiamo capire come la presenza di un bambino disabile nella scuola, sia preziosa per la maturazione delle future generazioni.

Senza dimenticare che questa presenza è fondamentale per la ricerca psicopedagogica più avanzata. Questa presenza spinge gli specialisti del settore ad effettuare nuove e più incisive esperienze. Essa incoraggia a scoprire nuovi strumenti che facilitino l’apprendimento e la comprensione; stimola la messa a punto di nuove tecniche, preziose non soltanto per i bambini con disabilità, ma anche per i bambini normali. Ricordiamoci, infatti, che mentre gli strumenti e le tecniche utilizzate normalmente per i bambini normali non sempre sono valide per i bambini handicappati, tutto ciò che va bene per un bambino disabile va benissimo, a fortiori, per i soggetti normali.

È superfluo sottolineare, infatti, che molti dei nuovi materiali didattici e giochi educativi, con cui i nostri figli “normali” giocano e studiano, sono stati creati per i bambini in difficoltà e poi, come preziosa ricaduta della ricerca nell’ambito speciale, sono utilizzati da tutti i bambini.

Allora benvenuti. Benvenuti nelle nostre classi, nella nostra società, insieme a noi, a quelli che sentono, amano e sono come noi.

LA SOCIALIZZAZIONE

La socializzazione con i coetanei crea numerose problematiche che non sempre vengono affrontate correttamente.

Ad esempio spesso non si tiene conto che la socializzazione nasce dall’interno del bambino e non dall’esterno. É nel suo animo, è nella sua mente che stanno i presupposti affinché l’Io del bambino accolga gli altri, li accetti, li cerchi e desideri, con loro instauri un dialogo efficace.

Nei processi di socializzazione entrano in gioco varie componenti: l’età, la maturità affettiva, la situazione psicologica.

 

L’età

La socializzazione avviene attraverso varie tappe. La prima è quella che permette al bambino di stare bene con se stesso e con la propria madre. Il rapporto con la madre è il primo basilare pilastro dal quale possono partire gli altri momenti di socializzazione. Solo se il rapporto e la comunicazione con la figura materna è stato positivo e creativo, il bambino si aprirà al padre e poi, successivamente ma gradualmente, alle altre figure: fratelli, nonni, zii, amici, compagni di scuola, insegnanti, estranei.

Se il rapporto con la madre ed il padre presuppone un’età mentale di pochi giorni, il rapporto con i nonni, i fratelli e gli zii presuppone un’età mentale di qualche mese. Quello con i cugini o amici con i quali vi è una frequentazione molto intensa, necessita di circa due – tre anni. Quello con i compagni di una scuola materna almeno tre - quattro anni. Quello con i compagni di scuola elementare almeno cinque – sei anni di età mentale.

Non sempre questi limiti riguardanti l’età vengono rispettati. Spesso viene consigliato l’inserimento in scuola materna a bambini che ancora avrebbero bisogno del caldo nido delle braccia materne o della protezione della loro casa. Spesso si inseriscono bambini ritardati nella scuola elementare quando ancora avrebbero bisogno di spazi liberi e gioiosi come quelli presenti nelle scuole materne. In tal modo, non solo non viene conquistato nulla sul piano della socializzazione, ma il disagio psicologico che queste situazioni comportano limita di molto anche la possibilità di acquisire elementi cognitivi (linguaggio, autonomia, sviluppo logico e della percezione, pregrafismo ecc.), rendendo vano ogni tentativo volto all’apprendimento.

La serenità interiore.

Se l’età mentale è adeguata e l’io del bambino è maturo e sereno, egli coglierà ogni occasione per dialogare, giocare, collaborare, scambiare e legarsi affettivamente agli altri. Se l’io del bambino è immaturo, spaventato o fragile,  gli altri coetanei e gli ambienti sconosciuti spesso rappresentano per lui solo minaccia, limitazione, disturbo, inquietudine ed ansia. 

È indispensabile in questi casi un attento esame del minore teso a valutare l’impatto con una realtà nuova e diversa,  come può essere un’aula scolastica, con figure di adulti e coetanei con cui non si è instaurato né un legame affettivo, né un rapporto di fiducia.

Bisogna valutare pertanto:

1.    il grado di serenità del bambino in tutte le occasioni della vita quotidiana;

2.    l’avere o no conquistato lo spazio fisico e psicologico attorno a lui. Segnali positivi si hanno quando il bambino non ha paura di spostarsi non solo nella sua stanza ma da una stanza all’altra della casa, e non teme di  restare nella casa dei nonni, degli zii, e degli amici o compagni di gioco, con i quali si intrattiene piacevolmente senza problemi;

3.    altri segnali positivi sono dati dal superamento del legame con gli oggetti con i quali vi è un particolare attaccamento. La sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto, non sono più cose di cui non può fare a meno. Può accettare e accetta con piacere, per qualche ora altri oggetti per giocare, altri oggetti con cui alimentarsi o adempiere alle funzioni fisiologiche.

