Problematiche psicoaffettive

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I disturbi del comportamento: sintomi, cause e interventi

 Nei termini di disturbi del comportamento o della condotta sono descritti una serie di comportamenti inadeguati, in cui i diritti fondamentale degli altri oppure le norme e le regole della vita sociale vengono violate. I bambini che presentano disturbi della condotta si riconoscono facilmente in quanto sono la disperazione dei loro genitori, degli insegnanti e di tutti gli educatori in genere. Sono chiamati “bambini difficili” o “bambini terribili”, per evitare di utilizzare la denominazione di “bambini cattivi”, che comporterebbe un giudizio e una condanna morale.

 

Come denominare, d’altra parte, dei bambini litigiosi, che perdono facilmente il controllo, che hanno atteggiamenti aggressivi, vendicativi, rancorosi, che dicono bugie, che usano un linguaggio scurrile? Come giudicare dei bambini irritanti, che sembra provino gusto a violare le regole, sia in ambito familiare che scolastico ed extrascolastico? Bambini che sognano e, a volte, attuano delle fughe, che marinano la scuola? Come valutare dei bambini apparentemente insensibili per i danni arrecati agli altri, mentre sono pronti a sfidare e accusare coetanei ed adulti? Bambini che sembra non provino alcun sentimento di colpa o vergogna delle loro condotte deplorevoli? Bambini che, per evitare severe punizioni, sembra facciano finta di pentirsi e di avvertire sensi di colpa, per poi continuare a commettere gli stessi atti e assumere gli stessi comportamenti?

D’altra parte le punizioni, anche le più severe, come la espulsione dalla scuola o gli schiaffi della madre, o peggio le cinghiate del padre, in seguito alle loro bravate, sembrano non avere alcun effetto positivo. Il loro comportamento non si modifica, se non di poco e per breve tempo, dopodiché continuano ad aggredire, continuano a marinare la scuola, continuano a rubare e a dire parolacce.

In sintesi, i bambini che presentano disturbi della condotta possono presentare:

  •   scarsa attenzione per i sentimenti altrui;
  •   atteggiamenti disubbidienti, irritanti, di sfida e accusa;
  •   poco rispetto ed empatia verso i bisogni e le necessità degli altri e verso i loro oggetti;
  •   sentimenti di acredine verso chi ha fatto loro del male;
  •   atteggiamenti aggressivi e, a volte, crudeli verso le persone e gli animali;
  •   gioia e godimento nel distruggere, far dispetto o del male agli altri: male fisico con violenze e, a volte, lesioni gratuite o provocate da atti assolutamente irrilevanti, ma anche male morale, in quanto nell’età dell’adolescenza questi ragazzi possono trascinare gli altri, “i buoni”, in atti e condotte deplorevoli: come il bere eccessivamente, il fumare, il fare baldoria;
  •   scarsa sensibilità nei confronti degli atteggiamenti educativi autoritari e punitivi;
  •   presenza frequente di linguaggio scurrile.

I ragazzi più grandi che presentano disturbi della condotta, sono quelli che più marinano la scuola, ed è anche per questo che hanno minori competenze cognitive; sono quelli che più facilmente fuggono di casa e, a volte, trascorrono la notte fuori casa; possono compiere vari gesti delinquenziali: furti, scippi, estorsioni, prepotenze e atti di bullismo nei confronti dei coetanei, violenze sessuali, imbrattamento di muri, danneggiamento dei monumenti, frodi, furti ecc.

A causa dei loro comportamenti questi minori sollecitano atteggiamenti di rifiuto, non accettazione ed isolamento sia dagli adulti, come i genitori e gli insegnanti, sia, a volte, anche dai compagni, quando i loro comportamenti disturbanti e aggressivi si rivolgono verso di essi.

La gravità di questi sintomi può essere molto varia, per cui il disturbo della condotta può essere classificato come: lieve, medio o grave, in base al numero, alla tipologia e all’intensità con i quali si presentano i comportamenti disturbanti del bambino. Il numero di minori ai quali viene diagnosticato un disturbo della condotta appare nettamente aumentato negli ultimi decenni.

Le cause

Cause neurobiologiche

Viene ipotizzata una predisposizione genetica in quanto, almeno uno dei genitori presenta spesso un disturbo analogo e tra gli ascendenti e collaterali sono presenti disturbi psicopatologici: quali dipendenza da alcool, disturbi dell’umore e schizofrenia.[1]

Cause ambientali

Queste cause assumono un significato preminente[2]. Se si scava nella vita intima di questi minori, ci si accorge che, anche senza volerlo, è stato fatto loro o ancora viene fatto del male.

A volte si scopre che hanno subìto del male fisico, ma il più spesso è stato fatto loro del male psicologico: “rifiuto e abbandono da parte dei genitori, […] norme contraddittorie di educazione con disciplina rigida, maltrattamento fisico e sessuale, mancanza di sorveglianza, inserimento precoce in istituzioni, frequenti cambiamenti delle persone che si prendono cura del soggetto,[…] rifiuto da parte dei coetanei, esposizione alla violenza da parte del vicinato.[3]  Anche per Bowlby,[4] questi disturbi nascono quando il bambino è sottoposto a un’eccessiva pressione. Cosicché deve usare massicciamente le sue manovre difensive per fronteggiare l’ansia.

Tali pressioni possono scaturire dalle malattie organiche, da un impedimento fisico, dalla povertà delle doti intellettuali e da molte altre circostanze ambientali: rifiuto e ostilità aperta da parte dei genitori, illegittimità, perdita delle cure materne. Per Wolff, [5] a volte un genitore di questi bambini, spesso la madre, ha un atteggiamento ambivalente: da una parte rimprovera il figlio per il suo comportamento, dall’altra, senza esserne consapevole, lo incoraggia. Vi è pertanto in queste madri incoerenza o inconscia permissività. Alcune perdonano per anni un comportamento delinquenziale prima di agire sul figlio in maniera inaspettata, e spesso lo fanno solo quando il suo comportamento ha attirato sulla famiglia l’attenzione pubblica.

Altre cause possono ricercarsi nella tensione sotterranea o nell’aperto conflitto genitoriale. Questi minori sono spesso il campo di battaglia o le armi usate nei conflitti tra i coniugi, quando questi non riescono a tenere lontani i propri figli dal loro comportamento conflittuale.

Altri genitori, infine, nel campo della disciplina non riescono a sviluppare adeguatamente il super-ego dei loro figli [6].

In definitiva, la sofferenza subita da questi bambini provoca la loro scarsa tolleranza alle frustrazioni, la iperreattività e la rabbia interiore, che li stimola a tale tipo di comportamenti. A questo punto si innesca quasi sempre un circolo vizioso: più loro presentano dei comportamenti irritanti, aggressivi e distruttivi, più gli altri li puniscono, manifestando atteggiamenti di rifiuto, condanna morale, isolamento, non accettazione ed esclusione. Questi atteggiamenti, a loro volta, accentuano la loro frustrazione, la loro rabbia, con conseguente aumento dei disturbi della condotta.



[1] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 325.

[2] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 325.

[3] DSM – IV – TR, (2005), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, Masson.

[4] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 48.

[5] Wolff S., (1969), Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando - Armando Editore, p. 164.

[6] Wolff S., (1969), Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando - Armando Editore, p. 164.

Interventi nei disturbi del comportamento

 Nei disturbi del comportamento spesso gli operatori e i genitori si chiedono se e come intervenire. Se è bene punire o consolare. Se avere un atteggiamento indifferente o permissivo.

Come abbiamo detto parlando dei vari sintomi, ognuno di questi può avere più motivazioni. È importante scoprire qual è quella corretta. Se il disturbo del comportamento scaturisce da problematiche psicoaffettive del minore è assolutamente inutile basare il nostro intervento sulle punizioni, sui rimproveri o sui castighi. Queste misure non farebbero che peggiorare i suoi vissuti interiori, già notevolmente disturbati.

Un bambino con molti problemi psicologici difficilmente potrà comportarsi in modo esemplare! Per ottenere dei miglioramenti sul piano del comportamento è necessario fare in modo che il bambino acquisti maggiore serenità e fiducia negli altri e in se stesso. Bisogna, quindi, impegnarsi a migliorare la sua autostima, ma anche la fiducia nei suoi genitori, o comunque in qualche adulto dal quale possa introiettare un’immagine positiva.

Se invece riteniamo che a questo bambino sia mancata una guida efficace, la presenza di un adulto autorevole, ma anche affettuoso, potrebbe ottenere dei buoni risultati in breve tempo. Quando manca ai minori un adulto che dia loro delle precise regole, essi si sentono come abbandonati a se stessi. Pertanto le manifestazioni di ostilità, prepotenza e aggressività vanno affrontate e contenute dall’adulto, pur senza atteggiamenti repressivi. Il controllo esterno tranquillizza il bambino e gli dà la possibilità di imparare a controllare la propria ostilità e di adattare i propri desideri alla realtà che lo circonda. In tal modo egli si sentirà maggiormente protetto dai suoi stessi impulsi, dall’ansietà e sensi di colpa che tali impulsi comportano.

Questi interventi necessitano però del massimo rispetto. I bambini non vanno né umiliati, né ridicolizzati. Inoltre, se vengono stabilite delle regole chiare e precise la necessità di punizioni è ridotta al minimo. Quando un divieto non viene rispettato è bene manifestare dispiacere in modo sincero e disapprovare non il bambino ma l’azione che egli ha compiuto. Se poi viene spiegato al bambino cosa comporta o può comportare il suo comportamento errato e quale invece sarebbe stato il comportamento corretto, è più facile che egli impari a comportarsi meglio.

Vi è un’altra condizione della quale si parla poco, ed è quella nella quale lo stesso bambino presenta numerosi disturbi del comportamento con una persona, ad esempio, il padre, ma non con un’altra, ad esempio, con la madre o con la nonna. Allo stesso modo un disturbo del comportamento si può manifestare in un ambiente,  ad esempio a scuola ma non a casa o viceversa. In questi casi è evidente che l’impegno terapeutico dovrà necessariamente essere rivolto prevalentemente a queste persone o a questo ambiente, piuttosto che al bambino.

Le punizioni

 

Sappiamo che è illusorio pensare di potere fare a meno delle punizioni; ma quando i genitori sono autorevoli e la loro linea educativa è chiara, precisa e ferma, quest’evenienza si dovrebbe presentare raramente. Nel caso in cui questo non avviene, per cui si nota che i comportamenti errati sono troppo frequenti, bisogna necessariamente chiedersi se lo stile educativo utilizzato sia corretto.

Le punizioni, per non essere inopportune, devono essere giuste, equilibrate e limitate nel tempo e devono inserirsi in un disegno educativo sereno e lineare.

Le punizioni possono essere inopportune per vari motivi:

  • quando il bambino a causa della sua età o maturità intellettiva o affettiva non ha ancora la consapevolezza della mancanza fatta;
  • quando non è in grado di controllare efficacemente le proprie azioni. Ad esempio, a causa della presenza di problematiche psicologiche;
  • quando il bambino non aveva alcuna intenzione di trasgredire, per cui la mancanza evidenziata è stata causata da un evento occasionale;
  • quando i genitori non avevano stabilito una norma chiara e precisa. Spesso le punizioni nascono in quanto il bambino non sa esattamente quali sono i propri diritti e i propri doveri.
  • quando la punizione nasce da uno sfogo di malumore o da un momento di collera, da paure o ansie immotivate o da stanchezza dei genitori o degli educatori;
  • quando i limiti e i divieti imposti al bambino sono eccessivi;

È bene evitare le punizioni fisiche in quanto, mediante questo tipo di punizioni, si ottiene sì una immediata docilità e remissività da parte del bambino, accompagnata dall’istantanea interruzione del comportamento inopportuno messo in atto, ma non viene raggiunto l’obiettivo più importante, rappresentato dal mantenimento del comportamento adeguato nel tempo, anche in assenza dei genitori.

Dice la Bonino[1]:

“… è bene ricordare che le punizioni fisiche sono del tutto inutili per recuperare autorevolezza e insegnare ai bambini a comportarsi in modo positivo. Non servono per ottenere il rispetto delle regole di convivenza e sono anzi controproducenti. La punizione fisica, anzitutto, insegna ai bambini che i problemi si risolvono con l’aggressione, cioè con la legge del più forte. In questo modo non imparano a risolvere le situazioni difficili, e soprattutto non imparano ad affrontare i conflitti in modo costruttivo, con soluzioni meno primitive e capaci di appianare davvero i problemi di convivenza: i bambini non possono imparare a non picchiare se vengono picchiati”. Inoltre spesso la punizione fisica è frutto di esasperazione, irritazione, o stanchezza, è quindi frutto di una reazione impulsiva, per cui non ne risulta alcun apprendimento.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

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[1] Bonino  S., (2012), “L’assurdità delle punizioni fisiche:  Ti picchio per insegnarti a non picchiare”, Psicologia contemporanea, gennaio-febbraio, p. 34.

La diagnosi in neuropsichiatria infantile: approccio categoriale e approccio dimensionale

Il significato dei sintomi

Alcuni sintomi presentati dai bambini rappresentano delle modalità di reazione immediata all’evento o agli eventi negativi nel quale sono coinvolti, altri tipi di sintomi segnalano le conseguenze del danno causato sulla psiche da parte di questi eventi negativi, altri ancora devono considerarsi come la messa in atto, da parte dell’Io del bambino, di particolari difese.

Per Stefana e Gamba[1]: “Serve ricordare che la sintomatologia, come le monete, ha due facce: esprime le difficoltà, ma anche il miglior adattamento possibile per quella persona nel tentativo di difendersi dall’angoscia e dal dolore”.

In ogni caso i sintomi sono soltanto dei segnali o, se volete, dei messaggi inviati da un Io in difficoltà o chiaramente sofferente per cui “per la psicoanalisi il sintomo è indice di un disagio soggettivo, che non può essere letto se non si prende in considerazione il vissuto del bambino e il contesto familiare e sociale in cui è inserito e si manifesta”[2].

Solo se riusciamo a capire ciò che avviene nella psiche del bambino e nell’ambiente in cui vive, abbiamo la possibilità di comprendere quali sofferenze egli prova, quali difficoltà e conflitti attanagliano il suo animo e cosa possiamo noi fare per alleviare le sue angosce.

