Problematiche psicoaffettive

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La depressione infantile

 

 

 

I sintomi depressivi

I sintomi depressivi nell’età infantile sono molto più frequenti di quanto non vengano evidenziati e diagnosticati. I motivi per cui gli educatori (genitori, familiari, insegnanti), hanno difficoltà nel riconoscerli e quindi nell’affrontarli adeguatamente, sono dovuti al fatto che il bambino raramente riesce ad esprimere verbalmente i suoi sentimenti e le sue emozioni. Inoltre, nei minori, la depressione assume caratteristiche molto diverse da quelle presenti negli adulti. Caratteristiche che la nascondono e la mascherano dietro atteggiamenti e comportamenti solo esteriormente gioiosi e vivaci.

 

La depressione del neonato

Le carenze di cure materne, a seconda della loro gravità e durata, sono responsabili di diverse situazioni psicopatologiche. Se la carenza dura oltre un mese, ha inizio quel quadro detto depressione anaclitica, così ben descritto da Spitz.

Il neonato, preda di questo tipo di depressione, piange inizialmente in modo intenso, poi il suo pianto si fa lamentoso, più monotono e meno modulato ed infine si trasforma in grido. Il bambino appare prostrato. Resta per lunghe ore coricato a letto, a ventre basso, con scarsa reazione agli stimoli. Il suo sguardo è spento e abbattuto. L’espressione del viso diventa rigida, triste e ansiosa. È evidente l’apparente indifferenza a ciò che lo circonda, com’è evidente il ritiro, l’isolamento e il rifiuto del contatto. Al momento del risveglio mancano le classiche manifestazioni del bambino nei confronti della madre: i suoi gioiosi gorgheggi, le lallazioni, i giochi con le mani o con i sonaglini. Si nota, inoltre, l’assenza di curiosità esplorative. Vi so­no, invece, frequenti autostimolazioni: con dondolamenti in posizione ge­nupettorale, ritmie solitarie, soprat­tutto diurne ma anche notturne o nella fase dell'addormentamento. Queste stimolazioni possono giungere fino a condotte auto-aggressive. Sono ritarda­te le acquisizioni psicomotorie, come la comparsa della posizione seduta e la deambulazione e vi è ritardo anche nel control­lo sfinterico. Spesso questi bambini iniziano a deambulare solo verso i venti mesi. Lo sviluppo del linguaggio e della comunicazione sono quasi sempre profondamente turbati e ritar­dati. Sono presenti, inoltre, un calo ponderale e una diminuzione delle difese immunitarie, con conseguente facilità ad ammalarsi.

Se l’assenza della madre perdura oltre il terzo mese questa condizione può portare a ritardi mentali irreversibili, talvolta anche a gravi condizioni organiche generali (marasma) e a ritardo nello sviluppo scheletrico.

 

La depressione del bambino tra i tre e i cinque anni

La depressione del bambino a questa età presenta alcuni sintomi simili a quelli del bambino piccolo: isolamento o ritiro, auto-stimolazioni, pianti che durano a lungo con o senza una ragione apparente, prolungati comportamenti masturbatori cronici e compulsivi, ma vi è anche agitazione e instabilità psicomotoria, mentre l’affettività è incostante. Pertanto, se in alcuni momenti nel bambino vi è un’intensa ricerca affettiva, in altri periodi è presente un rifiuto relazionale, con manifestazioni di collera e di violenza quando viene contrastato nei suoi desideri.

L’umore tende ad oscillare tra l’agitazione euforica e il pianto silenzioso. Sono presenti anche dei comportamenti auto e/o eteroaggressivi. Vi sono difficoltà nel sonno con frequenti risvegli notturni, incubi e sonnolenza diurna, ai quali si aggiungono enuresi ed encopresi intermittente, alterazioni dell’appetito, con rifiuto alimentare o, al contrario, bulimia. Vi è, infine, un’estrema sensibilità ad ulteriori separazioni, con intensa richiesta relazionale. Poiché persiste ancora il bisogno di un rapporto duale, l’inserimento nella scuola materna diventa difficile e può essere fonte di ulteriore trauma.

La depressione del bambino che va dai 5-6 anni ai 12-13 anni

A quest’età il bambino possiede mezzi di difesa più elaborati. Pertanto dalle parole, dalla mimica, dallo sguardo e dal tono della voce, emergono segni di sofferenza morale, smarrimento, sconforto. Per tali motivi i sintomi depressivi sono abbastanza eloquenti. Sono evidenti la noia, la chiusura, il senso di incapacità, la difficoltà a ricevere e accettare l’aiuto degli altri, la tendenza ad autopunirsi, la mimica povera. Anche l’espressività è ridotta, per cui il bambino appare come “spento”, irrigidito, presenta scarsa gestualità, si muove come al rallentatore, si stanca facilmente e rinuncia alle attività che prima gli piacevano tanto. Scarseggiano l’immaginazione e l’attenzione.

