Integrazione

Latest Tips & Tricks About Baby Care

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Affettività e sessualità nei disabili

 

 Dott. Emidio Tribulato

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Le difficoltà sono il pane quotidiano e sembrano accompagnare tutta la vita di questi bambini.

Si capisce benissimo lo scoraggiamento a cui queste difficoltà possono portare, come si comprende  il desiderio, a volte, di  gettare la spugna non solo da parte della persona e della famiglia interessata ma anche, e questo è molto più grave, da parte degli operatori e della  società.

    Tuttavia queste stesse difficoltà possono e devono essere lette anche come una sfida alla persona colpita, alla sua famiglia e anche a tutti noi. Sfida alla  nostra capacità di accettazione, alla nostra apertura mentale, alla nostra duttilità e intelligenza; sfida inoltre, io credo, tanto più interessante quanto più difficile da affrontare e risolvere.

    Ebbene, anche la sua vita affettiva e sessuale è una sfida: al nostro buon senso, al nostro perbenismo e al nostro moralismo che si può e si deve combattere e vincere.

    Per affrontare questo problema dobbiamo prima comprendere che cosa spinge l’essere umano a un rapporto affettivo e sessuale di coppia.

Un ragazzo si avvicina a una ragazza, un uomo a una donna spinto da varie pulsioni interiori: una di queste è la  paura della solitudine.

    Nessun essere vivente è fatto per essere solo. La solitudine intristisce e fa rinsecchire e morire lentamente un uomo o una donna, così come un qualunque altro essere vivente, che ha bisogno dell’altro per iniziare a vivere, per aprirsi al mondo, ma anche per camminare nel mondo.

    Accanto a questo elemento c’è il bisogno di protezione, di aiuto, di conforto, di sicurezza. C’è il bisogno di un dialogo intimo con un altro essere umano a cui aprire il nostro cuore quando capiamo che quello saprà accoglierlo e accettarlo.

    Ma ancora più importante ci appare il bisogno del piacere e della gioia che caratterizzano e sono così abbondanti nello scambio affettivo e sessuale; pulsioni che sono fondamentali per la crescita fisica e della personalità.

    Da non dimenticare, poi, il desiderio di far fiorire altre vite umane, il desiderio di costruire una nuova famiglia e di esprimere se stessi, abbandonando il ruolo filiale, per diventare  marito o  moglie, padre o madre.

    Ma anche fattori inconsci ci spingono l’uno nelle braccia dell’altro. Ritroviamo questi fattori inconsci nella ricerca di quella parte di noi che non abbiamo o non conosciamo, perché di un altro sesso, perché assente nella nostra personalità o perché non accettata o rifiutata da una parte del nostro io.

Questa perdita di una parte di sé e questo bisogno di unione con quella parte inconscia e nascosta della propria anima, è stata ben simbolizzata nella Bibbia con la perdita della costola di Adamo e con il suo bisogno di unirsi a Eva.

    Da quanto abbiamo detto ci appare difficile pensare che una persona, solo perché deficitaria in una o più funzioni possa fare a meno, rinunciare o cancellare da sé questi bisogni umani fondamentali.

    Dobbiamo quindi, e questa è la sfida, annotare le difficoltà allo stesso modo con cui dobbiamo studiare le possibilità, in modo tale da diminuire le prime e rendere sempre più concrete le seconde, fino a far diventare attuale e concreta anche per queste persone una vita relazionale, affettiva e sessuale la più ricca e umana possibile.

Vi sono sicuramente dei limiti. Molti di essi derivano dalla disabilità stessa che rende difficile un impegno così pieno  di responsabilità, di implicazioni e coinvolgimenti emotivi.

Altri limiti nascono dalle ridotte possibilità di scelta che ha il disabile rispetto al giovane normale, quando sboccia in lui e si manifesta impetuoso il bisogno di amare e di essere amato.

Ma ci sono limitazioni che nascono dal legame particolare che spesso si stabilisce tra i genitori e il figlio con problemi. Molti di questi genitori, infatti,  vedono il figlio come qualcuno che chiede e ha continuamente bisogno degli altri e non come qualcuno che è capace di dare e di staccarsi pienamente dal legame affettivo con i propri genitori e la famiglia di origine per intraprendere una vita affettivo - relazionale autonoma.

    Questa possibilità, da parte dei genitori, ma anche degli operatori, non solo non viene vista come obiettivo possibile, ma anzi viene negata o rifiutata quando nasce o si manifesta.

Molte altre restrizioni provengono sicuramente dall’ambiente sociale. In questo, specie nelle persone cosiddette “benpensanti”, è spesso presente e serpeggia un immotivato o eccessivo senso di sfiducia,  ogni volta che un giovane disabile parla, sogna, si avvicina o intraprende un cammino affettivo sentimentale o peggio sessuale con un’altra persona normale o no.