I sintomi presentati dai bambini hanno alcune caratteristiche peculiari che li distinguono da quelli degli adulti:

  •   molto più di quelli dell’adulto hanno un carattere di reattività. Pertanto possono comparire improvvisamente, quando per il bambino la realtà di vita diventa penosa, così come possono sparire, col semplice mutamento delle condizioni ambientali.
  •   non hanno alcun significato generale. Il loro significato è personale e specifico per ciascun bambino. Ad esempio, il sintomo “rifiuto di andare a scuola” può manifestare molte diverse realtà: che il bambino non è ben preparato e, quindi, teme di fare una cattiva figura andando a scuola; che ha una carenza di sonno per cui gli è penoso alzarsi la mattina; che ha paura di lasciare un luogo conosciuto per uno sconosciuto; che non vuole allontanarsi dalla sua casa in quanto teme che possa accadere qualcosa di male ai suoi genitori; che se si allontana dalla sua abitazione e sta male non potrà ricevere l’aiuto necessario. E ancora lo stesso sintomo: rifiuto di andare a scuola può segnalare la sua paura di essere deriso o perseguitato dai compagni per un qualche motivo; la scarsa e difficile relazione con uno o più insegnanti, e così via.
  •   La fenomenologia psicologica e comportamentale del bambino cambia con l’età. Determinate manifestazioni sono normali ad una certa età e patologiche in altre.
  •   Le medesime situazioni disadattive possono manifestarsi nei diversi stadi dell’età evolutiva con espressioni sintomatologiche del tutto diverse. Ad esempio, la reazione alla frustrazione può manifestarsi nella prima infanzia con l’opposizione sistematica o con la regressione affettiva; nell’età prescolare e scolare si può evidenziare con crisi di pavor o con l’onicofagia. Allo stesso modo i comportamenti autoerotici di compenso delle frustrazioni possono esprimersi nella prima infanzia mediante la suzione del pollice o con i movimenti ritmici pendolari del capo e del tronco, mentre nell’età scolare possono rendersi evidenti mediante la masturbazione genitale.
  •   Sono numerose le differenze legate al sesso. I comportamenti ribelli sono nettamente più comuni nei maschietti, mentre le paure espresse e gli stadi depressivi sono più frequenti nelle femminucce. Inoltre, tanto gli uni che le altre, hanno manifestazioni esterne di aggressività verso i due – tre anni ma, nelle bambine, questo comportamento dura poco, mentre nei bambini continua fino ai primi anni della scuola elementare. Inoltre, i maschietti continuano ad esprimere verso l’esterno e mediante il corpo i loro sentimenti aggressivi, mentre le bambine tendono ad interiorizzare questo tipo di sentimenti o li esprimono con il linguaggio ed il comportamento.

Approccio categoriale e approccio dimensionale

 

Per tutti questi motivi la psichiatria dell’età evolutiva presenta le caratteristiche di una preminente asistematicità. Le forme nosograficamente ben delimitabili non solo sono le meno frequenti, ma sono anche molto discutibili, mentre sono numerose le forme non esattamente definibili nosograficamente. Pertanto non sempre è possibile ed è utile l’approccio categoriale,[3] utilizzato ad esempio dai vari DSM, che permette di raggruppare in tipi o categorie, i pazienti che hanno caratteristiche cliniche o eziopatogenetiche simili.

I motivi sono numerosi. Intanto, come dicono Sogos ed altri[4]:

 “Nell’ambito dei disturbi psichici e comportamentali, raramente è possibile stabilire categorie che siano completamente omogenee, che si escludano a vicenda e che abbiano precise caratteristiche definenti e nessun caso limite. Le categorie psicopatologiche sono generalmente prototipiche, nel senso che ciascun membro condivide con il prototipo un numero maggiore o minore di caratteristiche presenti con diversi gradi di intensità. I confini di tali categorie appaiono, dunque, per loro natura, sfumati e in alcuni casi si sovrappongono. L’appartenenza di un caso ad una classe diagnostica non preclude perciò l’appartenenza ad altre classi. Tuttavia in ogni classificazione tipologica le categorie devono poter essere delimitate le une rispetto alle altre. Se le caratteristiche definenti i raggruppamenti si definiscono in maniera continua, è necessario stabilire arbitrariamente dei confini tra le categorie. È possibile quindi trovarsi nella situazione in cui due individui, che cadono in punti adiacenti ma opposti di un confine arbitrario, vengano diagnosticati in maniera differente.

Stefana e Gamba[5] aggiungono:

 “Questo perché i criteri dei sistemi categoriali, in sé e per sé, rappresentano sostanzialmente astrazioni dettate da esigenze organizzative, garantiscono la riproducibilità e l’attendibilità della diagnosi, ma non la sua validità di costrutto”.

Sogos e altri[6] aggiungono altre critiche all’approccio categoriale:

“La prima critica nasce dalla preoccupazione – in alcuni casi fondata - che la diagnosi assuma il valore di una profezia che si autoavvera. In altre parole si teme che l’etichetta diagnostica induca nelle persone con cui l’individuo entra in relazione una serie di pregiudizi e di aspettative tali da suggerire all’etichettato un comportamento congruente ad esse”.

Pertanto le etichette psichiatriche rischiano di oscurare importanti differenze individuali con conseguente stigmatizzazione sociale del paziente.

“La seconda critica esprime invece il timore che l’inclusione di un disturbo in una categoria psicopatologica possa portare a una standardizzazione del lavoro terapeutico e a tralasciare variabili fondamentali, quali la storia di vita del paziente e la sua particolare organizzazione conoscitiva”.

L’operatore può, inoltre, essere influenzato nello scegliere i sintomi per un’ipotesi diagnostica, dai suoi pregiudizi, schemi o aspettative personali mediante un’attenzione selettiva che filtrerà il complesso di informazioni fornite dai racconti e dal comportamento del paziente.

E concludono:

“Propriamente, quindi, diagnosi e classificazione dovrebbero essere utilizzate per descrivere i disturbi e le aree di deficit e per facilitare il lavoro terapeutico, e non per qualificare persone o giustificare controlli sociali o etichettature”.

Se si vuole a qualunque costo, includere in una sindrome ben precisa la sofferenza del bambino, che si esprime mediante un’ampia e variegata costellazione di segnali, che d’altra parte spesso cambiano nel tempo, si rischia di ottenere una serie di diagnosi diverse e, soprattutto, si rischia di effettuare interventi parziali che non affrontano i veri problemi del minore, ma solo qualche manifestazione di questi problemi.

L’etichetta diagnostica non riesce assolutamente a rappresentare il bambino nella sua complessità e originalità, in quanto nulla ci dice rispetto alla sua storia, alla realtà attuale nella quale egli vive, né tantomeno ci illumina sulla possibile evoluzione del disturbo.

 

 

 

 

Un esempio di diagnosi multiple

Il caso di Marco che presentiamo è un esempio di diagnosi multiple.

Marco arrivò alla nostra osservazione quando aveva otto anni. Ma già a quindici mesi era stato visitato da uno specialista neuropsichiatra infantile, che aveva fatto diagnosi di difficoltà nel linguaggio e quindi aveva consigliato l’inserimento in un asilo nido, in modo tale che il piccolo frequentando questa istituzione avesse più stimoli linguistici.

A quattro anni, visitato da un otorinolaringoiatra questi, evidenziando un deviazione del setto nasale e lieve ipoacusia, consigliò l’asportazione delle tonsille e delle adenoidi. Cosa che venne effettuata subito dopo. Il medico consigliò, inoltre, logoterapia che il piccolo effettuò per due anni.

Visitato successivamente da un altro neuropsichiatra infantile, questi fece diagnosi di disturbi da iperattività per cui fu consigliata psicomotricità.

Visitato, infine, presso un reparto di neuropsichiatria infantile fu fatta diagnosi di dislessia, per cui furono consigliate delle attività pedagogiche specifiche per tale disturbo.

In questo excursus di visite e diagnosi, pensiamo che probabilmente, non sia stata tenuta nella giusta considerazione l’essenza delle problematiche del bambino che riguardava la sua vita relazionale. In questo caso la sua vita relazionale con la madre. Questa donna, poiché era stata praticamente assente nella vita del minore, in quanto lavorava da mattina a sera, aveva affidato il piccolo alle cure delle baby sitter e dei nonni, per cui per anni riusciva ad evidenziare e a riportare agli specialisti che consultava solo il problema del ritardo nello sviluppo del linguaggio e non certo la carenza affettiva che subiva il bambino.

Ma anche successivamente, poiché la sua attenzione era focalizzata sui sintomi, piuttosto che sulla sofferenza del figlio, le diagnosi conseguenti si modificavano nel tempo.

Quando il bambino è venuto alla nostra osservazione i problemi che la madre lamentava erano diventati ancora diversi: la donna riferiva che il figlio presentava nei suoi confronti atteggiamenti ostili, aggressivi, disubbidienti e provocatori. Anche nei confronti delle persone estranee, se contrariato, manifestava scarso controllo delle proprie emozioni con comportamenti irruenti e poco controllati, ansia notevole e distraibilità.

 Pertanto il rapporto con la madre era divenuto sempre più conflittuale in quanto, negli anni, il bambino si era spesso sentito molto trascurato.

 

 

Un difficile caso di diagnosi categoriale

Sarebbe veramente difficile inserire in una categoria ben definita i problemi presentati da Maria,  di anni 5. La bambina viveva in una famiglia nella quale ad un padre descritto come un uomo tranquillo, intelligente, estroverso, allegro, socievole, ambizioso e un po’ presuntuoso, il quale aveva uno scarso rapporto con la figlia, a causa degli impegni lavorativi, si contrapponeva una madre affettuosa, altruista, ma molto ansiosa, estremamente sensibile, a volte depressa, che aveva già sofferto di attacchi di panico, con svenimenti e palpitazioni cardiache, paure improvvise ed immotivate, per cui effettuava terapie psicologiche e farmacologiche.

Questi genitori inoltre, da ben otto anni, vivevano in uno stato di perenne conflittualità di coppia anche a causa del difficile rapporto con le famiglie d’origine.

I genitori avevano richiesto una visita della figlia in quanto questa, che aveva già vissuto male l’inserimento nella scuola materna, da qualche settimana si rifiutava categoricamente di andare a scuola. Inoltre appariva molto suscettibile, con crisi di pianto improvvise e non motivate. Urinava frequentemente durante tutta la giornata e presentava numerose fobie, soprattutto degli insetti, insieme a molte altre paure: che i genitori potessero morire, che potessero abbandonarla, che lei stessa potesse morire anche per piccole ferite o malanni. A volte la bambina sgridava e rimproverava la mamma lamentando di vivere in una “famiglia sporca”. Quando vedeva bisticciare i genitori, si chiudeva in un’altra stanza e diceva, gridando, di smetterla di aggredirsi.

Voleva, inoltre, dormire nel letto dei genitori e aveva notevoli difficoltà ad allontanarsi dalla sua casa. Lamentava di essere sola, metteva il ciuccio in bocca, sia quando piangeva che quando andava a letto. Inoltre si lamentava per delle pulsazioni alle braccia e in varie parti del corpo, per dei dolori ai piedi, alle gambe e alle ginocchia. Veniva descritta, inoltre, dalla madre come “maliziosa” su temi di natura sessuale.

Una diagnosi categoriale in questo, come in molti altri casi, non solo sarebbe oltremodo difficile, ma risulterebbe assolutamente inutile al fine di capire i veri problemi della bambina, così da affrontarli efficacemente.

Una diagnosi del genere potrebbe ad esempio focalizzarsi sulle paure (fobia scolare, insetti, morte dei genitori, paura della morte, di essere abbandonata); oppure sui sintomi regressivi (mettersi il ciuccio in bocca); o ancora sulle problematiche psicosomatiche (pulsazioni alle braccia e in varie parti del corpo, dolori ai piedi, alle gambe e alle ginocchia); sui disturbi del sonno (bisogno di dormire nel letto dei genitori); o, infine, sui comportamenti aggressivi (rimproveri alla mamma di farla vivere in una famiglia sporca).

 

 

Inutile una diagnosi categoriale, soprattutto quando era possibile ascoltare direttamente dalla voce della bambina i suoi problemi, mediante i racconti che lei faceva, come questi bellissimi, ma anche tanto dolorosi, che riportiamo.

 

 

Un fiore, un diamante, un cuore e tanta puzza

 “C’era una volta una famiglia. Avevano una casa bellissima e avevano una figlia. La figlia un bel giorno ha guardato un fiore azzurro e ha detto: “Me lo voglio prendere”. Se l’è preso e dopo un po’ di giorni la bimba è diventata grande. E anche il fiore è diventato grande e dentro il fiore c’era un diamante e dentro il diamante c’era il cuoricino della bimba che stava crescendo. La bambina era felice perché aveva un diamante in casa.

Sua madre non se n’è accorta ed ha buttato il fiore con dentro il diamante ed il cuore. La figlia cercava il diamante ma non lo trovava e allora è diventata sempre più piccola, ed è diventata neonata e la mamma ha detto: “Come può essere che è diventata neonata?” Questa bimba neonata parlava e ha chiesto alla madre il diamante e la madre ha detto che era nella spazzatura. Lei (la bimba), l’ha ripreso ed era tutto sporco. Dopo l’hanno pulito, ma faceva puzza di pesce. E la bimba è tornata grande, ma, nonostante questo, è rimasta puzzolente”.

 

 

Si rimane stupiti di come una bambina di appena cinque anni abbia potuto descrivere così bene la sua storia ed i suoi problemi attuali.

L’interpretazione di questo primo racconto non è affatto difficile.

Maria si trova a vivere in una famiglia agiata (avevano una casa bellissima). Tutto sembra andare per il verso giusto. Ella è di intelligenza normale, anzi molto vivace, ha una buona stima di se, e vuole crescere rapidamente (La figlia un bel giorno ha guardato un fiore azzurro e ha detto: “me lo voglio prendere". Se l’è preso e dopo un po’ di giorni la bimba è diventata grande. E anche il fiore è diventato grande e dentro il fiore c’era un diamante e dentro il diamante c’era il cuoricino della bimba che stava crescendo). Ma c’è un grande “ma”. La madre, senza accorgersi del male che stava compiendo, mette la bambina in una situazione di grave disagio; la bambina probabilmente si riferisce ai notevoli conflitti con il padre (Sua madre non se ne accorta ed ha buttato il fiore con dentro il diamante ed il cuore). La conseguenza è stata, purtroppo, la regressione della bambina in alcuni settori dello sviluppo (La figlia cercava il diamante ma non lo trovava e allora è diventata sempre più piccola, ed è diventata neonata). La madre, accortasi che qualcosa di grave ed importante era accaduto alla figlia, ha cercato di capirne il motivo (e la mamma ha detto: “Come può essere che è diventata neonata?”)