Se questi segnali non sono evidenti, l’inserire il bambino disabile in un ambito istituzionale: asilo nido, scuola materna o scuola elementare diventa un trauma ed una forzatura che potrebbe portarlo a regredire a stadi precedenti in alcuni o in tutti i settori evolutivi, impedendogli una normale crescita affettiva e relazionale.

I campanelli d’allarme che, in queste situazioni di disagio, i bambini lanciano sono abbastanza precisi: il pianto, la chiusura, la tristezza, la malinconia, il rifiuto di andare a scuola, i sintomi somatici (cefalea, vomito, disturbi gastrointestinali). Ebbene questi campanelli d’allarme devono essere prontamente riconosciuti e accolti.

Purtroppo, non sempre questo avviene, in quanto è ampiamente sopravvalutato l’apporto scolastico nei bambini disabili rispetto alla sofferenza subita. Conseguentemente si ottiene poco o nulla sul piano della crescita didattica ed intellettiva, mentre nel contempo si aggiunge all’handicap organico anche quello psicologico che fa peggiorare di molto il futuro relazionale e sociale di questi minori.

 

Handicap ed integrazione

 

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È una cosa rara la patologia?

Il fatto che la patologia non sia una cosa rara lo tocchiamo con mano ogni volta che andiamo dal nostro medico di famiglia e siamo costretti a fare la coda solo per ottenere una ricetta o peggio, quando dobbiamo affrontare un esame clinico particolare e vi è una lista d’attesa di qualche mese. In queste ed in molte altre occasioni ci accorgiamo di come la malattia non sia l’eccezione ma spesso, purtroppo, la regola.

E per quanto riguarda l’handicap? È una cosa rara l’handicap?

Sicuramente la disabilità prima o poi nella vita colpisce un po’ tutti. Tutti infatti prima o poi subiamo una malattia o un trauma che ci rende, per un periodo più o meno lungo, disabili. La disabilità ci colpisce da anziani, quando, per camminare ci facciamo sostenere da un bastone o da un figlio compiacente, o quando, per salire al nostro piano, non possiamo fare a meno dell’ascensore. Ci colpisce dopo i quaranta anni, ad un’età in cui dallo schermo TV tutti ci vogliono convincere che siamo ancora giovanissimi, mentre ci accorgiamo che per leggere abbiamo bisogno di inforcare gli occhiali o allungare le braccia a più non posso.

Ma anche da ragazzi l’handicap e la disabilità sono pronti a ghermirci. Penso, ad esempio, a quando, dopo essere saliti baldanzosi con la seggiovia sulle cime innevate ci lanciamo dall’alto con gli sci appena comprati, vestiti all’ultima moda, sicuri di fare bella figura ed invece roviniamo a valle nelle pose più scomposte e con qualche osso rotto.

A parte le malattie ed i traumi, spesso l’handicap si manifesta in forme più sottili ma altrettanto pesanti: come quando ad esempio non riusciamo a relazionarci efficacemente con i nostri genitori; o quando non riusciamo a trovare le parole giuste nei confronti dei figli ribelli per far capire loro i bisogni educativi; oppure quando con i colleghi o l’altro coniuge, l’accordo e la pace sembrano un miraggio irraggiungibile.  Abbiamo usato vari termini: malattia, disabilità, handicap ma questi termini sono sinonimi? No, non sono sinonimi.

La malattia è l’evento morboso che ci può colpire (virus, batterio, trauma ecc).

La disabilità indica la lesione oggettiva che possiamo avere a causa di un evento morboso, ad esempio la frattura del femore, un’ulcera gastrica o il ritardo mentale.

L’handicap è invece relativo all’ambiente sociale e culturale e quindi all’organizzazione della società in cui viviamo, che può strutturarsi esaltando le differenze ed emarginando la persona colpita da disabilità, come invece può organizzarsi e strutturarsi lottando con ogni mezzo per ridurre al minimo il divario tra noi e gli altri, tra la persona disabile ed i “normali”. Per tale motivo vi può essere una grave disabilità ma un piccolo handicap, oppure, all’opposto, una lieve o nessuna disabilità può comportare lo stesso un grave handicap. Può capitare, ad esempio, di ritrovarsi in un paese straniero senza conoscere la lingua e di non sapere come farsi ricondurre nell’albergo che si è scioccamente lasciato, sicuri di sapersi orientare.

Oggi si tende ad usare il termine diversamente abile o diversabile, per sottolineare la presenza di altre abilità che è giusto ed importante far emergere e valorizzare. Qualsiasi denominazione ha i suoi pregi e i suoi rischi. L’uso di quest’ultimo termine, che ha il pregio di sottolineare gli elementi positivi presenti in ogni persona, potrebbe comportare, ad esempio, un’accettazione incondizionata della disabilità e dell’handicap e quindi una limitazione nelle prospettive e nell’impegno nell’affrontarli e superarli.