C’è in questa sfiducia la paura ancestrale di tutto ciò che è diverso o che esce dai classici canoni di “normalità”. Tale distruttivo e castrante atteggiamento viene giustificato con la possibilità, che è sicuramente reale in alcuni casi, ma non in molti altri, di conseguenze  genetiche negative per la prole, oppure con la difficoltà che questi giovani riescano a gestire un rapporto così complesso come quello sentimentale, coniugale o familiare.

Pur tenendo conto di queste e altre limitazioni che sicuramente esistono e che non devono essere sottovalutate, i genitori, i familiari e gli educatori, devono riuscire però a porsi come obiettivo il graduale superamento dei reali problemi presenti e la conquista da parte del minore di relazioni affettive sempre più valide, complete e coinvolgenti.

Essi devono inoltre impegnarsi, giorno dopo giorno, fin dall’infanzia ad educare il giovane disabile in questi aspetti così importanti della realtà umana, in modo da renderlo pronto ad affrontarli e viverli con pienezza nel momento in cui si presenteranno o saranno richiesti. 

Nasceranno infatti sicuramente, e molto presto, sentimenti d’amicizia che hanno bisogno, per essere vissuti pienamente, di  buone capacità di dialogo e di ascolto, ma anche di disponibilità al sostegno, alla comprensione e all’aiuto della persona che ci è vicina.

A questi seguiranno i rapporti sentimentali veri e propri, per i quali è necessario aver sviluppato nel giovane o nella ragazza disabile una grande capacità di amare e di donare. Dovrà essere inoltre maturo in questi giovani, come in tutti, il rispetto per la vita, accanto alla capacità di sacrificio.

Infine, dovrà essere ben sviluppato il giusto senso di responsabilità.

Responsabilità verso se stessi e gli altri, tanto più grande quando si manifestano i primi impulsi sessuali, che non vanno sicuramente repressi ma educati ed indirizzati in modo tale che diventino non solo fonte di gioia e di piacere, ma anche strumento di dialogo, unione e crescita reciproca.

Per tale motivo, educare al senso di responsabilità significa anche saper accettare dei limiti, se ci sono, oppure riuscire ad affrontarli e superarli insieme, mano nella mano, se possibile.

 

Emarginazione ed integrazione



L’immagine che vi presentiamo evidenzia bene il concetto di emarginazione. Una donna con probabile handicap motorio, osserva tristemente un quadro, mentre al di là di un muro, che può essere visibile e concreto come le mura di un istituto o di una casa in cui il soggetto disabile resta segregato, oppure soltanto psicologico, altri, “i normali”, vivono la loro vita relazionale e sociale: cantano, ballano, leggono e giocano.

 

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L’INTEGRAZIONE

Quando pensiamo, invece, all’integrazione del soggetto disabile, ognuno di noi ha una sua immagine mentale.

Sono immagini molto spesso contrastanti; sono immagini, purtroppo, molto spesso negative.

Alcuni collegano questa realtà alle difficoltà, ai problemi che, ad esempio, un bambino diverso crea alla classe dei bambini “normali.” Altri, sempre nel caso di bambini inseriti nell’ambiente scolastico sottolineano pietisticamente la sua sofferenza, nel ritrovarsi in un ambiente “normale”, lui che normale non è; con le sue difficoltà nel capire, nel partecipare a ciò che avviene nella classe, a ciò che si svolge nella scuola, che si è aperta anche a lui, ma che ha difficoltà a integrare anche lui.

I genitori del bambino disabile, invece la pensano sicuramente in maniera diversa. Per molti di loro la scuola é sicuramente un punto fondamentale di riferimento per la crescita del figlio e spesso lottano per questa integrazione e cercano, in maniera spasmodica, di attuarla quanto prima possibile, quanto meglio possibile.

Ma di quale integrazione ognuno pensa e parla? Perché vi sono almeno tre livelli d’integrazione. Quindi, come società, dobbiamo deciderci a scegliere quale di questi livelli noi vogliamo raggiungere e rendere attuale. Perché non capiti di ingannare genitori e famiglie che già si sentono sviliti nei loro sogni e nelle loro aspirazioni, dal momento in cui si rendono conto delle difficoltà del figlio.

Primo livello: “ Stare insieme con gli altri.”

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C’è un primo livello che potremmo chiamare dello ”stare insieme con gli altri.”

Perché ciò avvenga il bambino o la persona normale e il disabile frequentano la stessa casa, la stessa palestra e scuola, vivono nella stessa classe, sono seduti nello stesso banco. Con la legge sull’integrazione scolastica la nostra società ha raggiunto quasi pienamente questo primo livello.