Maria, a questo punto, fa capire in modo esplicito alla madre il suo notevole disagio (Questa bimba neonata parlava e ha chiesto alla madre il diamante e la madre ha detto che era nella spazzatura). La madre, finalmente consapevole di aver commesso degli errori, cerca di affrontare e risolvere i problemi della piccola, accettando un percorso che l’aiuti a risolvere i conflitti di coppia e porta la figlia in un centro di neuropsichiatria, in modo tale che le venga dato l’aiuto necessario per risolvere i suoi problemi. Per fortuna alcuni dei più gravi problemi dei genitori e della figlia vengono risolti (Lei (la bimba), l’ha ripreso ed era tutto sporco. Dopo l’hanno pulito, ma faceva puzza di pesce. E la bimba è tornata grande).

La bambina però si accorge che, nonostante l’impegno dei genitori e degli operatori, non tutti i suoi problemi sono stati eliminati. Qualcosa dei traumi subiti mentre aveva assistito per anni alle continue liti dei genitori era rimasto nel suo cuore (E la bimba è tornata grande, ma, nonostante questo, è rimasta puzzolente).

Il secondo racconto di Maria che riportiamo, evidenzia in modo più evidente la sua più pressante e grave problematica: il conflitto tra i genitori.

 

 

I prìncipi litigiosi

“C’era una volta una bellissima principessa che aveva un fidanzato con il quale andava a passeggiare in un prato fiorito. Un giorno hanno deciso di sposarsi e hanno fatto un figlio che si chiamava Davide. Ma litigavano e si volevano lasciare.

La mamma di Davide aveva già partorito ed era molto preoccupata perché non sapeva cosa dire al figlio quando sarebbe diventato grande. I genitori si sono lasciati per forza.

Quando Davide è cresciuto ha chiesto: “Ma io non c’è l’ho un papà?” E la mamma ha detto “Te lo spiegherò quando sarai diventato più grande!” E poi dopo gli ha detto: “Ci siamo lasciati per le (a causa delle nostre) famiglie”. Il bimbo era scappato dalla famiglia e cercava il suo papà e la mamma è andata a cercarlo. Dopo (la madre) ha trovato papà e figlio che passeggiavano e gli ha detto: “Ma tu che ci fai qui!” E ha rimproverato il papà. La mamma era disperata. Dopo hanno fatto tutti pace e vissero felici e contenti.”

 

In questo racconto ancora una volta Maria mette in evidenza come nella sua famiglia vi fossero tutti i presupposti per un matrimonio felice: la bellezza, la ricchezza, l’amore, un ambiente idilliaco, la nascita di un figlio (C’era una volta una bellissima principessa che aveva un fidanzato con il quale andava a passeggiare in un prato fiorito. Un giorno hanno deciso di sposarsi e hanno fatto un figlio che si chiamava Davide). Purtroppo, però, questi presupposti non bastano (Ma litigavano e si volevano lasciare). A questo punto è evidente la paura più grande che assilla la bambina: il timore che la separazione dei suoi genitori possa comportare la perdita del rapporto con il papà (Dopo ha trovato papà e figlio che passeggiavano e gli ha detto: “Ma tu che ci fai qui!” E ha rimproverato il papà.)

Come si può evincere da questi racconti i sintomi presentati dalla bambina ci dicono poco o nulla sulle cause dei suoi problemi, né ci fanno comprendere la sofferenza della piccola. Questi problemi, e la sofferenza che ne consegue, diventano evidenti quando le si dà la possibilità di esprimere liberamente i suoi sogni, i suoi desideri, le sue emozioni, i suoi pensieri, mediante l’uso del disegno libero e l’esposizione di qualche racconto anch’esso costruito liberamente. In definitiva noi crediamo che è dalle loro parole, dai disegni e dai loro racconti, che possiamo veramente comprendere il mondo interiore dei bambini e non certo dai loro sintomi.

L’approccio dimensionale

Per tale motivo ci sembra molto più utile l’approccio dimensionale che permette di descrivere in maniera globale il bambino nella sua complessità, peculiarità insieme alla sua storia personale e familiare. Per Militerni[7]:

 “In un sistema dimensionale viene fatto riferimento a definite dimensioni, intese come caratteristiche che si dispongono lungo un continuum con diversi gradi di espressività. In questa prospettiva uno stato emotivo (ad esempio l’ansia) o un comportamento (ad esempio, la ripetitività) o un certo modo di relazionarsi (ad esempio la socievolezza), possono essere considerate come dimensioni e vanno quindi valutate, non come elementi che permettono l’assegnazione a una categoria, ma di per se stesse, basandosi su una quantificazione degli attributi”.

Viene in definitiva attribuita una dimensione in base alla frequenza e alla gravità del sintomo. In parole povere, nell’approccio dimensionale i sintomi ci servono solo a capire quanto è profonda e intensa la sofferenza del bambino in quella fase del suo sviluppo, così come ci possono permettere di conoscere, in seguito agli interventi terapeutici, se questa sofferenza stia diminuendo oppure no.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

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[1]  Stefana  A., Gamba  A., “2013”, “Semeiotica e diagnosi psico(pato)logica”,  journal of psychopathology, 19, p. 356.

[2] Mazzoni  M., (2013), “Confusioni contemporanee”, Famiglia oggi, N° 5, p. 71.

[3] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 95.

[4] Sogos C. et al., (2009), “Dall’età prescolare all’adolescenza: la distribuzione dei life events in un campione rappresentativo della popolazione italiana”, Psichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, Vol.76, p. 81.

[5] Stefana  A., Gamba  A., “2013”, “Semeiotica e diagnosi psico(pato)logica”,  journal of psychopathology, 19, p. 357.

[6] Sogos C. et al., (2009), “Dall’età prescolare all’adolescenza: la distribuzione dei life events in un campione rappresentativo della popolazione italiana”, Psichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, Vol.76, pp. 82-83.

 

[7] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 97.

[8] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, p. 31.

[9] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 96.

 

[10] Bettelheim, B., (1987), Un genitore quasi perfetto, Milano, Feltrinelli, p.405.

La normalità e la patologia nei disturbi psichici del bambino

La normalità e la patologia nei disturbi psichici del bambino

 

 

 

È difficile definire cos’è la normalità in un bambino.

Tanto difficile che le stranezze, nel campo della neuropsichiatria infantile, sono numerose. Intanto l’osservare o non in un bambino delle problematiche psicologiche, dipende molto dalla sensibilità e dalle capacità di discernimento dell’osservatore.

Alcuni hanno notevoli difficoltà a notare elementi sicuramente patologici; altri, al contrario, giudicano come necessari di particolari attenzioni comportamenti molto vicini alla norma, se non perfettamente normali. Come conseguenza di ciò i bambini sono giudicati normali o disturbati in base alla sensibilità, all’attenzione e alle caratteristiche psicologiche degli adulti che li osservano e che si relazionano con loro.

Ad esempio, i pediatri spesso sono assaliti dalle ansie dei genitori che evidenziano nei figli dei comportamenti insoliti: disturbi del sonno, pianto frequente, rifiuto del cibo, atteggiamenti isterici, lamentazioni ipocondriache, paure, fasi regressive, atteggiamenti ossessivi, tic, ecc. Tuttavia, molti di questi sintomi, per fortuna, con il trascorrere del tempo, scompaiono senza lasciare tracce.

Al contrario, alcuni genitori non notano nulla di strano nel loro figlio, fino all'ingresso nella scuola ed è soltanto dopo la segnalazione degli insegnanti che si accorgono dei problemi dei loro piccoli. Inoltre è noto come madri e insegnanti concordino sulla valutazione di alcuni sintomi, come i tic, le balbuzie, il mentire, il rubare, i comportamenti iperattivi, ma non sono affatto d’accordo sulla valutazione di sintomi più profondi e gravi come la chiusura, la tristezza, la ritrosia, l’isolamento.

Un’altra stranezza, dovuta alla diversa interpretazione dei segnali di sofferenza del bambino, è evidente nel lavoro dell’équipe scolastiche. Se nella scuola non è presente un’équipe, i soggetti definiti patologici sono pochi. Se, invece, l’équipe è attiva nell’ambito scolastico, i bambini che presentano dei problemi diventano tanti.

Questa situazione l’abbiamo verificata personalmente. Quando venivamo chiamati in una scuola, la richiesta riguardava quasi sempre uno o due casi problematici ma, dopo qualche giorno della nostra permanenza, eravamo sommersi da segnalazioni di nominativi di alunni che presentavano, a detta degli insegnanti, disturbi tali per cui si rendeva necessario il nostro intervento. Dicevamo, scherzando, che la nostra presenza nelle aule scolastiche stimolava la produzione di bambini disabili!

 

I motivi di queste “stranezze” sono noti.

Per Freud non c’è differenza tra la persona sana e quella affetta da nevrosi. Entrambe presentano gli stessi tipi di conflitti, utilizzano gli stessi tipi di difese, attraversano nella loro infanzia gli stessi stadi di maturazione.[1] E così come per gli adulti anche tutti i bambini normali, come dice Melania Klein, hanno problemi inconsci non risolti e utilizzano gli stessi sistemi di difesa dei bambini patologici, per cui la presenza di uno o più sintomi non è un sicuro indice di patologia. Per tali motivi, quasi tutti i sintomi presenti in un bambino disturbato possono, almeno per qualche tempo e con minore gravità, manifestarsi anche in un bambino perfettamente normale.

I bambini sono, per definizione, esseri in evoluzione. Ciò significa che ogni bambino presenta, nei vari stadi di sviluppo, vari cambiamenti e momenti di crisi. Pertanto, durante il corso della sua vita possono essere presenti dei sintomi e dei disturbi che scompaiono in una fase successiva o sono sostituiti da altri.

Un altro dei motivi riguarda l’ambiente e le persone. Alcuni bambini sono infelici e inibiti a casa, ma non a scuola, mentre altri sono obbedienti e facili da controllare tra le mura domestiche, ma ribelli e difficili da gestire nella aule scolastiche. In definitiva, in base all’ambiente nel quale il minore è inserito e alle persone con le quali si relaziona, possono presentarsi o non dei comportamenti e dei sintomi che possono impensierirci.

Infine sappiamo bene come sia i familiari sia gli insegnanti si mettono facilmente in allarme quando i bambini manifestano atteggiamenti di eccessiva vivacità, intraprendenza e reattività, piuttosto che quando sono tranquilli, appartati e apatici. Questo diverso modo di manifestare la sofferenza e il disagio può spiegare, almeno in parte, il maggior numero di maschi che sono segnalati come bambini con problematiche psicologiche.

 

Come distinguere allora un bambino con problemi da uno normale?

Questa distinzione si può fare solo tenendo presenti alcuni parametri:

  1. La quantità e varietà dei sintomi. I bambini normali hanno pochi sintomi che segnalano un disagio, i bambini disturbati ne hanno molti e molto vari.
  2. La qualità dei sintomi presentati. Vi sono dei sintomi molto frequenti, mentre altri sono più rari. Per cui, la presenza di più sintomi rari fa pensare ad una patologia del bambino.
  3. L’età del minore. Vi sono delle età nelle quali alcuni comportamenti, ad esempio il balbettio, le paure, l’enuresi o l’encopresi, sono frequenti, mentre in altre età si evidenziano raramente. La presenza, quindi, di condotte non usuali per l’età, può far pensare ad una patologia.
  4. L’intensità dei sintomi. Anche l’intensità dei sintomi è importante per distinguere la patologia dalla normalità. Ciò vale per quasi tutti i sintomi: ansia, paura, irrequietezza, instabilità, aggressività, e così via. Se, ad esempio, un bambino chiede di dormire nel lettone dei genitori ma desiste facilmente, la preoccupazione per eventuali problemi psicologici del bambino sarà modesta, ma se ha assoluta necessità di dormire nel letto dei genitori, in quanto lontano da loro cade in preda al terrore e agli incubi, quest’evenienza assume maggior peso, nella complessiva diagnosi di bambino con disturbi psicologici.
  5. La durata di un sintomo. Ritornando all’esempio precedente, se un bambino piccolo chiede solo qualche volta di dormire nel lettone dei genitori, ad esempio quando ha l’influenza o altri malesseri organici, in quanto insieme a loro, si sente più sicuro e tranquillo, non ci dovremo molto preoccupare; se, invece, questo problema si prolunga negli anni, questo particolare sintomo assumerà un valore maggiore.
  6. L’esame delle linee di sviluppo del minore. Se, pur con oscillazioni varie, l’esame dello sviluppo del minore evidenzia una progressiva e armonica evoluzione delle varie aree, si può ragionevolmente suppore che la vita di questo bambino stia procedendo normalmente. Se, invece, in una o in più aree, vi è un rallentamento, un blocco o peggio una stabile regressione nello sviluppo, questo dato ci permetterà di pensare che qualcosa di importante stia turbando la psiche del bambino. In definitiva bisogna aggiungere, agli elementi precedenti, anche quello che De Ajuriaguerra e Marcelli[2] chiamano una . Questa valutazione ci permette di capire se i sintomi presentati dal bambino riescono a contenere l’angoscia conflittuale, permettendo il movimento maturativo del piccolo, oppure si dimostrano inefficaci nel frenare l’angoscia che si presenta di continuo, la quale suscita nuove condotte sintomatiche ed ostacola il movimento maturativo. Ciò vale per l’intelligenza, per il linguaggio, per gli apprendimenti, ma anche per l’autonomia, per le capacità di comunicazione e socializzazione, così come per tutte le altre aree.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 48.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 47.

 

I traumi psichici nel bambino

I traumi psichici nel bambino

 

 

 

Traumi semplici e traumi multipli

Quando ripercorriamo per motivi clinici la storia di un bambino con dei disturbi più o meno gravi, ci accorgiamo come solo raramente, la situazione ambientale patogena, sia unica, mentre, il più delle volte, sulla vita psichica del minore si addensa una costellazione di eventi negativi, dovuti a fattori organici e/o psichici i quali, insieme, concorrono al suo malessere.