 

Adolescenza

 

 

LE FASI DELL’ADOLESCENZA

L’inizio della pubertà viene fissata convenzionalmente a 11-12 anni per i maschi e a 10-11 anni per le femmine. La sua fine dovrebbe avvenire verso i 15 anni. Dopo quest’età inizia l’adolescenza vera e propria che dovrebbe cessare verso i 18 – 20 anni con la fine dell’accrescimento somatico.

Mentre la pubertà sta ad indicare l’età in cui il soggetto diventa capace di riprodursi, l’adolescenza  pone l’accento sull’accrescimento somatico e sui cambiamenti intellettivi, affettivi e relazionali con i quali avviene il passaggio dall’età infantile a quella adulta.

Come si vede nell’inizio della pubertà vi è uno scarto di uno - due anni tra il maschio e la femmina. Si dice, infatti, che le femminucce tendono a maturare prima dei maschietti. Queste età possono fluttuare ampiamente in base a caratteristiche individuali, razziali e alla latitudine. La maturazione avviene prima nei paesi più vicini all’equatore, rispetto ai paesi nordici. Per tale motivo non vi dovrebbe essere alcun allarme se queste tappe non sono raggiunte nei termini indicati.

Quando inizia la pubertà si avvertono già alcuni cambiamenti nell’atteggiamento, nel comportamento e nel carattere del ragazzo e della ragazza. Anche a livello fisico si notano i segni esteriori delle modificazioni dell’assetto ormonale con la comparsa dei primi peli.

 

Aspetti psicologici dell'adozione

 

 

L’aumento dell’età del matrimonio e quella nella quale si ricercano i figli, lo stile di vita sessuale eccessivamente libero, l’inquinamento ormonale, nonché molti altri fattori organici che colpiscono le capacità fecondanti sia dell’uomo, sia della donna, hanno comportato un notevole incremento di coppie sterili. Ciò, insieme al desiderio di aiutare dei bambini orfani o abbandonati negli istituti, contribuisce a promuovere le adozioni sia nazionali che internazionali. [1]

Le motivazioni all’adozione.

I bisogni che spingono una coppia ad adottare un bambino sono vari.

Vi può essere un desiderio di fecondità, cioè il desiderio che una parte di noi si trasferisca e continui in un altro piccolo essere umano. ‹‹Vorrei che qualcosa di me si trasmettesse a questo bambino il quale, anche se non è portatore dei miei geni, avrà in sé alcuni dei miei modelli educativi, dei miei ricordi, dei miei valori, delle mie esperienze, della mia cultura››.

Vi può essere il piacere di godere della maternità e della paternità. È sicuramente bello pensare di accudire un bambino, sostenendolo nelle difficoltà, educando tutte le sue potenzialità umane, per vivere con lui, accanto a situazioni di difficoltà, anche tanti momenti di tenerezza e gioia reciproca. Un bambino tra le braccia, quindi, per godere dell’affetto, della gioia e dell’intesa con un piccolo essere umano, che potrebbe arricchire la propria vita personale e di coppia. Un bambino per rinsaldare l’unione familiare.

Accanto a questo vi può essere il bisogno e il desiderio del dono. ‹‹Io sono ricco. Ricco di gioia, di affetto e d’amore. Sono ricco di beni materiali, di beni spirituali, di cultura, ebbene, voglio condividere queste mie ricchezze con chi è povero, con chi è solo, con chi è triste, con chi è abbandonato, con chi non ha un affetto, una famiglia, una casa, un amore. Vorrei dare il mio sostegno a chi non ha nessuno che lo possa proteggere››.

E ancora è possibile desiderare e lottare per un figlio adottivo nonostante si abbia già uno o più figli biologici per dare più ricchezza e consistenza alla propria famiglia. ‹‹Ho già un bambino ma, se ne adotto altri due, la mia famiglia sarà più ricca e piena››. ‹‹Ho un bambino disabile, vi è il rischio che anche gli altri bambini naturali possano essere portatori di disabilità e allora preferisco adottarne uno sano››.

Altre volte le motivazioni sono molto più banali e criticabili, come il desiderare di adottare un bambino maschio in quanto già si hanno quattro femmine o l’adottare un bambino per essere aiutati nella conduzione dell’azienda o ancora l’adottare un bambino piccolo, quando gli altri figli sono già grandi, per riprovare il piacere del rapporto educativo.

Spesso nel campo dell’adozione si tendono a distinguere le motivazioni positive, che sono poi quelle ritenute utili e corrette, da quelle negative considerate pericolose ed errate, e quindi dannose alla futura relazione adottiva. È nostra opinione che nelle scelte che facciamo ogni giorno il valore della motivazione iniziale sia modesto, tanto modesto da essere superato dagli eventi che intervengono lungo il percorso della vita: soprattutto se è una vita da trascorre insieme ad un bambino. Non vi è dubbio che alcune futili o criticabili motivazioni iniziali siano presenti anche nella genitorialità biologica, senza che venga spesso alterato o compromesso il futuro rapporto genitori-figli, in quanto, molti degli stimoli iniziali hanno la possibilità di essere modificati nel tempo dalla relazione che si instaura, per cui alcune motivazioni sono abbandonate, mentre altre nuove se ne aggiungono.