Buona parte dei bambini con difficoltà, spesso anche gravi, di tipo motorio, psichico e sensoriale, non affollano più gli istituti specializzati e neanche sono reclusi in una stanzetta della loro casa, come avveniva precedentemente, ma utilizzano la scuola del proprio quartiere, vanno nella stessa palestra, frequentano la stessa parrocchia. Questa non è una conquista così grande e importante come sembra. Per secoli, prima che l’illuminismo ed il razionalismo spingessero le società più evolute a segregare, pensando di curare ed aiutare meglio, le persone con disabilità negli istituti, queste vivevano nella società con gli altri, accanto agli altri.

Il disabile non era affatto segregato, come oggi si pensa, ma, a modo suo e con tutti i suoi limiti, partecipava alla vita della comunità e spesso, anche se era canzonato dai bambini più monelli, era protetto e coccolato da tutta la comunità degli adulti.

Secondo livello: ”Socializzare con gli altri”

 

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Il secondo livello d'integrazione si propone, oltre allo stare insieme, anche la socializzazione con gli altri.

In questo caso i genitori, gli insegnanti, gli educatori e gli adulti in genere si pongono come obiettivo non solo la presenza fisica del bambino disabile accanto ai normali ma anche la sua integrazione e comunione fatta di scambi, di amicizia, di dialogo e dono reciproco. Non accetteranno soltanto che il bambino disabile stia in classe, nei cortili o in palestra accanto agli altri bambini, ma lavoreranno attivamente affinché l’obiettivo della socializzazione si attui pienamente, cosicché la vicinanza e la presenza siano occasione di conoscenza, dialogo, dono e collaborazione. Cercheranno, ad esempio, di attuare un buon inserimento in gruppi giovanili così importanti per la crescita del bambino, sia per la maturazione che consegue la relazione con coetanei durante varie attività, (sportive, spirituali, sociali e civili), che per la possibilità di instaurare ed introiettare valide figure di adulti oltre quelle dei genitori.

Gli insegnanti, dal canto loro, approfitteranno di ogni sua conoscenza per farne partecipe gli altri. Quindi l’aiuteranno ad avere un’immagine positiva sia verso se stesso, che nei confronti dei suoi genitori, degli altri adulti e dei coetanei.

Di questa modalità d’approccio ne trarranno vantaggio tutti i bambini, sia quelli normali che disabili, in quanto lo scambio sarà prezioso per tutti. Ognuno però resterà al proprio livello di sviluppo, rimanendo quindi il bambino in situazione di handicap con i suoi limiti e quello normale con le sue  normali capacità.

 

Terzo livello: "Essere come gli altri."

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Il terzo livello d’integrazione possibile, che è certamente molto più difficile da raggiungere, lo potremmo chiamare dell’”essere come gli altri.”

In questo caso, ogni sforzo della società, della scuola, della famiglia dovrà tendere ad eliminare o ridurre in maniera significativa il deficit.

Che significa superare o limitare il deficit?

Significa diminuire, o se possibile annullare, gli effetti che la limitazione crea.

Ad esempio, un cieco ha mille difficoltà che nascono proprio dalla mancanza di apporti sensoriali fondamentali nel riconoscere, gestire e muoversi nella realtà che lo circonda.

Ha difficoltà di movimento. Ha difficoltà nella lettura, nella scrittura, nella relazione autonoma con gli altri; ma se, come abbiamo rappresentato nell’immagine, studiamo, sperimentiamo e poi forniamo a questa persona che ha tale grave deficit sensoriale una serie di ausili: un bastone con particolari caratteristiche tecnologiche con cui poter “sentire” gli ostacoli mediante un radar; dei marciapiedi in cui sia presente una striscia lievemente più rilevata su cui poter camminare sicura; dei semafori che l’avvisino quando può tranquillamente attraversare la strada; un cane guida che l’aiuti negli spostamenti; questa persona sarà in grado di muoversi agevolmente sia nella sua casa sia nella città; pertanto il suo handicap sarà notevolmente ridotto.

Se poi al cieco insegniamo a scrivere, con delle metodiche particolari ad esempio con il metodo Braille o con l’uso di computer che riconoscano la sua voce, il suo handicap sarà ancora più ridotto il bambino, infatti, potrà arricchire più facilmente la sua cultura e potrà esprimere i propri pensieri non soltanto a voce ma anche per iscritto.

Lo stesso può e dovrebbe avvenire per un bambino con ritardo mentale. Se facilitiamo gli apprendimenti o offriamo una serie notevole di stimoli in grado di sviluppare o utilizzare al meglio le sue ridotte capacità intellettive, il miglioramento che avrà nel comprendere, collegare e capire la realtà che lo circonda farà nettamente diminuire il suo handicap in quanto potrà relazionarsi con se stesso, con gli altri e con la cultura dell’umanità in modo più valido ed efficace.