Molte di queste cause riguardano il suo passato, altre sono ancora attuali e tendono a mantenere o a peggiorare un ambiente non idoneo ad un sono sviluppo della personalità del bambino.

Soprattutto nei casi più gravi, come nelle situazioni di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, ritroviamo una molteplicità di elementi negativi che si succedono nel tempo, ma che spesso sono ancora attivi e quindi ancora in grado di mantenere uno stato più o meno grave di malessere nel bambino.

 

Il caso di Francesco di 44 mesi è emblematico di queste situazioni.

Il bambino presentava all’osservazione una regressione psicotica: si dondolava nel suo lettino, il contatto con gli adulti era incostante, l’attenzione appariva molto labile. A detta dei genitori “si fissava” in uno stesso gioco per mesi interi, avvertiva crisi di terrore, rifiutava la presenza della madre, non socializzava con gli altri coetanei della scuola materna. Questi compagnetti, a loro volta, lo prendevano in giro per il suo strano modo di parlare ( lo sviluppo del suo linguaggio non superava i 20 mesi) e a causa del suo gesticolare con le dita quando avvertiva un forte imbarazzo.

La sua storia era fatta di una serie di traumi, stress e frustrazioni che erano iniziati prima ancora della sua venuta al mondo.

Era nato in una famiglia composta da una madre di alto livello culturale, descritta dal marito come “iperansiosa, protettiva e assillante”, sia nei confronti del figlio che dello stesso coniuge, in quanto estremamente precisa e ordinata. Il padre, a sua volta, era descritto dalla consorte come “un uomo socievole ma incostante, irritabile e distratto”.

Tra i genitori i litigi erano frequenti, in quanto nessuno dei due intendeva recedere dalle proprie idee e dai propri propositi. Durante la gravidanza di Francesco la madre era stata molto nervosa: non si sentiva capita dal marito ed era preda di molte, intense paure. Soprattutto temeva di perdere, a motivo di un precedente aborto spontaneo, il bambino che aspettava.

Francesco era nato all’ottavo mese a causa dell’insorgere di una gestosi nella madre. Inoltre la donna, a causa di una successiva malattia, non l’aveva potuto allattare al seno. Nei primi mesi di vita il bambino già presentava una facile irritabilità, con pianto frequente e immotivato.

La comunicazione con i genitori era però ancora discreta: il bambino appariva vivace e si dimostrava affettuoso nei loro confronti. Verso i nove mesi però la madre, per motivi di studio e di lavoro, fu costretta ad allontanarsi dal figlio per qualche mese.

Quando ritornò, notò che questi tendeva a rifiutarla. Questo comportamento, piuttosto che farla riflettere sui bisogni del piccolo e sui problemi psicologici che questi già iniziava a presentare, la indispettì e innervosì ulteriormente, per cui accentuò verso Massimo gli atteggiamenti repressivi piuttosto che quelli comprensivi e affettuosi.

Nonostante ciò, in quel periodo, nel bambino, non era ancora presente una vera regressione. Questa comparve dopo il primo anno di vita, in coincidenza con il rientro della madre al lavoro.

La donna così descrive quel periodo: “Cercava le mie coccole e le mie braccia come fosse un bambino di pochi mesi e, come un bambino di pochi mesi, piangeva per un nonnulla. Inoltre, nonostante fosse stato già svezzato da un pezzo, voleva nuovamente attaccarsi al seno”. Tuttavia, fin verso i trenta mesi, le sue capacità sociali apparivano discrete: ”chiamava gli altri bambini affacciandosi al balcone, voleva giocare con loro, li salutava da lontano”.

In questo periodo però i genitori effettuarono un trasloco molto laborioso e, nel contempo, inserirono il bambino nella scuola materna, nonostante manifestasse chiari segni di insofferenza per il distacco dal nido familiare. Solo a questo punto, dopo il trasloco e il forzato inserimento nella scuola materna, si presentarono una serie di gravi sintomi autistici: il bambino si allontanava sempre più spesso dal mondo reale per chiudersi in se stesso; si era bloccata l’evoluzione del linguaggio, la notte il piccolo si svegliava di soprassalto piangendo, mentre, dicevano i genitori: “Spesso muove le dita in modo strano, senza alcun motivo”.

Dopo aver dato ai genitori i primi suggerimenti su come meglio rapportarsi con il bambino, li congedammo esplicitando l’assoluta necessità di colloqui sistematici, sia nei confronti del bambino sia nei loro confronti, in modo tale da cercare di migliorare le gravi condizioni psichiche del minore. Nonostante ciò, e nonostante la gratuità dei nostri interventi, solo dopo due mesi ci chiesero il primo e unico controllo.

La madre riferì che vedeva il bambino più sereno. Il linguaggio era migliorato e pertanto si faceva capire meglio. A scuola ora il figlio apprendeva le canzoni e le poesie. Le crisi di pianto si erano molto ridotte. Continuava però a dormire nel lettone dei genitori e tendeva a cercare più la nonna che la madre. Pur tuttavia, nonostante gli evidenti miglioramenti e la nostra piena disponibilità i genitori smisero di far seguire il bambino, del quale, da allora non abbiamo più notizie.

Abbiamo riportato questo caso in quanto indicativo di molte realtà.

Intanto ritroviamo molte possibili concause nei disturbi presentati dal piccolo Massimo:

  •  le caratteristiche psicologiche dei genitori che avevano influenzato negativamente l’ambiente di sviluppo del bambino già prima della sua nascita. Caratteristiche psicologiche con evidenti elementi di ansia e ossessività che, a loro volta, si erano accentuate a causa della paura per un nuovo aborto e per la malattia sopraggiunta subito dopo la nascita di Massimo;
  •   i frequenti conflitti coniugali;
  •   la nascita prematura del bambino;
  •   la mancanza dell’allattamento materno, con probabile conseguente difficoltà nella costruzione di un’efficace intesa e legame madre–figlio;
  •   l’allontanamento della madre da Massimo per qualche mese, per motivi di lavoro;
  •   la scarsa disponibilità, da parte della madre, a recuperare il rapporto con bambino, al suo rientro in famiglia;
  •   un ambiente familiare stressante, a causa del trasloco;
  •   l’inserimento nella scuola materna, nonostante il bambino manifestasse in modo evidente segnali di paura e malessere;
  •   la sofferenza e il senso di esclusione di Massimo in questa scuola, accentuata dal rifiuto da parte degli altri coetanei.

È come se su questo bambino si fossero riversati, uno dopo l’altro, a cascata, una serie di eventi negativi, di difficile se non di impossibile gestione da parte del suo Io, ancora fragile e immaturo.

 

D’altra parte non possiamo che annotare una serie di comportamenti poco opportuni nella gestione e nel rapporto con il figlio da parte dei genitori, i quali manifestavano notevoli difficoltà a riconoscere e a soddisfare i suoi bisogni, ed interpretavano erroneamente i segnali della sua sofferenza come “capricci” e quindi non si attivavano correttamente e prontamente per affrontare e risolvere la sua sofferenza, ma tendevano ad infliggere al piccolo ulteriori traumi. I genitori, inoltre, non riuscivano ad impegnarsi nella correzione dei propri errori quando questi erano fatti rilevare, né accettavano l’aiuto che veniva loro offerto, se non per brevissimo tempo.

In definitiva, questo caso ben evidenzia come spesso le problematiche psicologiche che affliggono i genitori, si riversano non solo direttamente sulla psiche del bambino, ma anche sulla successiva corretta gestione dei problemi da questi presentati.

 Le conseguenze

Per comprendere le conseguenze dei vissuti psicologici stressanti, frustranti o traumatici sulla psiche di un bambino, bisogna tener presente che tutti i sentimenti e gli eventi presenti nell’ambiente, sia positivi sia negativi, tendono a lasciare nell’animo dei minori delle tracce indelebili, che possono generalizzarsi, ampliarsi ed allargarsi non solo nello spazio ma anche nel tempo.

Pertanto, quando un bambino vive dei sentimenti di gioia, di amore o di sicurezza, questi si ampliano e si espandono anche a persone e ambienti sconosciuti. Allo stesso modo la tristezza, la sfiducia, l’ansia, le paure, il dolore provati, possono essere proiettati su persone, animali o cose assolutamente innocenti ed innocui.

Se il bambino, ad esempio, teme, date le esperienze del passato con uno o con entrambi i genitori, che i suoi bisogni di tenerezza non saranno soddisfatti, ma anzi prevede che si accentueranno la sua insoddisfazione e il suo dolore, egli reagirà, almeno per un certo tempo, con malevolenza verso chiunque si avvicini a lui. Lo stesso avviene per quanto riguarda il tempo. Se per un certo tempo la sua fiducia negli altri è stata ben accetta, riconosciuta e ricompensata, è facile che egli continui ad avere fiducia negli altri anche in futuro. Al contrario, se la sua apertura e disponibilità verso il prossimo gli ha lasciato nell’animo disillusione e sofferenza, egli si aspetta che la stessa cosa avverrà anche nel futuro.

Più il bambino è piccolo e più gravemente è stato ferito, più facilmente si realizzerà e si manterrà questo ampliamento dei suoi vissuti negativi. Pertanto mentre un bambino con lievi problemi psicoaffettivi, quando incontra delle persone degne di fiducia, facilmente e rapidamente aprirà il suo cuore alla confidenza, alla speranza e all’amore, un bambino affetto da gravi disturbi psicologici avrà notevoli difficoltà a fidarsi degli altri. Pertanto quando le frustrazioni ed i traumi che ha subito e che forse ancora subisce sono avvertiti con molta intensità, il compito di chi vuole a lui avvicinarsi, per portare aiuto ed sostegno sarà molto difficile, anche se sempre possibile. Ciò in quanto le esperienze stressanti, frustranti o traumatiche, anche in base agli ultimi studi di neurobiologia, determinano, soprattutto nell’età infantile, a livello delle varie aree encefaliche, delle modifiche strutturali stabili, per cui rimangono in queste aree cerebrali delle solide tracce di queste esperienze negative.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 48.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 47.

 

Dialogo e disturbi psicoaffettivi

DIALOGO E DISTURBI PSICOAFFETTIVI

 Dott. Emidio Tribulato

 

Per instaurare con i figli un dialogo efficace dobbiamo tener presente che l’essere umano si forma mediante la comunicazione e l’interazione. L’essere umano si costruisce e si arricchisce mediante la comunicazione e l’interazione. Pertanto riteniamo che l’essere umano quando è disturbato da problemi psicologici, soprattutto se si trova in fase evolutiva, può e deve essere curato mediante un’efficace comunicazione e interazione.

Quando ci si pone in ascolto dei bambini affetti da disturbi psicoaffettivi e dei loro familiari, si ha la netta sensazione che tra i minori e le persone che sono ad essi vicine, si sia instaurata una disturbata comunicazione, fatta di sospetti e accuse reciproche, piuttosto che di reciproche intese. Gli adulti sono pronti a rinfacciare e sottolineare le molte nefandezze dei minori. Nefandezze che possono riguardare la scuola: “Non studia”- “Studia poco”- “Studia troppo lentamente”- “È sempre distratto”. Oppure possono riguardare i comportamenti dei loro figli: “Gioca con i suoi fratelli in modo violento e fa loro del male”- “Non rispetta i turni”- “Non ubbidisce”- “È sordo a ogni richiamo”- “Risponde a noi genitori in modo maleducato”, ecc.

Anche i minori, come è possibile evidenziare dai loro racconti spontanei, fanno delle accuse nei confronti degli adulti: “I miei genitori non mi capiscono e mi rimproverano e puniscono per ogni cosa”. “Sono sempre nervosi”. “Non li capisco”.

In definitiva molto spesso, quando è presente un disturbo psicoaffettivo, il dialogo tra gli adulti ed i minori è come se si fosse spezzato o addirittura interrotto, mentre, altre volte, appare notevolmente alterato e disturbato da forti emozioni negative.

Per rendere la comunicazione più efficace e funzionale è necessario utilizzare alcuni accorgimenti.

1.      Evitare la fretta.

Si dialoga bene solo quando non siamo sollecitati dall’impazienza, dalla premura o dalla foga per le cose da compiere, per le parole da dire o per le frasi che vorremmo ascoltare dall’altro. Se non abbiamo tempo sufficiente, lo stare insieme diventa una corsa finalizzata al fare e all’agire, piuttosto che al vivere, con serenità, tranquillità e pienezza, parole, gesti, sentimenti ed emozioni. Ciò è vero nel rapporto con tutti i bambini, ma è ancor più vero per i minori che presentano problematiche psicologiche. Questi, molte volte, non possiedono la capacità di aprirsi prontamente alle nostre domande, se sono fatte in modo frettoloso e convulso, senza tener conto dei loro bisogni del momento.

Le maggiori difficoltà nell’aprirsi prontamente al dialogo sono presenti in quasi tutti i disturbi psichici, ma sono maggiori quando la sofferenza si manifesta sotto forma di timidezza, chiusura, tristezza, inibizione. In questi casi, per favorire il dialogo è indispensabile creare attorno e accanto al bambino, un ambiente sereno, tranquillo, paziente e accogliente, nel quale le parole e le domande sono poche, mentre la disponobilità all’ascolto è tanta.

2.      Evitare di mettersi nel ruolo di pedanti insegnanti

I genitori e gli insegnanti sono gli educatori per eccellenza, ma un buon educatore non dovrebbe stare, come certi insegnanti pedanti, sempre con la matita rosso-blu in mano, pronti a segnalare, in maniera puntigliosa, ogni imperfezione ed ogni errore dell’educando. Il giudicare ed il riprendere in modo frequente o con toni eccessivi, compromette l’apertura, impedisce al bambino di esternare i contenuti più profondi del suo animo, esaspera e costringe alla chiusura, alla difesa, all’aggressività, oppure a dire, mentendo, ciò che l’altro si aspetta di ascoltare.

Bisogna, inoltre, tener presente che quando un bambino è disturbato dall’ansia, dalla tensione, dalle paure, dalle tristezze, diventa molto più sensibile e reattivo ad ogni osservazione e ad ogni richiamo, pertanto tende a reagire molto male a ogni osservazione. Il suo animo, già lacerato, in questi casi reagisce come può e come sa. Pertanto, mentre in un primo momento i genitori e gli insegnanti notano che i sintomi più disturbanti appaiono migliorati, tanto che per qualche giorno, dopo i rimproveri e le punizioni esemplari, il bambino si comporta meglio, successivamente, dopo breve tempo, i suoi atti ritornano uguali a prima, se non peggiori di prima.