Le eccessive illusioni.

Ci sembrano più influenti, invece, nelle cause che provocano il fallimento del rapporto adottivo, le eccessive illusioni. Una di queste, la più frequente, consiste nell’immaginare che il bambino adottato, poiché ha trascorso mesi o anni in situazioni particolarmente difficili, fatti di privazione affettiva e/o di violenze, sia fisiche sia psichiche, nel momento in cui viene a lui offerta la possibilità di vivere in una bella, ricca casa ed in una vera famiglia, disposta ad amarlo, rispettarlo, accudirlo, ed educarlo, brami affidarsi felice e grato nelle braccia dei genitori adottivi. In questi casi si sottovaluta il fatto che le privazioni e le ferite che a questi bambini sono state inferte, sono difficili da rimarginare, per cui continuano a manifestarsi per un tempo più o meno lungo, mediante sintomi come l’aggressività, la tristezza, l’irritabilità, l’instabilità, che lasciano nello sconforto e che mettono in crisi anche il genitore più solido e maturo.

Se potessimo leggere fino in fondo nel cuore di questi bambini, scopriremmo che ciò che si agita nel loro animo, ciò che stimola i loro pensieri ed i loro sogni è notevolmente diverso da quanto a livello conscio e inconscio è presente nell’animo dei genitori adottivi. La loro realtà interiore dipende molto dalla storia personale e quindi dalla loro età, dalle esperienze avute, dai ricordi e dalle frustrazioni provate. In definitiva, la loro realtà interiore è fatta di speranze, ma anche di sospetti. È fatta di amore per gli altri ma anche di odio verso gli altri. È fatta di gioie ma anche di sofferenze. È fatta di certezze ma anche di tante paure.

D’altra parte, così come può essere problematica la realtà interiore che si agita nel cuore dei bambini, altrettanto difficili e dolorose sono le aspirazioni dei genitori che vogliono adottare. Pertanto un’altra delle illusioni che vivono i genitori adottivi è il sognare un clima familiare nel quale questi fanciulli con la loro presenza, con i loro sorrisi, il loro affetto, le loro carezze, i loro abbracci, saranno in grado di cancellare rapidamente e completamente ogni frustrazione causata da anni di tentativi di fecondazione falliti, di speranze tradite e di inutili, dolorosi interventi attuati dalla coppia.

La relazione del bambino con i genitori adottivi

Nel momento dell’incontro la qualità della relazione può essere la più varia. La più felice situazione, ma anche la meno probabile, si ha quando un bambino molto piccolo passa, quasi senza accorgersene, dalle braccia di una madre che lo amava, lo curava e che riusciva ad aver con lui un rapporto caldo ed empatico, ad una famiglia matura, serena, pronta e felice di accoglierlo. La più difficile è invece la circostanza nella quale un bambino, per motivi diversi, al momento dell’adozione porta ancora nel proprio animo le numerose e dolorose cicatrici causate da una lunga frequenza in uno o più istituti o in un ambiente familiare improntato a tristezza, solitudine, degrado e violenza. Tra questi due estremi vi sono infinite possibili relazioni.

In alcuni casi il bambino porta nel suo animo un vuoto profondo in quanto non conosce la storia delle proprie origini. In altri casi il bambino adottivo porta ancora nel suo animo la momentanea sofferenza causata dal rifiuto e dall’abbandono. A volte i genitori adottivi sono costretti ad affrontare il dolore e la rabbia di un bambino che ha ancora bisogno di gridare la sua collera per le umiliazioni e per i traumi fisici e psichici subiti. Spesso questi genitori sono costretti ad affrontare il bisogno del bambino di ritrovare i suoi genitori biologici. Non è raro, poi, che i genitori adottivi siano chiamati al difficile compito di lenire la delusione e la sofferenza di minori che non hanno avuto accanto a sé la madre amorevole di cui avrebbero diritto insieme ad un padre serio, maturo, responsabile e protettivo nei loro confronti. Peggio ancora la famiglia adottiva si può trovare costretta ad arginare sentimenti come la collera e la sfiducia verso tutto il genere umano. Sentimenti questi presenti in bambini che hanno convissuto con madri irresponsabili ed incapaci d’amare, con padri egoisti, assenti o peggio violenti e/o con adulti indegni della loro fiducia, incapaci di dialogo, comprensione e amore.

È però altrettanto varia la situazione dei genitori adottivi. Questi, nonostante abbiano ottenuto il decreto di adozione, non sempre presentano quelle qualità un po’ al di sopra della norma che possono permettere loro di affrontare situazioni nuove e spesso complesse. Non sempre hanno la flessibilità, l’equilibrio, la serenità, la capacità di ascolto, dialogo e dono indispensabili. Non sempre hanno risolto le loro problematiche interiori. Non sempre sono supportati da una rete familiare e sociale che li possa aiutare e sostenere.