Le condizioni indispensabili per una buona integrazione sono numerose:

1.    La prima condizione di cui dovremmo disporre è certamente il nostro cuore.

 

La nostra sensibilità e disponibilità dovrebbe riuscire a sentire vicino a noi, chi è diverso o ha più limiti di noi; ma anche a riconoscere “come noi” chi partecipa della nostra stessa umanità. Il nostro cuore e la nostra sensibilità ci fanno capire inoltre che il bambino disabile, i suoi genitori, la sua famiglia, non hanno bisogno delle nostre lacrime ma del nostro sorriso; non hanno bisogno, attraverso i tanti sussidi statali delle nostre elemosine, ma di impegno intelligente e costante. Non hanno bisogno di pacche sulle spalle, ma di interventi specifici ed appropriati.

2.    La seconda condizione è sicuramente la cultura e l’intelligenza dei normali.

Quindi, accanto alla disponibilità del nostro cuore, vi deve essere l’impegno delle nostre menti, perché quanto più grave è la disabilità, tanto più perfetti e adeguati devono essere gli interventi e gli strumenti per affrontarla e superarla. L’intelligenza e la cultura portano alla conoscenza dei problemi, delle difficoltà, ma anche alle possibili soluzioni. Se io so, se io conosco, posso meglio capire, posso meglio scegliere e operare.

Se io non conosco, se io non so, avrò grandi difficoltà nel proporre ed attuare dei percorsi integrativi validi e realistici. È nemica dell’integrazione, quindi, l’ignoranza, intesa come non perfetta conoscenza dei problemi e delle necessità dei soggetti con disabilità. L’ignoranza porta allo sperpero di denaro, tempo, energie e risorse umane. L’ignoranza porta al sospetto e alla paura. Stimola ad interventi errati, inutili o addirittura controproducenti.

 

 

Un esempio di ciò lo ritroviamo in quei “scuolabus per handicappati”, che scorrazzano fin dal mattino presto in città per raccogliere i bambini disabili e portarli a scuola. Cosa c’è di più nobile e generoso di questa iniziativa, caldeggiata dalle associazioni benefiche e portata avanti dagli assessori comunali più illuminati e sensibili? Come non magnificare gli amministratori che organizzano questo servizio in favore dei più bisognosi? Peccato che in questa gara di solidarietà e di bontà non siano stati evidenziati e soddisfatti alcuni bisogni fondamentali del bambino disabile. Un bambino con problemi è spesso un bambino più fragile degli altri, più immaturo, più bisognoso di coccole, attenzioni e rassicurazioni degli altri. Egli vorrebbe alzarsi, circondato dalle tenere attenzioni dei suoi, quanto più tardi è possibile.

Egli vorrebbe essere accompagnato a scuola dalla mano della mamma, del papà o al massimo dei nonni, perché queste sono le persone con cui ha voglia di dialogare lungo il tragitto casa - scuola, sono queste le persone che lo rassicurano, sono queste le persone che lo fanno stare bene.

Ed è da loro che vorrebbe l’ultimo bacio e saluto prima di entrare in classe, sono i loro occhi attenti e sorridenti che vorrebbe ricordare nelle ore scolastiche. Per tali motivi non è molto piacevole per lui alzarsi prima degli altri studenti, vestirsi e prepararsi in fretta per aspettare sotto casa il pulmino che lo porterà, dopo un lungo giro per la città, a scuola. Come non è assolutamente piacevole per lui essere scorrazzato in lungo ed in largo per la città, insieme ad altri bambini con problemi a volte più gravi dei suoi, in compagnia di un’anonima accompagnatrice che sgrida i soggetti più monelli o pericolosi, per poi essere scaricato in fretta e furia davanti alla scuola.

3.    La terza condizione è l’impegno personale, il personale sacrificio. 

Sono, pertanto, nemici dell’integrazione l’ignavia, l’indifferenza, la noia, il disimpegno. L’ignavia e l’indifferenza non sono odio, non sono acredine, non sono violenza. L’ignavia e l’indifferenza spingono a non porsi i problemi o costringono a porseli ed affrontarli in modo sbrigativo e superficiale, evitando ogni riflessione, ogni coinvolgimento profondo, operando spesso senza credere neanche in quello che si fa. Anche l’indifferenza, come l’ignoranza, porta allo sperpero di denaro, di tempo ed energie preziose.