Ciò avviene in quanto i bambini, tutti i bambini, per loro natura vorrebbero essere buoni e bravi, così da far contenti i propri genitori e gli altri educatori, rendendo nel contempo felici anche se stessi. I piccoli vivono dell’amore e della stima di papà e mamma e degli adulti. La gioia di questi è anche la loro gioia. Quando un bambino con problemi psicologici si comporta male, non è sicuramente segno di cattiveria o di monelleria. Egli interagisce in questo modo perché non riesce a fare di meglio o in modo diverso. Glielo impediscono i problemi, i conflitti e le ansie presenti nel suo animo. Glielo impediscono la rabbia e la collera dalle quali la sua mente è sconvolta; è per questo motivo che, almeno inizialmente, il bambino, utilizzando al massimo e facendo forza su se stesso, cerca con tutti i mezzi di essere come i genitori e gli altri educatori lo vorrebbero, ma poi, sopraffatto dai suoi problemi e dalla sua sofferenza, i suoi comportamenti disturbanti tendono a ripresentarsi. Spesso nella relazione genitore-figlio si instaura un circolo vizioso nel quale, ad un atteggiamento poco sereno, duro e frustrante del genitore, il figlio reagisce con uno stato di sofferenza e malessere che lo porta ad essere più irritante, aggressivo, disubbidiente, scarsamente disponibile, poco attento agli altri e ai suoi doveri. Questa condizione stimola il genitore a rimproverarlo e punirlo di più. La qual cosa peggiora i vissuti interiori del bambino e deteriora ancor più la relazione sia con l'adulto sia con tutte le altre persone con le quali il minore si confronta, ad esempio, i fratelli e le sorelle.

Bisogna allora rompere questo circolo vizioso ed instaurarne uno virtuoso in cui il protagonista non può che essere il genitore, il quale deve riuscire a sostituire ai rimproveri le lodi, ai castighi i premi.

3.      Evitare di punire in modo frequente e con troppa severità

Le punizioni, se frequenti o troppo severe, rischiano di interrompere il dialogo con i figli, i quali possono sentirsi umiliati e non amati. Inoltre il figlio dopo aver scontato le sue malefatte pensa che è pronto a farne qualche altra. Tra l’altro il figlio capisce che non è difficile evitare con qualche stratagemma di essere scoperto e punito[1] e impara ad instaurare con gli adulti una relazione fatta di bugie e falsità.

4.      Non urlare

Molto spesso si urla quando si ha timore di non riuscire a tenere sotto controllo una situazione e si spera che, alzando la voce e spaventando i bambini, questi vengano a più miti propositi, per cui si sarà obbediti prontamente. Ciò è vero sul breve periodo e su singoli episodi ma, alla lunga, come notano le stesse “madri e insegnanti urlatrici”, i loro bambini “diventano sempre più sordi e non ascoltano più”, per cui sono costrette ad alzare sempre di più il tono della voce e ad aumentare il numero e la gravità delle punizioni inferte ai disobbedienti. Il motivo di questo comportamento da parte dei bambini è semplice. Questi amano ubbidire alle persone verso le quali provano stima e rispetto. Amano ubbidire alle persone che li fanno sentire bene, mentre tendono a disubbidire alle persone che li fanno sentire male o li mettono a disagio.

  1. Ascoltare attivamente

Mettersi in ascolto significa avvertire i movimenti dell’animo del bambino e armonizzarsi con essi. Ogni genitore ha bisogno di sentire quello che i figli pensano di lui, quello che sentono, vogliono e cercano da lui e da lui si aspettano. I bambini, nonostante le tante richieste che fanno, spesso hanno solo desiderio di tenerezze, calore, presenza e affetto. Ascoltare attivamente significa cercare di apprezzare ogni tentativo di comunicazione, in modo tale da capire empaticamente ciò che c’è dietro le parole, i commenti, le domande banali, ma anche quello che vi è dietro i comportamenti. Durante l’ascolto attivo si cerca di andare oltre il significato letterale delle parole e dei gesti, così da capire le cause più profonde e vere. Per tali motivi si dovrebbe riflettere più sui bisogni dell’altro che non sulle sue parole.

In questo tipo di ascolto sono importanti anche i silenzi. Spesso, quando riusciamo a metterci sulla stessa lunghezza d’onda d’un bambino, quando il nostro cuore è accanto al suo, il semplice ascolto è già un aiuto e una terapia efficace, in quanto permette al piccolo di trovare nel nostro animo, quel conforto, quel sostegno, quella comprensione e amore che egli cerca.

L’ascolto attivo è importante in ogni comunicazione che vuole essere efficace, ma lo è ancora di più quando ci mettiamo in relazione con un bambino che presenta problemi psicologici. Questi bambini difficilmente manifestano verbalmente la loro tristezza e ansia; raramente affermano di essere turbati o sconvolti dalle paure e dalle inquitudini, né riescono con facilità a comunicare i motivi dei loro sentimenti ed emozioni. Bisogna allora che i genitori e gli educatori in genere, riescano ad andare oltre le loro parole, oltre i loro comportamenti, apparentemente incomprensibili ed a volte inaccettabili o disturbanti, al fine di capirli fino in fondo, così da poter lenire la nascosta sofferenza.

 

 

6.      Offriamo al bambino un atteggiamento accettante e incoraggiante.

Ciò significa che dobbiamo riuscire a far capire al bambino che siamo disposti ad ascoltare, se non a condividere, tutte le sue opinioni e le sue idee, anche se diverse dalle nostre, in quanto ogni essere umano, anche se piccolo ed in formazione, può essere portatore di corrette idee e opinioni. È dall’accettazione che nasce e si sviluppa un confronto positivo. Quando quest’accettazione manca, per cui vorremmo che nostro figlio fosse come noi lo abbiamo sognato e desiderato o avesse sempre le stesse caratteristiche di quando era più piccolo o di quando non aveva i problemi psicologici che adesso ha, il dialogo diventa difficile, disturbato ed improduttivo.

D’altra parte non si può forzare un bambino ad aprirsi e a confidare i sentimenti, le emozioni e i pensieri più veri e profondi, se non lo si mette nelle condizioni di sentirsi libero di dire tutto ciò che sente, sapendo che non arrecherà un grosso dispiacere o danno.

7.      Avere come prospettiva l’incontro e non lo scontro con il bambino.

 Il dialogo e la comunicazione non servono a decidere, utilizzando le parole, le idee e le sottili argomentazioni o, peggio, usando la forza e la violenza, chi è più bravo, più forte, più determinato, più resistente. Il dialogo e la comunicazione non servono, in definitiva, a dichiarare un vincitore in uno scontro, ma dovrebbero essere finalizzati a facilitare l’incontro e l’intesa. Anche se non sempre ciò è possibile, anche se non sempre si riesce a trovare quest’intesa, dovrebbe esserci però, da parte di noi adulti, in ogni momento, questo desiderio e questo tipo di tensione interiore.

8.      Il dialogo deve tenere conto delle esigenze e dei bisogni individuali.

 I bisogni di un bambino sono diversi da quelli di un altro. I bisogni di un bambino in un dato momento della sua vita, sono diversi da quelli dello stesso bambino in una fase diversa del suo sviluppo. Non esistono due bambini uguali, con gli stessi gusti, la medesima realtà interiore, gli stessi desideri, come non esistono in un essere umano gli stessi bisogni in momenti e periodi diversi della sua vita. Inoltre i bisogni di un bambino con problemi psicologici sono molto più intensi e risultano, a volte, poco chiari, lineari e coerenti, rispetto a quelli di un bambino normale ed è forse per questo che è più difficile capirli e accettarli.

9.      Cerchiamo di soddisfare i suoi bisogni più veri e profondi.

Spesso troviamo dei bambini con disturbi psicoaffettivi che piangono ore intere, che gridano e urlano a più non posso, che pestano i piedi, insultano, minacciano ed aggrediscono, per avere un giocattolo in più, un telefonino più completo e potente, un dolce proibito, un quarto d’ora in più di tv o di videogioco. Tuttavia, nel momento in cui abbiamo soddisfatto tutti questi bisogni, ritornano ad urlare e a pestare i piedi, ritornano a minacciare e ad aggredire. Di solito il commento che viene fatto a questi comportamenti è che “…i bambini di oggi non sono mai soddisfatti di quello che viene loro dato”. Tuttavia se riusciamo ad andare oltre le apparenze e a guardare i bisogni più veri e profondi, scopriamo che non è l’ultimo telefonino che loro desiderano veramente, che non è la merendina proibita, quella che cercano, non è un quarto d’ora in più di tv quello che veramente vogliono. Scopriamo, insomma, che i loro desideri più veri e profondi sono altri: desidererebbero, ad esempio, che la famiglia trascorresse, tutta insieme, più tempo; vorrebbero che tra i genitori e nella loro famiglia vi fossero più gesti di amore e meno comportamenti e parole aggressive; chiederebbero più presenza della mamma e del papà spesso assenti o troppo impegnati; vorrebbero poter giocare liberamente in spazi verdi; chiederebbero più spazio fisico e psicologico nel quale potersi muovere o anche più coccole e più intimo dialogo. In definitiva scopriamo che i cosiddetti “capricci” nascondono dei bisogni importanti e veri, che i bambini non sempre riescono ad esprimere chiaramente.

 

10.  Sforziamoci di comunicare con il dialogo sentimenti positivi

 

 

 

Molte volte l’ansia e la tristezza che ci pervadono, le difficoltà della vita, le brutture che ci circondano, gli incontri infelici, ci spingono a vedere il mondo, la vita e gli altri con sconforto ed eccessivo pessimismo. Lo stesso pessimismo e sconforto sentiamo anche nei riguardi di nostro figlio con problemi psichici: “È fatto così”– “È fatto male”– “Non c’è nulla da fare”– “Non può cambiare”– “Ogni cosa che facciamo non serve a nulla”. Queste frasi o questi pensieri, se da un parte limitano e castrano le nostre potenzialità, nel contempo scoraggiano e avviliscono un bambino già provato. Per tali motivi il suo malessere si accentua e si aggrava. Cerchiamo invece, per quanto possibile, di offrire loro un sano ottimismo, fatto di speranza e fiducia nel mondo, negli altri ma, soprattutto, in sé stessi.

11. Inseriamo sempre nel dialogo una carica e una partecipazione affettiva ricca, tenera e calda.

Le parole e gli incoraggiamenti nei confronti dei bambini con disturbi psicoaffettivi, se sono ricchi di amore e di una partecipazione tenera e calda sono in grado di aiutarli ad essere più sereni e con meno tensioni e paure. È questa maggiore serenità interiore che può contribuire alla loro maturazione e allo sviluppo della loro personalità, con conseguenze positive sul comportamento. Ciò possiamo ottenere dicendo la parola giusta al momento giusto, dando il nostro sostegno, il nostro conforto e soprattutto valorizzandoli. Ognuno di noi ha bisogno che qualcuno metta in risalto le nostre qualità e capacità e non i limiti e i difetti. Questo ci fa sentire bene, ci dà sicurezza, forza, coraggio, ci fa affrontare meglio e con più grinta la vita. La disistima da parte dell’altro, soprattutto se viene da un genitore, visto come l’essere umano più importante della sua vita, spinge i figli alla chiusura, alla tristezza, all’abbandono, allo sconforto e alla rinuncia. Oppure, al contrario, ad una maggiore irritabilità, scontrosità, se non proprio ad una chiara aggressività.

12.  Partecipiamo ai vissuti del bambino.

Nostro compito è anche partecipare ai suoi sentimenti, ai suoi vissuti, alle emozioni del momento, in modo tale che i suoi bisogni diventino i nostri bisogni, la sua sofferenza diventi la nostra sofferenza, i suoi desideri diventino i nostri desideri. In tal modo attueremo una piena partecipazione e condivisione di pensieri, sentimenti ed emozioni che rinsalderanno il nostro legame reciproco, illumineranno di gioia la sua vita, riscalderanno il suo cuore, offrendogli certezze e speranze.

13.  Comunichiamo ciò che gli è utile.

Non sempre si può comunicare tutto. Se il dialogo genitori–figli è fondamentale in un processo educativo, è vero anche che non sempre si può far partecipare di tutto i minori. Ci sono delle cose che sono appannaggio degli adulti e devono rimanere nell’ambito degli adulti. I bambini non dovrebbero essere coinvolti in argomenti che non sono in grado di capire, né essere resi complici in situazioni che potrebbero spaventarli, metterli in ansia o crear loro conflitti interiori. Pensiamo, per esempio, alle avventure sentimentali e sessuali che i genitori separati o le ragazze madri, tendono a comunicare ai figli. Pensiamo alle liti e alle beghe con i parenti o i vicini, nelle quali i genitori spesso sono coinvolti, ma ci riferiamo anche alle ansie e paure, delle quali gli adulti possono essere vittime. Queste, se comunicate ai bambini, rischiano di provocare loro una continua sensazione di pericolo imminente: “Non fare questo perché è pericoloso”- “Non fare quest’altro perché puoi morire o fare morire i tuoi genitori”.

Cerchiamo, invece, di comunicare ciò che può essere loro utile, ciò che può migliorare la loro serenità e il loro benessere interiore. Teniamo per noi tutto ciò che potrebbe accentuare il loro turbamento, le loro ansie, i loro timori. E infine proteggiamoli da tutto ciò che potrebbe metterli in conflitto con se stessi o con le persone che vorrebbero e dovrebbero amare e rispettare .

14. Il dialogo dovrebbe essere sereno, gentile e delicato.

 Cerchiamo di dialogare in modo sereno e tranquillo. “Il nostro compito è creare le condizioni per cui la voce della ragione possa essere udita e seguita. Se ci agitiamo e mettiamo in ansia, non riusciamo a far parlare quella voce così flebile, e se nostro figlio teme il nostro disappunto e le nostre punizioni, non sarà in condizione di starla ad ascoltare”.[2]

Ci appare superfluo ricordare di evitare i modi bruschi, le parole aspre che umiliano, che offendono, che allontanano e spaventano. La televisione e gli altri mass media ci stanno sempre più abituando all’uso di parole “pesanti” e offensive, usate da “eroi” aggressivi e prepotenti. Questo tipo di linguaggio non è mai utile e opportuno, anche perché il bambino rischia di farlo proprio. Pertanto tenderà ad usarlo dapprima con i suoi compagni e fratelli e successivamente, quando sarà più grande, quando non avrà più timore degli adulti, vi è il rischio concreto che lo usi proprio contro i genitori, gli altri familiari, oltre che verso gli insegnanti e gli altri educatori. La gentilezza, la dolcezza e l’accoglienza nei modi e nelle parole ripagano sempre, in quanto procurano simpatia, calore umano e benessere alle persone che ci circondano. Queste, prima o poi ci ricompenseranno con altrettanta gentilezza e dolcezza.