Vi sono allora: un’adozione facile e un’adozione difficile o impossibile.

È più facile l’adozione:

  • quando i genitori adottanti hanno altri figli propri. Questi genitori, avendo già alle spalle buone esperienza di cure, hanno più capacità e minori illusioni. Inoltre, non provenendo alla genitorialità da realtà stressanti e traumatiche come chi per anni ha provato, sperato e lottato per avere un bambino senza riuscirci, sono più disponibili, sereni e accettanti;
  • quando il bambino è molto piccolo.In questo caso l’attaccamento tra i genitori e il figlio adottivo è più rapido e facile, in quanto l’adattamento reciproco, indispensabile presupposto per una buona intesa, avviene quasi spontaneamente;
  • quando il bambino ha avuto nei primi anni della sua vita una madre sufficientemente capace di entrare in relazione con lui. Avere avuto da parte della madre o di qualche familiare delle cure materne attuate in modo fisiologico e sano, costituisce per il bambino una solida base di partenza per affrontare con più forza e sicurezza anche future difficoltà e traumi;
  •  quando i sentimenti di ognuno dei familiari adottanti, sono sinceri e schietti;
  • se i genitori adottivi non si creano troppe illusioni e sono stati affrontati e interiormente chiariti i loro sentimenti e le loro aspettative;
  • se non vi sono desideri ambivalenti;
  • quando il bambino da adottare non proviene da percorsi istituzionali tristi e frustranti;
  • se nei genitori adottanti sono presenti una buona maturità e serenità interiore. Serenità che potrà permettere loro di vivere con gioia i momenti lieti della vita e con tranquillità, calma, e realistico ottimismo le difficili situazioni che sicuramente non mancheranno;
  • se i genitori adottivi sono capaci di accettare il bambino per quello che è e non per quello che loro vorrebbero che fosse. Quindi, se i genitori adottivi, piuttosto che vedersi come manipolatori del destino dei loro bambini, si vedono come viandanti che accettano, lungo la strada della vita, la compagnia di una persona sconosciuta ma che vogliono scoprire, accettandone le potenzialità ma anche i limiti, consapevoli che ogni bambino, adottato o no, è particolare e originale;
  • se i genitori adottivi sono aiutati e sostenuti da una rete familiare calda, accogliente e disponibile e da servizi socio–sanitari adeguati nell’accompagnare queste particolari relazioni e, contemporaneamente, pronti ad affrontare e rapidamente risolvere le possibili difficoltà che lungo il cammino si dovessero presentare.

L’adozione risulta difficile o impossibile:

  • se il bambino proviene da percorsi affettivi particolarmente dolorosi e frustranti, e pertanto è portatore di notevoli disturbi psicologici o di handicap fisici che risultano difficilmente gestibili dalla coppia adottante;
  • se l’adozione è considerata dalla coppia adottante l’ultima spiaggia per soddisfare il piacere della maternità e della paternità;
  • se persistono nella coppia adottante motivazioni profonde e persistenti legate ad un bisogno inconscio di compensare un vissuto di menomazione della propria femminilità o della propria mascolinità;
  • se il bambino si ritrova con genitori particolarmente ansiosi o emotivamente fragili; o al contrario è costretto a relazionarsi con persone troppo dure, rigide e fredde;
  • quando l’ambiente familiare e ambientale è sospettoso e poco o nulla accettante nei confronti di un bambino diverso, per colore della pelle, per nazione, ceto sociale, credo religioso; o quando questo ambiente familiare e ambientale presenta timori profondi, legati al concetto di ereditarietà morale negativa;
  • se i genitori adottivi non sono pienamente e profondamente convinti di poter diventare genitori a pieno titolo di un bambino non procreato direttamente da loro. Se quindi non hanno fiducia nelle loro possibilità e in quelle del bambino;
  • quando i genitori adottivi non hanno a disposizione dei servizi socio–sanitari capaci di sostenere e aiutare l’instaurarsi di una relazione efficace.

I vissuti dei genitori adottivi

Alcuni genitori adottivi consciamente o inconsciamente si rimproverano ingiustamente di non avere i requisiti necessari per essere una buona madre o un buon padre, in quanto incapaci di potere risolvere abbastanza rapidamente i problemi psicologici presentati dal bambino, soprattutto se questi manifesta le sue sofferenze mediante accuse e continue lagnanze. Da ciò l’autosvalutazione ma anche i sentimenti depressivi.