4.    La quarta condizione che favorisce l’integrazione è l’ottimismo. 

Sicuramente, nella vita di ogni giorno, sono numerosi i motivi del pessimismo: lo scarso valore dato alla vita umana nonostante gli impegni di facciata; le tante morti per guerra, terrorismo, incuria; la constatazione che è il mondo della politica più deteriore, dell’economia e della finanza più aggressiva a prevalere sul mondo dei servizi, dei sentimenti, degli affetti e della ragione. Nonostante ciò abbiamo lo stesso il dovere dell’ottimismo ragionato. Abbiamo il dovere di credere in noi stessi, nei bambini che ci sono affidati, nelle loro famiglie e nei colleghi, nei superiori, nelle istituzioni. Abbiamo il dovere di mettere accanto ad ogni pianta che muore il seme nuovo della speranza. Leggevo che in Inghilterra vi è un grande parco dedicato non a un Lord della Corona, né a un nobile come ce ne sono tanti in quell’isola ma a un uomo qualunque. Un uomo amante delle passeggiate e della natura il quale, inerpicandosi tra le brulle colline che sovrastano il suo paese, ogni tanto si fermava per riposarsi. Mentre era intento a contemplare il brullo panorama, con un legnetto era solito fare un piccolo buco nel terreno nel quale inseriva il seme di una pianta d’alto fusto. Con il tempo quei semi germogliarono. Con il tempo e con la pioggia quelle piantine crebbero. E quando formarono un bosco e nel bosco si volle creare un parco affinché i compaesani e gli stranieri potessero godere di quello splendido polmone verde, si dovette dargli un nome. Al solito, vi fu chi lo voleva chiamare con il nome di un re o di un principe del passato o ancora abitante i palazzi del potere, ma prevalse l’idea di chiamarlo, e non potevano fare una scelta migliore, con il nome di quell’ometto, apparentemente insignificante che, con il suo ottimismo e fiducia nella vita, aveva messo sotto terra tanti tanti semi sperando che un giorno germogliassero e diventassero alberi grandi e maestosi.

Anche per quanto riguarda l’obiettivo di un alto livello d’integrazione che abbiamo chiamato dell’ “essere come gli altri”, le condizioni affinché lo si raggiunga sono numerose.

1.    La prima è che si abbia come obiettivo proprio questo livello d’integrazione e quindi si creda nella possibilità di raggiungerlo operando in questa direzione con passione e determinazione. Questa condizione non è così scontata come si potrebbe credere. Molti operatori: medici, pedagogisti, psicologici, non credono affatto che l’handicap possa diminuire o migliorare. Essi sono convinti, almeno in cuor loro, dell’inutilità di tutti gli sforzi. Spesso accettano con poca voglia di effettuare degli interventi considerandoli solo come pietosi tentativi, buoni a far tacitare la propria coscienza, oltre che le proteste e le pretese dei genitori.

2.    La seconda è che si creda nelle proprie capacità. Nelle capacità quindi degli operatori e dei genitori di migliorare le potenzialità del bambino diminuendo il suo handicap.

3.    La terza è che si creda anche nelle possibilità del bambino. Che si creda cioè che il bambino, ogni bambino, anche il più grave, abbia la possibilità di migliorare la sua condizione, e di superare gradualmente le limitazioni che la malattia gli ha provocato.

4.    La quarta é che la scuola diventi un luogo di studio, non soltanto un luogo in cui si studia. Luogo quindi in cui tutti gli insegnanti, coordinati dai dirigenti e con il supporto di esperti nel settore, facciano sistematicamente ricerca. Ricerca di strumenti, metodologie, tecniche e materiali sempre più perfetti e sofisticati, indispensabili allo scopo riabilitativo ed educativo.

5.    Altra condizione é che venga effettuata un’osservazione attenta del bambino e dopo, e soltanto dopo, nasca un progetto individuale a breve, medio e lungo termine, efficace, realistico, attuabile.

6.    È, inoltre, indispensabile che si superino le dinamiche negative e distruttive che vengono spesso a crearsi tra gli operatori e le componenti della scuola. È indispensabile che venga a stabilirsi un’alleanza, un’intesa e una sinergia fra tutte le forze non solo scolastiche ma anche extrascolastiche: tra la famiglia, gli operatori della sanità, il medico di base, le associazioni di volontariato; per raggiungere insieme questo mirabile scopo comune.

 

Quali gli svantaggi e quali i vantaggi dell’integrazione?

L’integrazione del bambino disabile, spesso, almeno nella fase iniziale dell’attuazione della legge, è stata vista come una violenza legislativa. Ricordo il nostro primo intervento come équipe psicopedagogica, con i genitori dei bambini “normali” schierati davanti alla scuola per ostacolare l’invasione di alcuni bambini disabili che, con la loro presenza, per la prima volta, venivano a turbare le normali attività didattiche. In seguito, pur accettando i bambini “diversi” per un senso di giustizia e uguaglianza, molti genitori, ma anche alcuni insegnanti, hanno continuato a sentire questa legge come una violenza, in quanto il bambino con handicap per un verso veniva visto come l’elemento estraneo e diverso che creava disagio al gruppo classe e alla scuola nel suo complesso, mentre, nel contempo, richiedeva molto impegno umano ed economico da parte dello stato e della comunità.