A

[1] Bettelheim, B., (1987), Un genitore quasi perfetto, Milano, Feltrinelli, p. 149.

[2] Bettelheim, B., (1987), Un genitore quasi perfetto, Milano, Feltrinelli, p.150.

 

Enuresi ed encopresi

 

 

 

 

Enuresi

Si definisce enuresi l’emissione attiva, completa e incontrollata di urina dopo che sia passato il periodo della maturità fisiologica. Mentre per autori come Ajuriaguerra e Marcelli[1] questa maturità si acquisisce tra i tre ed i quattro anni, per altri autori il limite dell’acquisizione fisiologica del controllo degli sfinteri dovrebbe avvenire entro i cinque-sei anni.

Si distingue un’enuresi primaria quando questo controllo non si acquisisce all’età fisiologica e un’enuresi secondaria quando questo controllo, che si era già conquistato, si perde in un momento successivo. Per quanto riguarda la frequenza l’enuresi può essere quotidiana, settimanale o saltuaria. Mentre, per quanto riguarda il momento della giornata nella quale avviene l’espulsione incontrollata dell’urina, può essere diurna, notturna o mista. L’enuresi notturna è più frequente nei maschi mentre l’enuresi diurna è più frequente nelle femmine. Questo disturbo di solito diminuisce notevolmente dopo la pubertà.

L’enuresi può comportare una diminuzione dell’autostima, può costringere il bambino a evitare di dormire fuori casa, con conseguente compromissione della sua vita relazionale e sociale, e può innescare un cattivo rapporto tra il bambino e la madre, la quale potrà sentirsi costretta a un notevole surplus di lavoro a causa di questo problema. Nell’animo della donna, in questi casi, potrà montare rabbia, collera e risentimento nei confronti del figlio ”piscione”. Questi, a sua volta, investito da questi sentimenti negativi, è facile che viva questo problema con ansia, paura, sensi di colpa e d’indegnità i quali, a loro volta, potrebbero portare non solo a una persistenza dell’enuresi, ma anche ad altre manifestazioni di sofferenza e disagio interiore. È bene pertanto impegnarsi a risolvere tale disturbo in maniera veloce e radicale, per evitare al piccolo e ai suoi familiari continue frustrazioni.

Le cause

Cause organiche

Sono stati imputati fattori genetici e diverse cause organiche: come anomalie anatomiche e funzionali della vescica; disfunzioni del tratto genito urinario; infezioni delle vie urinarie; ma anche disturbi del sonno, per cui lo stimolo ad urinare non riesce ad interrompere il sonno eccessivamente profondo del bambino. L’enuresi notturna viene associata anche alla carente produzione notturna dell’ormone antidiuretico (ADH- antidiuretic hormone) da parte dell’ipotalamo. Ormone che riduce la diuresi durante la notte. Pertanto, in questi casi, viene consigliata una terapia sostitutiva con desmopressina.

Cause psicologiche

Se le componenti organiche ed ereditarie possono contribuire all’insorgere dell’enuresi, riteniamo che i fattori di origine psicologica siano più frequenti ed importanti. Infatti l’enuresi da danno neurologico non supera di solito il 30% dei casi, mentre l’enuresi da patogenesi psichica arriva al 70%.

Il benessere o il malessere interiore influenzano notevolmente il controllo sfinterico sia delle feci sia delle urine, tanto che negli animali e negli esseri umani la paura ed altre emozioni intense non solo negative, ma anche positive, possono alterare questo controllo. Da ciò l’espressione “farsela addosso per la paura” ma anche “scompisciarsi dalle risa”.

Anche per De Ajuriaguerra e Marcelli[2]:  “I fattori psicologici restano i più evidenti. Basti ricordare la frequente corrispondenza tra comparsa e scomparsa dell’enuresi e quella di un episodio che segna la vita del bambino: separazione familiare, nascita d’un fratellino, entrata nella scuola, emozioni di qualsiasi natura …”

I motivi psicologici che possono portare all’enuresi possono essere, come per gli altri segnali di sofferenza, numerosi: conflitti familiari, carenze socio–economiche, istituzionalizzazione, ospedalizzazione, genitori con caratteristiche fobico–ossessive, atteggiamenti eccessivamente autoritari e repressivi da parte dei familiari o degli adulti, cambiamento di abitazione, approccio educativo troppo autoritario, e così via. Il bambino affetto da enuresi viene descritto con un carattere flemmatico, timido, ansioso, insicuro, pertanto l’enuresi dovuta a motivi ambientali può essere considerata come una manifestazione dell’ansia con effetto neurovegetativo sulle funzioni vescicali, oppure come espressione di ostilità verso una madre poco attenta ai bisogni del suo bambino.

 

Interventi consigliati
  •   Intanto è bene affrontare questo problema con tranquillità, serenità e fiducia.
  •   Evitare di rimproverare o colpevolizzare il bambino per questo involontario disturbo. La frustrazione che ne avrebbe, oltre al rischio di provocare problemi psicologici, potrebbe far persistere l’enuresi nel tempo. Questi bambini, al contrario, hanno bisogno di maggiori gratificazioni e rassicurazioni affettive.
  •   Fare cenare il bambino la sera molto presto o comunque qualche ora prima di metterlo a letto, in modo tale da far eliminare con l’urina, da sveglio, buona parte dell’acqua bevuta durante la cena.
  •   Evitare, soprattutto la sera, di far mangiare al bambino cibi salati o ricchi di acqua.
  •   Mettere accanto al letto del bambino una lucetta ed il suo vasino, in modo tale che egli, svegliandosi, possa urinare facilmente senza dover raggiungere il bagno.
  •   Utilizzare dei dispositivi d’allarme, che permettono al bambino di svegliarsi, appena inizia a bagnare il letto. In tal modo egli si abituerà a contrarre lo sfintere vescicale, ogni volta che suona l’allarme.
  •   È bene inoltre che i genitori, a turno, facciano fare la pipì al bambino nel vasino, almeno due-tre volte durante la notte, negli orari nei quali egli di solito si bagna.
  •   Segnare su una tabella le notti e l’orario in cui il bambino ha avuto enuresi.
  •   Per rafforzare la muscolatura vescicale e abituare ad esercitare un maggior controllo sui riflessi si può incoraggiare il bambino a contenere, per qualche tempo, la pipì durante il giorno, nei momenti di veglia, con un’azione volontaria.
  •   Per motivare maggiormente il bambino, si può ricompensarlo con un piccolo regalo ogni notte che non bagna il letto.

 

Sindrome da frequente minzione diurna

In alcuni bambini è presente uno stimolo minzionale impellente, imperioso e incoercibile durante il giorno, con intervalli molto brevi che vanno dai cinque ai venti minuti. “Anche se non si può escludere la concomitanza di qualche fattore organico scatenante, possibilmente di natura virale, la minzione frequente diurna, non accompagnata da nicturia, sembra suggerire un’etiologia di tipo comportamentale” (Walker, Rickwood, 1989, p. 48). Le cause di questo sintomo sono da ricercarsi il più delle volte in una situazione di stress, depressione e ansia del bambino.


[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 124.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 126.

 

 

L'encopresi

 

 

 

È la defecazione nelle mutande o nel pannolino anche quando il bambino ha un’età superiore ai due–tre anni.

 

Si distingue un’encopresi primaria, quando il bambino non ha ancora raggiunto un buon controllo dello sfintere anale. Ed un’encopresi secondaria, quando, dopo un periodo più o meno lungo di controllo delle feci, il bambino ritorna a sporcarsi.

 

Durante la defecazione alcuni bambini sembrano non accorgersi di quanto avviene e continuano a giocare tranquillamente, altri si isolano in un angolino e quindi volontariamente defecano fuori del vaso o del bagno, altri ancora corrono verso il bagno ma non fanno in tempo.

 

A sua volta però, questi vari comportamenti possono ritrovarsi nello stesso bambino in occasioni diverse, pertanto non è sempre chiaro quanto questo disturbo sia o no volontario. L’encopresi spesso si associa all’enuresi.[1]

 

Cause

 

Cause organiche 

 

 

 

 

Una causa “banale” può essere quella che si riscontra in bambini che soffrono di stitichezza o che presentano ragadi o altre lesioni a livello anale. In questi casi si innesta spesso un circolo vizioso: il bambino, a causa della stitichezza avverte notevole dolore durante la defecazione, per cui cerca di trattenere al massimo le feci; ciò aumenta la consistenza di queste e, quindi, si accentua il dolore del piccolo durante la defecazione. Il dolore provato, a sua volta, aumenta la repulsa del bambino verso questa funzione fisiologica.

 

Cause psicologiche

 

Per Militerni[2]: “Molto spesso il disturbo è l’espressione di una grave disarmonia nelle relazioni del bambino con i propri genitori”. Lo stesso autore afferma che in questi casi “…è frequente il riscontro di dinamiche familiari conflittuali e stili affettivo-educativi inadeguati”. Questo sintomo è spesso presente nei bambini autistici, nelle regressioni psicotiche e in altri gravi disturbi psichici. In questi casi il bambino può presentare un atteggiamento provocatorio, per cui esibisce la biancheria sporca, mostrandosi insensibile alle osservazioni e ai rimproveri.

 

Come si può ben comprendere, quasi sempre i genitori tollerano molto male questo tipo di disturbo ed assumono atteggiamenti repressivi e colpevolizzanti che accentuano le difficoltà del rapporto con il figlio e di conseguenza anche la sintomatologia.

 

Interventi

 

Quando l’encopresi è dovuta alla defecazione dolorosa gli interventi saranno rivolti ad evitare la stipsi e a curare la zona anale. Quando, invece l’encopresi è solo un indice di un disturbo psicologico più vasto e importante, come può essere un alterato rapporto genitori-figlio, bisognerà necessariamente intervenire mediante una psicoterapia rivolta sia alla famiglia sia al bambino.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

Per scaricare gratuitamente questo libro clicca qui.


[1] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 338.

[2] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 337.

 

 

 

 

L'autostima nei bambini

 

L’autostima e l’autoefficacia

L'autostima è uno degli aspetti più importanti del mondo intrapsichico dell’individuo.

Per Militerni[1]: “L’autostima può essere definita come la valutazione delle qualità che l’individuo percepisce come proprie”. Ogni individuo dà dei giudizi qualitativi su di sé e sulle proprie qualità: estetiche, morali, sociali, intellettive, motorie ecc. “A differenza dell’autostima che riguarda piuttosto un giudizio generale di valore su se stessi, l’autoefficacia consiste nella convinzione di potere raggiungere uno specifico obiettivo, realizzando tutti i passaggi per arrivare allo scopo”.[2]

L’autostima riflette non solo la visione obiettiva della nostra realtà personale, familiare e sociale, ma soprattutto rispecchia il modo con il quale gli altri ci giudicano e valutano. Possedere una scarsa autostima significa avere sentimenti negativi nei riguardi delle proprie qualità, capacità o competenze.

Quando un bambino è eccessivamente ripreso per i suoi limiti negli apprendimenti, per il suo aspetto esteriore, o per il suo modo di comportarsi, avrà necessariamente difficoltà a vedere se stesso nella giusta prospettiva, per cui è facile che la disistima porti ad ansia, insicurezza, chiusura, timidezza e tristezza la quale può andare fino a una grave depressione.

Quando è presente scarsa autostima questa, anche se nasce da un particolare difetto del minore, tende a diffondersi su tutti gli aspetti della sua vita. Se ad esempio, un bambino viene canzonato per un suo difetto fisico, vi è il rischio che la sofferenza che egli avverte a causa dei comportamenti dei suoi compagni, sconvolga il suo mondo interiore, cosicché egli potrà pensare di non essere abbastanza abile anche nell’apprendimento. Ciò lo porterà ad affrontare lo studio e le interrogazioni senza la necessaria serenità interiore e con scarsa fiducia in se stesso e nelle sue qualità, con conseguenze negative anche sul rendimento scolastico. In altri casi, al contrario, le frustrazioni subite potranno stimolare nel minore il bisogno di difendere il proprio Io dalla svalutazione operata dall’ambiente esterno, con conseguenti comportamenti instabili, aggressivi, irritanti, collerici ed esplosivi.

Le cause della disistima

Sia l’autostima che l’autoefficacia si sviluppano soprattutto grazie ad esperienze personali positive. I motivi che possono portare alla disistima possono nascere non solo da un giudizio esterno, ma anche derivare da un modo eccessivamente severo con il quale il bambino giudica se stesso, in riferimento agli altri. Può succedere, ad esempio, che un bambino si giudichi incapace in quanto, nonostante tutto il suo impegno, va male a scuola, e ciò nonostante la responsabilità del suo scarso profitto sia da addebitarsi a qualche insegnante poco capace o ai suoi genitori poco attenti e disponibili nel fornirgli nell’ambiente domestico l’aiuto e il supporto necessario o un clima adatto allo studio e all’apprendimento. D’altra parte, a sua volta, l’autostima condiziona l’apprendimento, per cui si può innescare un circolo vizioso: la scarsa autostima comporta delle difficoltà nell’apprendimento, e queste, a sua volta, diminuiscono ancor di più la fiducia in se stessi e nelle proprie qualità. Ritroviamo spesso una scarsa autostima nei bambini che presentano handicap fisici o psichici, se la gestione della disabilità non è affrontata correttamente.

Scarsa autostima si può avere quando le lodi e gli encomi sono scarsi, mentre i richiami ed i rimproveri sono frequenti. Scarsa autostima si può avere anche quando il bambino si ritrova in una famiglia disgregata o conflittuale, nella quale i genitori hanno dei comportamenti infantili, poco maturi e responsabili. In questo caso, il giudizio negativo sui genitori si riflette sul figlio stesso, in quanto facente parte della stessa comunità familiare. Ciò avviene non solo perché il bambino può pensare di essere, almeno in parte, responsabile dei conflitti o della separazione, ma anche per l’immagine negativa che i genitori danno l’uno dell’altro.