In altri casi, al contrario, i genitori adottivi sembrano consapevoli solo del bene che hanno fatto al bambino prendendolo in casa e negano decisamente e non accettano che, con il loro modo di porsi nei suoi confronti, possano fargli o avergli fatto del male e quindi essere in parte responsabili del suo cattivo comportamento. Da ciò l’accusa al bambino di non essere a posto, di non essere come gli altri, di non avere quelle qualità e capacità che avrebbe dovuto avere. Questi genitori, pertanto, scaricano su di lui la loro frustrazione mediante continui rimproveri, punizioni e minacce come quelle di riportarlo in istituto. Contemporaneamente accusano l’ente che li ha aiutati nell’adozione di averli “truffati e imbrogliati” dando loro un bambino non perfettamente sano, com’era descritto nella relazione che era stata loro consegnata. In queste occasioni, spesso, si rimproverano di aver fatto delle scelte sbagliate riguardanti l’ente al quale si sono affidati, il paese d’adozione, l’età del bambino, il suo sesso, il periodo nel quale si sono decisi ad iniziare le pratiche per averlo e così via.

Altri genitori adottivi invece temono di aver sopravvalutato la gioia di avere un figlio rispetto ai problemi che questi comporta. Si convincono, inoltre, che il bambino non potrà mai ricambiare tutto l’amore e l’impegno a lui donato e tutte le spese sostenute: sia per le pratiche burocratiche, sia per la sua cura ed educazione.

Vi sono poi dei genitori che amano collegare i comportamenti disturbanti del figlio, i suoi atteggiamenti o le sue frasi “cattive”, la sua irrequietezza, la scarsa disponibilità nei loro confronti, ai geni dei suoi genitori: “immorali, caratteropatici, malati mentali, delinquenti”. ‹‹Come potrebbe essere diverso il figlio di una prostituta?›› ‹‹Cosa aspettarsi dal figlio di un padre ubriacone e da una madre così incosciente da mettere al mondo un bambino per poi abbandonarlo per strada?››

Altri genitori, infine, imputano le difficoltà educative e la difficile intesa con il figlio alla incontestabile realtà che tra di loro non vi è un legame di sangue. Questa mancanza di affinità biologica li rende incerti nei loro comportamenti ed atteggiamenti. Di fronte alle richieste del bambino non sanno come regolarsi. Temono di causare delle frustrazioni ad un essere già provato ma, nel contempo, hanno anche paura che egli possa approfittare delle loro concessioni. Pertanto temono che il comportamento del figlio possa, nel tempo, peggiorare.

Questi ed altri vissuti possono essere anche causa di conflitti tra i coniugi: ‹‹Tu hai voluto per forza questo bambino e mi hai costretto all’adozione. È colpa tua se ci troviamo in queste grosse difficoltà››. Oppure: ‹‹Sei stato superficiale perché ti sei lasciato convincere ad adottare un bambino ucraino quando mio padre ti aveva detto più volte che era meglio un bambino messicano››.

Infine, non sono poche le difficoltà nel fare accettare il bambino adottato quando si hanno già altri figli. Molte volte non basta parlarne prima con loro. Non basta l’informazione, come non basta il loro assenso. Nel momento in cui pensiamo di avviare la procedura di adozione è fondamentale porre attenzione e valutare in maniera sincera, approfondita, seria e senza pregiudizi di sorta, il possibile impatto psicologico che avrà l’inserimento di un nuovo fratello o di una nuova sorella nell’animo e nella vita degli altri figli. Se valutiamo che questo impatto sarà positivo, il loro contributo ed il loro appoggio alla riuscita dell’adozione sarà vero, reale e sostanziale.

I vissuti dei bambini adottati

Poiché l’attività educativa comporta la necessità di dare dei limiti, delle norme ma anche, quando sono indispensabili, delle punizioni, quando i bambini adottati provano rabbia o manifestano reazioni aggressive, è spesso presente in loro il timore di essere ingrati verso chi sta facendo loro del bene. Questo timore può comportare dei sensi di colpa difficilmente gestibili in quanto, pur sforzandosi di essere dei buoni figli, difficilmente possono evitare contrasti, rimproveri, ma anche sentimenti e situazioni di scontro. Da questi contrasti possono nascere delle paure: di non essere pienamente accettati dai nuovi genitori, dai parenti e familiari, dai compagni di scuola, a causa delle loro origini; di essere rimandati e respinti così come hanno fatto i loro genitori naturali o altre famiglie adottanti prima di questa; di non riuscire ad inserirsi in un mondo molto, troppo diverso dal loro per lingua, religione, colore della pelle, abitudini, cultura ecc.