Si sottovalutavano allora e si sottovalutano ancora oggi, molto spesso, gli apporti positivi del bambino, pur portatore di handicap che sono notevoli, molto più di quanto si possa immaginare.

Si sottovaluta, ad esempio, il fatto che il bambino disabile, proprio in quanto essere umano bisognoso di cure e attenzioni particolari, accresce nell’animo degli adulti e dei minori il senso ed il valore della solidarietà, dell’altruismo, della fratellanza, mentre nel contempo dà ai suoi coetanei, stimoli formativi essenziali alla vita sociale: come il senso dell’accettazione, della donazione e dello scambio con chi è diverso da noi.

Valori questi indispensabili per capire e accettare anche le altre diversità e non soltanto quelle legate all’handicap: la diversità del luogo di nascita, la diversità del colore della pelle, la diversità di un’altra lingua o di un’altra religione.

Il bambino disabile fa comprendere, in definitiva, che la diversità è la norma e non l’eccezione nei rapporti umani. Pertanto non solo è da accettare, ma è da valorizzare in quanto fornisce alla società quella ricchezza di apporti diversi che la completano e la rendono più ricca e viva. Questo argomento mi fa pensare ad un’insegnante particolarmente intelligente e capace incontrata in una scuola elementare la quale, avendo nella stessa classe una bambina particolarmente bella e un’altra con una grave disabilità motoria che le dava un aspetto estremamente sgradevole, aveva accettato con gioia che la prima, la più bella della classe, desse all’altra, la più bruttina, l’assistenza e le cure necessarie durante la sua permanenza a scuola. Tra queste due bambine, infatti, era nata un’amicizia ed un’intesa particolare che le aveva unite profondamente nella diversità.

Quando incontrai quest’insegnante, per la prima volta, in occasione della visita alla bambina cerebropatica, ella mi disse che aveva in questo modo risolto due problemi: quello della bambina sgradevole e bisognosa di assistenza, ma anche il problema dell’altra bambina, la quale, sia a casa che a scuola, veniva continuamente vezzeggiata e valorizzata soprattutto per la sua bellezza esteriore, mentre nel contempo veniva trascurata la sua crescita spirituale ed umana.

L’esperienza con questi bambini ci permette quindi di capire che la nostra società, la società dell’effimero, dell’apparenza e del consumismo, commette un grosso errore quando vede come fonte primaria di soddisfazione soltanto la bellezza, il fascino, la forza e l’intelligenza. Sbaglia, quando vede come valori primari la ricchezza, gli oggetti che ne rappresentano i sintomi o il potere.

Queste esperienze ci fanno, inoltre, riflettere sul fatto che le gioie più preziose sono quelle dell’essere e non quelle dell’avere o del possedere, ci fanno intendere ancora che la relazione interumana non dovrebbe avvalersi soltanto di oggetti da dare e da ricevere in mille occasioni, come spesso avviene oggi: onomastici, compleanni, promozioni, Natale, prime comunioni ecc. ma dovrebbe basarsi sullo scambio di caldi sentimenti di dialogo, attenzione, affetto, gratitudine e amore. Ci insegnano che gli oggetti quando facciamo un regalo, dovrebbero essere solo un tramite, un espediente per far comprendere all’altro che noi gli vogliamo bene, gli siamo vicini e che il nostro cuore è accanto al suo.

Il bambino disabile riesce quindi ad inserire, con la sua presenza, nuovi e più maturi parametri nella nostra vita, aiutandoci a diventare più ricchi nell’animo, più responsabili, più maturi, più forti.

E quanto abbiamo bisogno oggi di stimoli ad una maggio-re maturità e responsabilità! Oggi che i nostri ragazzi non riescono a diventare grandi, non riescono a diventare responsabili e maturi a causa delle mille cose futili di cui li circondiamo e copriamo: il vestito firmato, le scarpe griffate o all’ultima moda, gli oggetti con cui riempiamo la loro stanza mentre impoveriamo il loro cuore. Sono questi comportamenti, stimolati dalla società dei consumi, che impediscono loro di crescere attraverso le difficoltà e le conquiste.

 

Ma che vuol dire diventare più maturi, più forti, più grandi?

Significa riuscire a non soccombere alle prime difficoltà, alle prime sofferenze. Significa riuscire a resistere ai nuovi flagelli dell’umanità: come l’indifferenza, l’apatia, la droga, il suicidio, l’alienazione.

Da ciò possiamo capire come la presenza di un bambino disabile nella scuola, sia preziosa per la maturazione delle future generazioni.