Come essere un figlio orgoglioso di sé quando la madre viene giudicata dal padre, ma anche dai familiari di questi, “una pazza, isterica; una poco di buono che ha sfasciato una famiglia per andarsene con il primo bellimbusto che ha trovato” mentre il padre è visto dalla parte avversa come “un uomo prepotente, irresponsabile ed incapace di provvedere alla sua famiglia?”

In Marco, un ragazzo di tredici anni, abbiamo potuto evidenziare la scarsa autostima solo dai suoi racconti, mentre i genitori notavano in lui e riportavano come problemi soltanto le sue paure, le difficoltà nella scrittura, le ansie ed il suo nervosismo.

Un brutto bambino che voleva imparare a guidare

“C’era una volta Luigi. Oggi era il giorno per prendersi la patente. Nella scuola guida tutti ridevano di lui perché aveva i baffi e i denti gialli. Quando è salito sulla macchina, l’insegnante si è spaventato per la sua bruttezza. Luigi si è sorpreso della reazione dell’insegnante e premeva l’acceleratore. L’insegnante gli disse che lui sbagliava. Ogni cosa che faceva lo rimproverava. Lui era molto confuso e poi, alla fine, non ha preso la patente e gli amici lo prendevano in giro. Lui provò nuovamente a guidare bene la macchina e ci riuscì, ma non si accorse che una macchina gli stava venendo addosso, lo investì e morì”.

In questo primo racconto, effettuato nel suo percorso terapeutico, il bambino descrive, come meglio non si potrebbe, cosa innesca la disistima, cosa la mantiene viva e le conseguenze che essa provoca. Intanto egli evidenzia immediatamente come la semplice diversità possa diventare agli occhi degli altri bruttezza fisica e, come ciò provochi molto spesso ilarità e dileggio (Nella scuola guida tutti ridevano di lui perché aveva i baffi e i denti gialli). L’ilarità ed il dileggio, a sua volta,provocano nel malcapitato uno stato di frustrazione che si traduce in malessere psicologico, con conseguente incapacità nelle attività intraprese (Luigi si è sorpreso della reazione dell’insegnante e premeva l’acceleratore). L’incapacità, a sua volta, alimenta altre frustrazioni: in questo caso, l’essere bocciato agli esami di guida. A queste frustrazioni consegue l’ulteriore derisione da parte dei compagni per la bocciatura (alla fine non ha preso la patente e gli amici lo prendevano in giro). Da notare come le reazioni negative di chi ci circonda, anche se adulto e con un ruolo educativo, spesso non fanno altro che accentuare i problemi del minore, vittima di queste problematiche (L’insegnante gli disse che lui sbagliava. Ogni cosa che faceva lo rimproverava).

Marco, nel suoracconto sottolinea poi, come la conseguenza della disistima provochi in lui un grave disagio interiore: la confusione, la quale, a sua volta, non fa che peggiorare il rendimento (Lui era molto confuso). Il pessimismo e lo stato mentale che ne consegue, impediscono che la reazione positiva del bambino vada a buon fine (Lui prova nuovamente a guidare bene la macchina e ci riuscì, ma non si accorse che una macchina gli stava venendo addosso, la macchina lo investì e morì).

Queste ultime, tragiche parole, con le quali Marco conclude il racconto, evidenziano molto bene lo stato d’animo dei bambini che soffrono di disistima. L’essere investito e il morire non sono solo la conseguenza funesta del disagio interiore e della conseguente confusione, possono rappresentare, purtroppo, anche il desiderio più profondo di ogni minore che si trova in questa grave situazione di malessere!

Vittima della dea della bruttezza

“C’era una volta un uomo di nome Claudio. Questo piaceva a tutte le ragazze. Un giorno, nel cielo, lo vide la dea della bruttezza che lo fece diventare brutto, con occhi di colori diversi. Quando le ragazze lo videro svennero per tanta bruttezza. Lui, scoprendo il sortilegio, salì nel cielo e chiese alla dea il motivo del sortilegio e lei gli rispose che nessuno poteva essere più bello di lei, ma che ciò che contava era la bellezza interiore e non quella esteriore”.

In questo secondo racconto Marco manifesta la sua scarsa autostima focalizzandola, ancora una volta, sulla bellezza fisica. In questo caso è l’invidia degli altri a provocare i suoi problemi. Il bambino cerca di capire il perché possa essere coinvolto in questo tipo di situazione e ne dà la responsabilità non più a se stesso ma a qualcuno fuori di lui(Un giorno, nel cielo lo vide la dea della bruttezza che lo fece diventare brutto, con occhi di colori diversi). Le conseguenze di ciò non possono che essere disastrose (Quando le ragazze lo videro svennero per tanta bruttezza)! Tuttavia poiché i suoi problemi provengono dall’esterno egli può cercare di risolverli (Lui scoprendo il sortilegio salì nel cielo e chiese alla dea il motivo del sortilegio e lei gli rispose che nessuno poteva essere più bello di lei). Alla fine del racconto il bambino prova ad accettarsi così come egli è, mettendo in bocca alla stessa dea gelosa le parole che tante volte si sarà detto per cercare di diminuire la sua scarsa autostima (che ciò che contava era la bellezza interiore e non quella esteriore).

L’albero diverso

“C’era una volta un seme, l’agricoltore ha cominciato a dare acqua al seme e, dopo un po’, è nato un bell’abete, che era diverso dagli altri: con foglie gialle a forma di albero di bosco. Gli altri pini lo vedevano diverso e lo prendevano in giro e lui rispondeva che era diverso perché era migliore e chiedeva di essere lasciato in pace. Il povero albero pensò a quello che dicevano gli altri pini e dubitava di essere un vero pino. Cercando, scoprì di essere stato piantato lì per sbaglio. Tuttavia lui era contento perché capì di essere speciale”.

Il miglioramento di Marco si evidenzia molto bene in questo terzo racconto, nel quale egli riesce ad avere una buona accettazione di sé e della sue particolari caratteristiche, così da potersi confrontare con gli altri coetanei e reagire adeguatamente ai loro dileggi (Gli altri pini lo vedevano diverso e lo prendevano in giro e lui rispondeva che era diverso perché era migliore e chiedeva di essere lasciato in pace). Ed è sempre in questo racconto che il bambino riesce a staccarsi dal bisogno di omologarsi con il gruppo esaltando le sue peculiarità. Infatti, alla fine del racconto, Marco riesce a giudicare la sua diversità non come un limite o un handicap ma come un valore (Tuttavia lui era contento perché capì di essere speciale).

Interventi

L’autostima è un bene prezioso che va coltivato e protetto. È compito dei genitori, dei familiari, degli insegnanti e degli adulti in genere, farla nascere nell’animo dei bambini e poi curarla così che cresca e si sviluppi correttamente.

  •   Per ottenere ciò, poiché l’autostima nasce innanzitutto da una buona relazione con gli adulti, è bene porsi in ascolto del bambino con attenzione, quando questi racconta le sue prodezze, le sue scoperte o le sue piccole “invenzioni”. Ciò lo farà sentire orgoglioso di sé e delle sue capacità. Inoltre è importante rispondere prontamente ai suoi bisogni, in quanto le risposte premurose e coerenti lo faranno sentire amato e, quindi, sicuro di sé.
  •   È fondamentale, inoltre, che gli adulti per lui importanti : genitori e insegnanti, avvertano il minore in modo positivo, cosicché quando si ritroveranno a parlare di lui nell’ambito della famiglia, con gli estranei o con gli amici, evidenzieranno i suoi pregi e non i suoi difetti. Allo stesso modo quando questi adulti dialogheranno con il bambino, mentre si attiveranno a lodare e sottolineare tutti i comportamenti positivi che egli attua e tutte le qualità che egli possiede, cercheranno di tralasciare eventuali deficienze o mancanze.
  •   Se il bambino presenta degli atteggiamenti e comportamenti sicuramente criticabili o negativi, è necessario analizzare tutti gli atteggiamenti provenienti dall’ambiente che tendono a peggiorarli e quelli, invece, che tendono a migliorarli. In tal modo si potranno ridurre drasticamente tutti i giudizi negativi che tendono a peggiorare la sua autostima, mentre si darà vigore a quelle parole e comportamenti che tendono a migliorarla
  •   È importante, inoltre, valorizzare tutte le peculiari capacità del piccolo, dandogli dei compiti nei quali questi possa far risaltare le proprie particolari doti e capacità. Allo stesso modo, per evitare possibili frustrazioni, gli si affideranno dei compiti adeguati alle sue possibilità intellettive e cognitive, cosicché egli li possa effettuare sempre, rapidamente e bene. Le aspettative nei suoi confronti dovranno necessariamente essere ragionevoli, senza cercare di chiedere troppo stimolandolo al di là dei suoi limiti e, soprattutto, senza fare inutili confronti con i suoi fratelli o con altri coetanei.

  È bene aiutare il bambino che presenta scarsa autostima, nel conseguimento di qualche suo obiettivo, qualunque esso sia: scolastico, sportivo, artistico, tecnico ecc. senza mai sostituirsi a lui, cosicché possa essere orgoglioso per ogni cosa da lui conseguita. Ciò è possibile fare aiutandolo nello sviluppo di alcune sue passioni che possono riguardare la pittura, il disegno, la musica, la scrittura ecc.

  Gli insegnanti, dal canto loro, cercheranno di instaurare con il bambino che ha scarsa autostima un canale di comunicazione particolare e individuale, anche se non privilegiato. Questa particolare attenzione lo farà sentire voluto bene e, quindi, più forte e sicuro. Nei lavori di gruppo lasceranno al bambino del quale vogliono migliorare l’autostima, il ruolo che gli è più congeniale ma che è anche importante per la riuscita del lavoro.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

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[1] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p.100.

[2] Bonino  S., (2012), “L’assurdità delle punizioni fisiche:  Ti picchio per insegnarti a non picchiare”, Psicologia contemporanea, gennaio-febbraio, p.26.

 

 

I disturbi alimentari nei bambini

 

L’inappetenza

 

Nei bambini, così come negli adulti, la sofferenza si manifesta spesso sul piano dell’alimentazione in quanto questa, così come la sessualità, è strettamente connessa all’affettività e ai primi rapporti madre–figlio che avvengono proprio mediante gli atti collegati alla nutrizione. La mamma che nutre il bambino dà a quest’ultimo non solo benessere organico ma anche benessere relazionale. Anche quando il bambino è più grandetto, poiché l’alimentazione è un atto sociale nel quale convergono elementi comunicativi, relazionali, affettivi ed emotivi, il piacere dell’alimentazione è strettamente legato ai rapporti che ha il figlioletto con i genitori e con l’ambiente che lo circonda.

 

Per capire l’inappetenza del bambino basta pensare a noi adulti. Raramente l’alimentazione dell’adulto si mantiene costante nel tempo: a periodi di maggior appetito o addirittura di ingordigia, si alternano giorni o periodi nei quali abbiamo poca o nessuna voglia di mangiare. La variabilità nell’alimentazione è notevole, è può essere legata a svariate cause fisiologiche, come le variazioni stagionali o a cause patologiche sia organiche che psichiche. Mangiamo meno durante le malattie, ma anche nei periodi di convalescenza. Abbiamo poco appetito o rifiutiamo il cibo quando l’ansia attanaglia il nostro stomaco, quando ci assale la tristezza e la depressione, ma anche quando siamo molto irritati o sconvolti. A sua volta però è anche esperienza comune di come l’ansia, l’insoddisfazione e la malinconia possano portarci ad un’alimentazione eccessiva, nell’intento di cercare una gratificazione che sopperisca alle gioie che in quel momento ci sono negate.

 

Problemi di inappetenza nei bambini possono essere dovuti a dei cambiamenti nel regime alimentare, durante il passaggio da un’alimentazione liquida a una solida, da un’alimentazione dolce a una salata. Periodi di inappetenza sono presenti quando è presente una minore crescita che richiede fisiologicamente un minor apporto calorico; quando il bambino soffre per malesseri fisici come i disturbi intestinali, le malattie influenzali ed esantematiche che colpiscono frequentemente i minori o a causa di momenti di maggiore stress, ansia e irritabilità. Alcune volte le scelte alimentari sono associate agli stati affettivi, per cui un cibo diventa “odioso” per diversi anni, solo perché a quel cibo la psiche del bambino collega degli eventi traumatici o stressanti.

 

Pertanto, giorni o periodi di inappetenza fanno parte della normale vita del bambino e quindi non dovrebbero creare alcuna preoccupazione. In questi periodi è sufficiente aspettare serenamente che le condizioni del piccolo si ristabiliscano. Ma poiché il cibo viene visto soprattutto dalle madri come l’elemento fondamentale per la vita dei figli e anche come l’essenza stessa delle proprie capacità di cura, il rifiuto del cibo, anche se limitato od occasionale, crea facilmente nelle donne ansiose, insicure  o eccessivamente pignole, un senso di inadeguatezza che le stimola a insistere nel proporre alimenti, anche se il bambino per un motivo qualsiasi si rifiuta di assumerli. Questo insistere, affinché il bambino mangi, diventa come una lotta tra il bambino e la madre. Ed è una lotta che danneggia l’uno e l’altra. Danneggia il bambino in quanto questi si sente soffocato dall’ansia materna e perde il piacere del cibo, stressa e deprime la madre, in quanto questa avverte il bambino come fonte di problemi, piuttosto che di piaceri e gratificazioni, per cui più intensi sono i conflitti tra la madre e il bambino durante il pasto, maggiori saranno i comportamenti di rifiuto alimentare (Ammanniti, 2009, p.28). Purtroppo questi conflitti rischiano di rompere o alterare quel basilare legame madre–figlio indispensabile per una crescita sana e armonica.

 

Interventi

 

Per migliorare il rapporto del bambino nei confronti del cibo, basta pensare che la natura ha legato intensi piaceri agli atti fondamentali per la sopravvivenza: com’è l’atto della sessualità e dell’alimentazione. Compito dei genitori è soltanto quello di mantenere nel bambino il piacere di nutrirsi, evitando comportamenti incongrui come associare a questi atti emozioni negative. Pertanto è bene creare durante i pasti un’atmosfera gradevole e libera da tensioni (Oliverio Ferraris, 2005, p. 140), evitando argomenti di discussione troppo accesi, deprimenti o spiacevoli. Soprattutto è importante evitare continui rimbrotti: “Stai seduto correttamente”. Non toccare il cibo con le mani”. “Mangia più in fretta”. E così via. Cerchiamo di vivere e di far vivere questo momento con gioia, stimolando il dialogo e la comunione familiare, così che sia occasione di incontro e non di scontro, momento di dialogo e non di mugugni. Per creare momenti di piacevole dialogo e comunione familiare e non di isolamento, il televisore e gli altri apparecchi elettronici vanno banditi durante i pasti. Se il bambino è piccolo possiamo eventualmente intrattenerlo raccontando noi della favole, anche inventate sul momento.