Altri bambini, invece, rimangono come invischiati nei legami affettivi del passato, sia quando questi legami sono stati veri e reali sia se sono stati solo immaginati e sognati. Spesso, nel loro animo rimane stabile e immutato il volto di un padre o una madre buona che non possono e non vogliono tradire inserendo al loro posto un altro padre e un’altra madre, per cui negano nel loro animo di essere stati da questi genitori abbandonati. Altre volte si tratta di una sorellina o fratellino più piccolo del quale si sentono in qualche modo responsabili. In altri casi il saldo e forte legame che rimane nel loro cuore non è quello con i genitori biologici ma quello ancora presente con una o più persone della loro famiglia o dell’istituto dove essi hanno trascorso qualche tempo della loro vita, per cui, ad esempio, temono di tradire le puericultrice che si è occupata di loro nell’istituto dov’erano ricoverati. È come se rimanessero nel loro cuore, acquistando con il tempo una valenza sempre maggiore, gli occhi dolci e affettuosi di quell’educatrice che aveva cura di loro da piccoli o le braccia del compagnetto più grande che, in un momento di tristezza, li aveva consolati o le promesse della zia, del fratello o della sorella maggiore i quali si erano solennemente impegnati ad aver cura di loro.

Queste realtà affettive del passato li fanno sentire come ospiti momentanei nella nuova casa che li accoglie. Anche se a volte queste realtà sono obiettivamente vaghe come fantasmi, rendono difficile l’instaurarsi di un vero e solido legame con i nuovi genitori e con la nuova famiglia, tanto da non riuscire a superare e a scacciare gli altri elementi negativi dovuti all’istituzione. Per tale motivo questi bambini rifiutano consciamente o inconsciamente l’allontanamento e l’adozione per cui, non riuscendo a legarsi ai nuovi genitori, rimangono come in attesa di un evento fortuito che li riporti alla condizione precedente o peggio, con il loro comportamento disturbante ed irrequieto, a volte inconsciamente ricercano e fanno di tutto per essere riportati ai legami e alla realtà del passato.

Queste ed altre dinamiche interiori presenti sia nei genitori adottivi sia nei bambini adottati impongono l’aiuto di esperti psicologi o neuropsichiatri infantili, i quali hanno il compito di individuare e poi risolvere le varie problematiche personali e familiari presenti e attive, non solo al momento dell’adozione ma anche, a volte per anni, lungo tutto il corso della vita del minore.

Adozione felice e adozione problematica.

Adozione felice

Un’adozione che si instaura in modo positivo e soddisfacente dà abbastanza rapidamente i suoi frutti. Il bambino impara gradualmente ma anche velocemente la lingua del luogo. Dopo qualche tempo, a volte pochi giorni altre volte qualche mese, già si lega a uno o ad entrambi i genitori: li cerca nel gioco, li interpella quando ha dei dubbi, esprime loro, chiaramente, i propri desideri, i propri sogni, i propri crucci e le proprie aspirazioni. Se femminuccia imita la madre in alcuni suoi comportamenti e occupazioni. Lo stesso avviene per i maschietti nei confronti del padre. Se grandetto fa già dei progetti per il futuro. Comunica affetto ed ha interesse anche nei confronti degli altri familiari e parenti. Quando al momento dell’adozione sono presenti dei sintomi di sofferenza, questi diminuiscono gradualmente, sebbene possano ripresentarsi in alcuni momenti di crisi.

Allo stesso modo, anche da parte della famiglia adottiva si notano immediatamente dei segnali positivi. Si avverte in uno o in entrambi i genitori il piacere di intrattenersi con il loro figlio nei giochi, nelle uscite, nel dialogo o semplicemente stando abbracciati davanti alla tv. Nei colloqui con gli altri parenti e amici questi genitori, soddisfatti della relazione, tendono a sottolineare le conquiste effettuate dal figlio e gli aspetti positivi del suo carattere e dei suoi atteggiamenti, piuttosto che i problemi che provoca o ha provocato nella coppia e nella famiglia. Questi genitori, inoltre, quando si presenta qualche difficoltà, si attivano rapidamente a risolverla senza lamentarsene con amici e parenti. Pensano di essere stati fortunati nella loro scelta. A volte temono che, per qualche motivo burocratico, il figlio adottivo possa essere loro sottratto e sono pronti a ribellarsi a questa eventualità.

È facile capire dal racconto che l’adozione di Giulia è stata un’adozione felice.

 

Un signore buono che sa perdonare

 

‹‹Un giorno c’era una bellissima giornata in cui c’era un bel sole che splendeva, con delle nuvole tutte insieme in cielo. Poi c’era un albero che dava tanti frutti, l’erba che cresceva velocemente, e c’era un’erba che è cresciuta tutta in una volta. C’erano tante rondini che erano molto grandi, crescevano i fiori ed erano di tanti colori.

C’era un signore che dava tanta acqua e sono cresciute tutte le erbe e gli alberi.

Nell’albero sono cresciute tante arance. Poi c’era il cane che si mise a pestare tutta l’erba, aveva fatto i suoi bisogni e aveva rovinato tutte le cose. Ma il signore non lo rimproverò perché era buono ma il cane non era suo. Il cane era di una bambina che gli aveva dato botte. Il signore le chiese “perché? e lei disse che gli aveva dato botte perché aveva rovinato il giardino. Il signore rimproverò la bambina, dicendole che il cane poteva fare ciò. Da quel giorno la bambina tenne il cane in casa con lei››.