Senza dimenticare che questa presenza è fondamentale per la ricerca psicopedagogica più avanzata. Questa presenza spinge gli specialisti del settore ad effettuare nuove e più incisive esperienze. Essa incoraggia a scoprire nuovi strumenti che facilitino l’apprendimento e la comprensione; stimola la messa a punto di nuove tecniche, preziose non soltanto per i bambini con disabilità, ma anche per i bambini normali. Ricordiamoci, infatti, che mentre gli strumenti e le tecniche utilizzate normalmente per i bambini normali non sempre sono valide per i bambini handicappati, tutto ciò che va bene per un bambino disabile va benissimo, a fortiori, per i soggetti normali.

È superfluo sottolineare, infatti, che molti dei nuovi materiali didattici e giochi educativi, con cui i nostri figli “normali” giocano e studiano, sono stati creati per i bambini in difficoltà e poi, come preziosa ricaduta della ricerca nell’ambito speciale, sono utilizzati da tutti i bambini.

Allora benvenuti. Benvenuti nelle nostre classi, nella nostra società, insieme a noi, a quelli che sentono, amano e sono come noi.

LA SOCIALIZZAZIONE

La socializzazione con i coetanei crea numerose problematiche che non sempre vengono affrontate correttamente.

Ad esempio spesso non si tiene conto che la socializzazione nasce dall’interno del bambino e non dall’esterno. É nel suo animo, è nella sua mente che stanno i presupposti affinché l’Io del bambino accolga gli altri, li accetti, li cerchi e desideri, con loro instauri un dialogo efficace.

Nei processi di socializzazione entrano in gioco varie componenti: l’età, la maturità affettiva, la situazione psicologica.

 

L’età

La socializzazione avviene attraverso varie tappe. La prima è quella che permette al bambino di stare bene con se stesso e con la propria madre. Il rapporto con la madre è il primo basilare pilastro dal quale possono partire gli altri momenti di socializzazione. Solo se il rapporto e la comunicazione con la figura materna è stato positivo e creativo, il bambino si aprirà al padre e poi, successivamente ma gradualmente, alle altre figure: fratelli, nonni, zii, amici, compagni di scuola, insegnanti, estranei.

Se il rapporto con la madre ed il padre presuppone un’età mentale di pochi giorni, il rapporto con i nonni, i fratelli e gli zii presuppone un’età mentale di qualche mese. Quello con i cugini o amici con i quali vi è una frequentazione molto intensa, necessita di circa due – tre anni. Quello con i compagni di una scuola materna almeno tre - quattro anni. Quello con i compagni di scuola elementare almeno cinque – sei anni di età mentale.

Non sempre questi limiti riguardanti l’età vengono rispettati. Spesso viene consigliato l’inserimento in scuola materna a bambini che ancora avrebbero bisogno del caldo nido delle braccia materne o della protezione della loro casa. Spesso si inseriscono bambini ritardati nella scuola elementare quando ancora avrebbero bisogno di spazi liberi e gioiosi come quelli presenti nelle scuole materne. In tal modo, non solo non viene conquistato nulla sul piano della socializzazione, ma il disagio psicologico che queste situazioni comportano limita di molto anche la possibilità di acquisire elementi cognitivi (linguaggio, autonomia, sviluppo logico e della percezione, pregrafismo ecc.), rendendo vano ogni tentativo volto all’apprendimento.

La serenità interiore.

Se l’età mentale è adeguata e l’io del bambino è maturo e sereno, egli coglierà ogni occasione per dialogare, giocare, collaborare, scambiare e legarsi affettivamente agli altri. Se l’io del bambino è immaturo, spaventato o fragile,  gli altri coetanei e gli ambienti sconosciuti spesso rappresentano per lui solo minaccia, limitazione, disturbo, inquietudine ed ansia. 

È indispensabile in questi casi un attento esame del minore teso a valutare l’impatto con una realtà nuova e diversa,  come può essere un’aula scolastica, con figure di adulti e coetanei con cui non si è instaurato né un legame affettivo, né un rapporto di fiducia.

Bisogna valutare pertanto:

1.    il grado di serenità del bambino in tutte le occasioni della vita quotidiana;

2.    l’avere o no conquistato lo spazio fisico e psicologico attorno a lui. Segnali positivi si hanno quando il bambino non ha paura di spostarsi non solo nella sua stanza ma da una stanza all’altra della casa, e non teme di  restare nella casa dei nonni, degli zii, e degli amici o compagni di gioco, con i quali si intrattiene piacevolmente senza problemi;

3.    altri segnali positivi sono dati dal superamento del legame con gli oggetti con i quali vi è un particolare attaccamento. La sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto, non sono più cose di cui non può fare a meno. Può accettare e accetta con piacere, per qualche ora altri oggetti per giocare, altri oggetti con cui alimentarsi o adempiere alle funzioni fisiologiche.