 

Sarebbe bene non pretendere dai più piccini che mangino in modo educato ed impeccabile (Oliverio Ferraris, 2005, p. 141). Se necessario, imbocchiamo il piccolo ma, contemporaneamente, facciamo in modo che mangi, se vuole, con un suo cucchiaio o anche con le mani, per soddisfare il piacere di alimentarsi da solo e per migliorare nel contempo la sua autonomia. Se i genitori sono eccessivamente attenti alla qualità e alla quantità di cibo che il bambino assume, gli si dà il messaggio negativo che mangiare sia un dovere e non un piacere da offrire a se stessi. Sforziamoci quindi di vivere e far vivere il problema dell’alimentazione come un gradevole momento da assaporare insieme ai nostri figli. Sapendo che maggiore è la nostra ansia più si aggrava l’eventuale disturbo alimentare. Non è male poi ricordarsi che non è mai morto alcun bambino che avesse la possibilità di alimentarsi adeguatamente!

 

Poiché l’uomo è un animale onnivoro, egli è potenzialmente aperto verso tutti i cibi. Per aiutare il bambino a variare la sua alimentazione è necessario che egli li scelga spontaneamente. Per fare questo, mentre offriamo dei cibi che piacciono al bambino, metteremo sulla tavola anche delle piccole porzioni di altri alimenti che egli, se vuole, potrà gustare autonomamente. L’esperienza millenaria insegna alle madri che i bambini accettano più facilmente alimenti nuovi se li vedono mangiare da altri bambini e che l’esperienza positiva fatta con un alimento accresce la probabilità che venga gradito un altro alimento proposto.

 

 Giacché nei cibi conta molto il colore, l’odore e l’aspetto, qualità queste che possono influenzare positivamente o negativamente la percezione gustativa, impegniamoci a che il cibo sia anche bello e abbia un buon profumo.

 

Non mettiamo fretta al bambino durante l’alimentazione, ma lasciamo che mastichi lentamente e che gusti con piacere ogni alimento. Se il bambino è abbastanza grande per poterlo fare, è sicuramento utile farlo partecipe della scelta e della preparazione dei cibi, in modo tale da renderlo protagonista della sua alimentazione e non soggetto passivo di questa.

 

Per quanto riguarda la quantità non creiamoci inutili problemi. Mettiamo semplicemente sul suo piatto una piccola porzione di cibo o comunque una quantità inferiore a quella che lui mangerebbe, cosicché sia lui stesso a chiederne dell’altro. Quando e se è possibile, facciamo in modo che sia il bambino stesso a servirsi direttamente dal piatto di portata (Oliverio Ferraris, 2005, p. 141).

 

Nel caso in cui il bambino non mangi tutto quello che è stato preparato da noi, non mostriamo alcun segno di disappunto, né tantomeno insistiamo perché finisca il cibo che ha nel piatto. Togliamo, invece, con un bel sorriso soddisfatto, la pietanza dalla tavola e passiamo alla successiva portata. Se questa non è prevista interrompiamo il momento del pranzo.

 

Da quanto abbiamo detto si può dedurre che non ha senso dare dei premi se il bambino mangia e dei castighi se non mangia, in quanto il cibo dovrebbe essere di per sè un piacere. Se per un certo periodo l’appetito del bambino diminuisce non agitiamoci e non facciamo notare la nostra preoccupazione, ma attendiamo serenamente che questo periodo di inappetenza passi.

 

Qualora il bambino abbia reali problemi con il cibo, è meglio evitare di parlare di ciò con parenti e amici ma, eventualmente, rivolgiamoci con fiducia a uno specialista.

 

L’anoressia

 

Per quanto riguarda, invece, l’anoressia vera e propria, l’attenzione deve necessariamente essere diversa e molto maggiore.

 

Intanto è giusto sottolineare come l’anoressia del neonato e del bambino, pur avendo la stessa denominazione, sia notevolmente diversa da quella dell’adolescente o della giovinetta. Quella del bambino si presenta di solito in forme molto meno gravi ed ha la possibilità di modificarsi abbastanza facilmente e rapidamente, se l’ambiente nel quale egli vive cambia in termini positivi.

 

Pur potendo comparire in ogni momento della vita del piccolo, l’anoressia si presenta più frequentemente verso il quinto – ottavo mese, spesso in coincidenza con lo svezzamento (anoressia del secondo trimestre).[1] In questa fase il bambino ha difficoltà ad accettare, non solo i diversi tipi di alimenti che gli vengono offerti, ma anche la diversa modalità di assunzione. Non è indifferente prendere il cibo dal caldo, morbido, seno della madre, piuttosto cha da un freddo biberon o peggio da un cucchiaino. Cambiano le sensazioni, ma cambiano anche le emozioni provate dal piccolo, il quale è costretto ad accettare un primo parziale distacco dalla madre. Distacco che, anche se molto limitato, può essere per lui difficile.

 

Tra il bambino che non mangia, e quindi non aumenta di peso, ed i genitori, spesso si innesta un circolo vizioso: non alimentandosi adeguatamente il bambino diventa più magro ma anche fisicamente più fragile per cui si ammala più facilmente. Ciò spinge i genitori a farlo visitare da medici che propongono varie terapie farmacologiche. L’ansia dei genitori, unita alle nuove visite e alla terapie, accentua il malessere del bambino, che rifiuta ancor più di alimentarsi.

 

Problemi nell’accettare il cibo offerto possono presentarsi ad un’età maggiore, quando la madre, inserendo nella dieta nuovi cibi, propone sapori e odori ai quali il bimbo non è abituato. Sapori e odori che i piccoli più tradizionalisti hanno difficoltà ad accettare e che giudicano disgustosi (avversioni elettive), mentre, al contrario, manifestano un notevole desiderio per alcuni specifici alimenti (selettività alimentare). In genere i cibi disgustosi sono quelli a base di verdure e di legumi, mentre quelli notevolmente desiderati, sono le patatine, le merendine, i dolci e tutti gli alimenti ricchi di cioccolato e di grassi. Le avversioni elettive sono a volte accomunate ad episodi di anoressia.

 

In altri casi il bambino non ha problemi, né per la quantità né per la qualità di cibo, ma rimane sconcertato soltanto dalle diverse modalità di alimentazione: non più tra le braccia della mamma ma sul seggiolone, non più un’alimentazione al bisogno ma ad orari prefissati, non più con calma e senza fretta ma stimolato a far presto, a causa degli impegni dei genitori. Quando poi il bambino è capace di camminare, tra il bambino e la madre o chi ha cura di lui rischiano di iniziare altri tipi di conflitti nel campo dell’alimentazione. Ad esempio, i genitori vorrebbero che il bambino stesse seduto a tavola o nella sua sediolina, mentre al piccolo, in preda ad un irrefrenabile bisogno motorio, piace girare per la casa e continuare a giocare mentre si alimenta. I genitori vorrebbero che non si sporcasse o comunque non sporcasse tutta la stanza dove mangia, ed invece il bambino, pasticciando, imbratta non solo se stesso ma tutta la casa. Inoltre, quando il bambino, anche se piccolo, viene posto frequentemente e a lungo davanti alla tv, non accetta d’alimentarsi se non guardando i suoi cartoni animati preferiti (abitudini inadeguate).

 

L’eccessiva alimentazione

 

L’alimentazione eccessiva facilmente porta all’obesità, la quale, a sua volta, può innescare numerosi problemi di tipo medico, sociale e relazionale: malattie respiratorie e cardiovascolari, problemi ortopedici, tumori, nonché la necessità di accettare le sofferenze psicologiche inflitte con frasi offensive ai bambini definiti “ciccioni”. Sul piano clinico si considera obeso un bambino che ha un peso in eccesso di almeno il 20% rispetto alla norma per la sua età ed altezza.[2]

 

L’obesità oggi è diventato un problema sociale in quanto la percentuale di bambini che soffrono per un peso eccessivo, nei popoli che possono permettersi un’abbondanza di cibo, aumenta ogni anno. In soli vent’anni nel mondo occidentale si è triplicato il numero dei bambini obesi e aumenta anche la velocità con cui si ingrassa.

 

Una delle cause dell’obesità è da ricercarsi nella notevole diminuzione dell’attività fisica; un altro motivo importante è dato dal complesso atavico che ci portiamo dietro, dovuto al fatto che per centinaia di migliaia di anni abbiamo dovuto combattere contro la fame dei nostri figli. Pertanto abbiamo notevoli difficoltà a limitare i desideri alimentari dei nostri bambini, anche quando questi desideri sono eccessivi. Il binomio grasso = buona salute, è difficile da scacciare e continua a permanere nelle menti dei genitori, soprattutto delle madri.

 

Come comportarsi

 

Per evitare un’eccessiva alimentazione e la conseguente obesità è bene:

 

  •   preparare cibi che piacciano al bambino ma a limitato numero di calorie;
  •   evitare di cucinare quantità eccessive di alimenti, in modo tale che il bambino, terminata la propria razione, non possa richiederne altra;
  •   per favorire il senso di sazietà, un ottimo espediente è quello di preparare insalate, macedonie, verdure cotte e molta frutta, senza esagerare nei condimenti;
  •   tenere in frigo, in piccole quantità, solo pochi e selezionati alimenti e quindi evitare, nella dieta di tutta la famiglia e non solo per il bambino, cibi grassi, condimenti eccessivi, merendine;
  •   praticare e far praticare ai figli attività fisiche;
  •   evitare di far mangiare il bambino davanti alla tv o mentre utilizza altri strumenti elettronici.
La bulimia

 

L’immagine classica del bambino bulimico è quella di un bambino grassottello che, nottetempo, si avvicina con fare furtivo al frigorifero e cerca di svuotarlo, riempiendosi la bocca e divorando tutto quello di cui riesce ad impossessarsi, prima di essere scoperto dai genitori. I bambini bulimici accomunano in un unico pasto pantagruelico, in modo indiscriminato, cibi altamente calorici: come la marmellata, la cioccolata, la pasta fredda lasciata a pranzo, i formaggi grassi e così via. Nel concetto di bulimia è insito il bisogno imperioso di abbuffarsi di qualunque cosa sia commestibile, senza neanche riuscire a gustare quello che si sta ingoiando.

 

La potomania

Nella potomania si ha un bisogno imperioso di bere grandi quantità di acqua o liquidi zuccherati: succhi di frutta, aranciate ecc.

 

La pica

I bambini che manifestano questo sintomo tendono ad ingoiare sostanze e oggetti non commestibili: chiodi, monete, carta, terra, sabbia ecc. Si può però parlare di bambino affetto da pica solo quando il piccolo ha superato abbondantemente l’età della scoperta delle caratteristiche degli oggetti mediante la bocca. Questi disturbo è spesso presente nel bambino con sintomi di chiusura autistica.

 

La coprofagia

Se il bambino piccolo tra i due ed i quattro anni non ha problemi a giocare con le sue feci, ad un’età superiore dovrebbe sopravvenire invece un disgusto per questo materiale. Ciò non avviene nel bambino affetto da coprofagia, il quale continua a giocare con le sue feci, anche dopo questa età. Lo stesso può avvenire nel bambino che presenta importanti problematiche psicoaffettive.

 

Le cause

Cause organiche

I disturbi dell’alimentazione possono essere causati da condizioni mediche come la presenza di endocrinopatie, malattie metaboliche, patologie gastrointestinali, disturbi della motricità oro-glosso-faringea ecc.

Cause ambientali

Le cause ambientali sono complesse e numerose.

Quando sono presenti nel bambino disturbi dell’alimentazione di una certa gravità, troviamo frequentemente un clima familiare conflittuale e teso. A volte gli scontri avvengono proprio durante i pasti. In alcuni bambini il cattivo rapporto con il cibo può essere causato dal bisogno di dimostrare un minimo d’indipendenza nei confronti di genitori troppo oppressivi, che attribuiscono un’eccessiva importanza all’alimentazione e alla necessità che il bambino ubbidisca alle loro richieste. In questi casi lui/lei deve mangiare; se non si alimenta fa stare male i genitori, in quanto delegittima la loro autorità e, nel contempo, fa aumentare l’ansia materna e/o paterna.

 

In altri casi è la fretta dei genitori che impedisce al bambino di godere del cibo. La premura e l’impazienza dovute agli impegni vari e al lavoro diventa, nei confronti dei figli, costrizione a mangiare tutto e velocemente, senza la possibilità di un dialogo sereno e senza gustare nulla. Con la facile conseguenza di avere, a causa di ciò, nausea, vomito e altri malesseri intestinali che sottolineano, nell’animo del bambino in modo negativo, sia l’atto dell’alimentarsi sia il cibo stesso.

Interventi

Poiché questa tipologia di problemi è legata a disturbi psichici di una certa importanza non basta impegnarsi solo sui sintomi legati all’alimentazione; spesso è necessario occuparsi del benessere complessivo del bambino e della famiglia nella quale il bambino vive. È necessario quindi:

 

  • migliorare gli atteggiamenti educativi errati, perché troppo opprimenti, ansiosi, frustranti, irritanti, offrendo nel contempo al piccolo un giusto spazio fisico e psicologico;

 

  • favorire giornalmente il gioco libero e spontaneo all’aria aperta, in compagnia di qualche coetaneo con il quale si è stabilito un rapporto di dialogo e amicizia;
  • limitare, se eccessivo, il tempo dedicato allo studio, alternandolo con momenti di svago, da attuare lontano dagli strumenti elettronici;
  • in presenza di conflittualità nell’ambiente familiare è indispensabile attivare una seria terapia di coppia o familiare;
  • effettuare con il bambino attività che l’aiutino a ritrovare una buona serenità e un buon equilibrio psicologico, mediante esercizi psicomotori, musicoterapia, terapie di rilassamento, psicoterapia.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

Per scaricare gratuitamente questo libro clicca qui.



[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 114.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 116.

 

 

 

 

 

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