Il disegno che effettua Iulia, una bambina adottata, è come diviso in due da una linea azzurra. Nella parte alta gli uccelli neri troppo grandi, il sole di un colore eccessivamente sanguigno, le tante nuvole, fanno pensare alle tensioni e alle tristezze del suo passato. Mentre la parte inferiore con l’albero che si innalza maestoso verso il cielo, il grande fiore, l’erba e lo sproporzionato fungo, rimandano al suo presente che appare sostanzialmente molto migliore del passato. Dal racconto si evince facilmente che la bambina ha trovato nell’attuale famiglia adottiva qualcuno capace di dare affetto. Affetto che fa crescere bene. (C’era un signore che dava tanta acqua e sono cresciute tutte le erbe e gli alberi). Questo signore viene descritto come buono ecapace di comprendere i comportamenti distruttivi (Poi c’era il cane che si mise a pestare tutta l’erba, aveva fatto i suoi bisogni e aveva rovinato tutte le cose. Ma il signore non lo rimproverò perché era buono). Un signore che era anche capace di comprendere l’aggressività della bambina e la sua facile irritabilità (Una bambina aveva dato botte al cane). Ed è proprio per questa comprensione che la bambina, essendo più serena e sicura ha la possibilità di modificare le sue relazioni e riesce a contenere l’aggressività (Da quel giorno la bambina tenne il cane in casa con lei).

Adozione problematica

Un’adozione si preannuncia problematica quando comporta frequentemente delle sofferenze notevoli sia per i genitori sia per i minori. In questi ultimi, i sintomi presentati al momento dell’adozione, piuttosto che diminuire si accentuano. Cresce l’instabilità, l’irritabilità, la chiusura, la sfiducia negli altri, la dolorosa sensazione di sentirsi abbandonati. Questi bambini hanno difficoltà ad addormentarsi; la quantità ma anche l’intensità delle paure, o peggio delle fobie, non tende a diminuire nel tempo ma anzi si accentua; non avendo fiducia nell’ambiente che li circonda ma anche in se stessi, rifiutano di imparare la lingua del paese in cui si trovano; non vogliono andare a scuola; hanno un comportamento oppositivo, irritante, irriguardoso e, a volte, aggressivo e violento con gli oggetti ma anche con gli animali, le persone e gli stessi genitori. Se sono stati adottati due fratelli questi tendono a chiudersi in coppia piuttosto che a cercare, anche con manifestazioni di gelosia, l’amore o l’attenzione esclusiva di uno o di entrambi i genitori. Questi ultimi, d’altra parte, non mancano di manifestare in molte occasioni il loro disappunto per i tanti comportamenti giudicati impropri, anormali o semplicemente disturbanti e se ne lamentano tra di loro, con i parenti e gli amici. I genitori adottivi nel momento in cui consultano un neuropsichiatra, un pediatra o uno psicologo, durante il colloquio non riescono a trovare che disabilità, limiti e problemi nelle caratteristiche del figlio adottato. Poiché questi limiti e questi problemi sono giudicati difficilmente superabili o gestibili, si sentono non protagonisti di una relazione anche se difficile, ma ignare e inconsapevoli vittime di questa. Pertanto agli specialisti più che consigli sulle modalità migliori per rapportarsi con il figlio, chiedono decisive terapie psicologiche o farmacologiche atte a risolvere in breve tempo i tanti problemi lamentati.

Lo scarso legame esistente tra loro ed il figlio si manifesta anche con dei comportamenti con i quali cercano di diminuire al massimo il rapporto con quest’ultimo: lo iscrivono immediatamente a scuola, cercano per lui una ‹‹buona sistemazione›› per le ore pomeridiane mediante l’aiuto di un’insegnante di doposcuola, di un logopedista o di un psicologo. Oppure più semplicemente lo iscrivono in un club sportivo o in una scuola di musica o danza. In alcuni casi il rifiuto diventa netto, per cui si sentono costretti a chiedere all’ente che li ha assistiti nell’adozione un bambino migliore e più sano.

 

[1] Nel 2010 sono stati adottati 4130 bambini provenienti dall’estero. Nel 2006 è stata rilasciata l’autorizzazione d’ingresso in Italia a 3188 bambini stranieri.

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In questa sezione troverai molti articoli riguardanti questa patologia.

 

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Il più importante programma di stimolazione logica e cognitiva: oltre 9.000 schede, per un totale di 27.000 prove-stimolo, distribuite in undici livelli, uno per ogni età mentale o cronologica.

 

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Tanti idee e suggerimenti per i bambini disabili.

 

 

 

Conosciamo meglio i nostri bambini.http://www.cslogos.it/uploads/images/BAMBINI/Diapositiva32.JPG

 

 

 

 

http://www.cslogos.it/uploads/images/ADULTI/Diapositiva3.JPGIn questa sezione sono raccolte le esperienze più significative effettuate dagli operatori e dai genitori, che sono state fatte pervenire al Centro Studi Logos di Messina

 

 

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