Se questi segnali non sono evidenti, l’inserire il bambino disabile in un ambito istituzionale: asilo nido, scuola materna o scuola elementare diventa un trauma ed una forzatura che potrebbe portarlo a regredire a stadi precedenti in alcuni o in tutti i settori evolutivi, impedendogli una normale crescita affettiva e relazionale.

I campanelli d’allarme che, in queste situazioni di disagio, i bambini lanciano sono abbastanza precisi: il pianto, la chiusura, la tristezza, la malinconia, il rifiuto di andare a scuola, i sintomi somatici (cefalea, vomito, disturbi gastrointestinali). Ebbene questi campanelli d’allarme devono essere prontamente riconosciuti e accolti.

Purtroppo, non sempre questo avviene, in quanto è ampiamente sopravvalutato l’apporto scolastico nei bambini disabili rispetto alla sofferenza subita. Conseguentemente si ottiene poco o nulla sul piano della crescita didattica ed intellettiva, mentre nel contempo si aggiunge all’handicap organico anche quello psicologico che fa peggiorare di molto il futuro relazionale e sociale di questi minori.

 

Handicap ed integrazione

 

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È una cosa rara la patologia?

Il fatto che la patologia non sia una cosa rara lo tocchiamo con mano ogni volta che andiamo dal nostro medico di famiglia e siamo costretti a fare la coda solo per ottenere una ricetta o peggio, quando dobbiamo affrontare un esame clinico particolare e vi è una lista d’attesa di qualche mese. In queste ed in molte altre occasioni ci accorgiamo di come la malattia non sia l’eccezione ma spesso, purtroppo, la regola.

E per quanto riguarda l’handicap? È una cosa rara l’handicap?

Sicuramente la disabilità prima o poi nella vita colpisce un po’ tutti. Tutti infatti prima o poi subiamo una malattia o un trauma che ci rende, per un periodo più o meno lungo, disabili. La disabilità ci colpisce da anziani, quando, per camminare ci facciamo sostenere da un bastone o da un figlio compiacente, o quando, per salire al nostro piano, non possiamo fare a meno dell’ascensore. Ci colpisce dopo i quaranta anni, ad un’età in cui dallo schermo TV tutti ci vogliono convincere che siamo ancora giovanissimi, mentre ci accorgiamo che per leggere abbiamo bisogno di inforcare gli occhiali o allungare le braccia a più non posso.

Ma anche da ragazzi l’handicap e la disabilità sono pronti a ghermirci. Penso, ad esempio, a quando, dopo essere saliti baldanzosi con la seggiovia sulle cime innevate ci lanciamo dall’alto con gli sci appena comprati, vestiti all’ultima moda, sicuri di fare bella figura ed invece roviniamo a valle nelle pose più scomposte e con qualche osso rotto.

A parte le malattie ed i traumi, spesso l’handicap si manifesta in forme più sottili ma altrettanto pesanti: come quando ad esempio non riusciamo a relazionarci efficacemente con i nostri genitori; o quando non riusciamo a trovare le parole giuste nei confronti dei figli ribelli per far capire loro i bisogni educativi; oppure quando con i colleghi o l’altro coniuge, l’accordo e la pace sembrano un miraggio irraggiungibile.  Abbiamo usato vari termini: malattia, disabilità, handicap ma questi termini sono sinonimi? No, non sono sinonimi.

La malattia è l’evento morboso che ci può colpire (virus, batterio, trauma ecc).

La disabilità indica la lesione oggettiva che possiamo avere a causa di un evento morboso, ad esempio la frattura del femore, un’ulcera gastrica o il ritardo mentale.

L’handicap è invece relativo all’ambiente sociale e culturale e quindi all’organizzazione della società in cui viviamo, che può strutturarsi esaltando le differenze ed emarginando la persona colpita da disabilità, come invece può organizzarsi e strutturarsi lottando con ogni mezzo per ridurre al minimo il divario tra noi e gli altri, tra la persona disabile ed i “normali”. Per tale motivo vi può essere una grave disabilità ma un piccolo handicap, oppure, all’opposto, una lieve o nessuna disabilità può comportare lo stesso un grave handicap. Può capitare, ad esempio, di ritrovarsi in un paese straniero senza conoscere la lingua e di non sapere come farsi ricondurre nell’albergo che si è scioccamente lasciato, sicuri di sapersi orientare.

Oggi si tende ad usare il termine diversamente abile o diversabile, per sottolineare la presenza di altre abilità che è giusto ed importante far emergere e valorizzare. Qualsiasi denominazione ha i suoi pregi e i suoi rischi. L’uso di quest’ultimo termine, che ha il pregio di sottolineare gli elementi positivi presenti in ogni persona, potrebbe comportare, ad esempio, un’accettazione incondizionata della disabilità e dell’handicap e quindi una limitazione nelle prospettive e nell’impegno nell’affrontarli e superarli.

 

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