Inoltre, il bambino depresso ha difficoltà a concentrarsi, presenta continui controlli fobico-ossessivi, ha un’affettività eccessiva e debordante e può presentare condotte provocatrici e autopunitive. Sono presenti stati d’ansia con angoscia e pensieri ricorrenti, disturbi del sonno con risvegli notturni, con o senza incubi. In altri casi, all’opposto, il bambino sembra rifugiarsi nel sonno, per cui dorme eccessivamente. Possono essere presenti inoltre alcuni disturbi alimentari: il bambino mangia saltuariamente, talora rifiuta il cibo, altre volte lo assume con ingordigia.

La depressione in questa fase evolutiva si manifesta anche con una sensibilità eccessiva, con la perdita degli interessi, con comportamenti di autodisprezzo e di autosvalutazione, con senso di impotenza, di colpa, di vergogna, con commenti negativi su di sé e sul suo operato. Questi commenti possono essere espressi direttamente con frasi del tipo: “Non posso, non ce la faccio, non lo so”. “Sono stanco, non mi va di fare niente”. “Faccio soltanto degli errori”. “Sono cattivo, nessuno mi vuole bene”. Accanto a questi sintomi possono essere presenti segni di protesta, collera, impulsività ed aggressività, furti ripetuti, menzogne, comportamenti mitomani, facile faticabilità, disadattamento tra il bambino ed il suo ambiente. In particolare disadattamento nei confronti dei coetanei, fughe e infine insuccesso scolastico, dovuto all’instabilità dell’attenzione e alle difficoltà nella concentrazione. I soggetti depressi sono, inoltre, più a rischio di suicidio e problemi nella condotta (Wright, Strawderman e altri[1], 1996, p. 181).

Quanto più il bambino è piccolo, tanto più la sintomatologia si arricchisce di sintomi psicosomatici: anoressia, alterazione del sonno, episodi diarroici, affezioni dermatologiche (eczema, alopecia), affezioni respiratorie (asma).

Ma non tutti i sintomi su esposti sono sempre presenti, per cui vi può essere una depressione con una prevalenza di sintomi somatiformi, una depressione con prevalenti difficoltà scolastiche, ma anche una depressione nella quale sono prevalenti i disturbi della condotta o altri gruppi di sintomi.

Così come per gli adulti sembra che la depressione sia più frequente nelle femminucce piuttosto che nei maschietti.

 

 

Le cause  

Cause genetiche. Studi sui gemelli monozigoti hanno messo in evidenza valori di concordanza pari al 65%, mentre nei gemelli dizigoti tali valori si aggirano intorno al 15%.[2]

Cause biologiche. Vengono segnalate una ridotta increzione di ormone della crescita dopo stimolo (growth hormone o GH) e una disfunzione del sistema serotoninergico. In definitiva vi dovrebbe essere una disfunzione a livello ipotalamo-ipofisario dei sistemi regolatori noradrenergico e serotoninergico.[3]

Cause ambientali. Spitz ha denominato, anche, ospidalismo la depressione anaclitica del neonato, perché si presenta frequentemente nei brefotrofi.[4] Questo ci fa pensare che la depressione è strettamente legata a situazioni ambientali nelle quali la cura del neonato non è sufficiente ad instaurare e a mantenere un solido e stabile legame affettivo. Inoltre la depressione è più frequente quando sono presenti gravi carenze affettive da parte dei familiari, caos educativo, cambiamento di immagine materna.

Per Bowlby,[5] la perdita di una persona amata, nella saggezza ed esperienza popolare, è stata sempre associata a depressione e a gesti estremi. Anche nel mondo animale i cuccioli cercano altri animali nell’ambito della loro famiglia, che li proteggano e assistano. Il legame affettivo che si crea tra il bambino e il familiare amato, viene difeso dagli intrusi con aggressività, ma anche con punizione del familiare che avrebbe dovuto proteggerlo, assisterlo e curarlo e non lo ha fatto. La difesa di questo legame è presente, tra l’altro, anche negli innamorati umani. Mantenere un legame è come amare qualcuno, perdere il legame è come soffrire per qualcuno. E se la minaccia della perdita porta all'angoscia, la reale perdita affettiva provoca sofferenza e collera.

Sintomi di depressione infantile sono presenti anche quando le carenze affettive sono parziali. Ad esempio, quando il bambino non riceve per molto tempo sufficienti cure, a causa di una grave depressione materna o per altre problematiche psicopatologiche; quando sono presenti assenze brevi ma ripetute; o quando vi sono delle accentuate distorsioni nel rapporto madre–figlio.

La depressione è tre volte più frequente quando i genitori hanno sofferto dello stesso disturbo. La depressione si presenta più facilmente quando sono presenti malattie dei genitori o del bambino con ospedalizzazione di questi, quando si è in presenza di un sistema familiare disfunzionale, quando vi è la perdita di un genitore o di una persona amata per divorzio o morte, quando sono presenti delle crisi familiari, quando la famiglia è costretta a emigrare, ma anche quando i genitori hanno poco tempo da dedicare ai figli.

In questo racconto di Maria, di anni dodici, la cui madre era incapace di provvedere affettivamente ai suoi figli per cui era costretta a inserirli in vari istituti, si comprende bene la sensazione di carenza affettiva vissuta da lei e da tutti i bambini che si ritrovano nelle sue stesse condizioni.

I palloncini volati in cielo

C’era una volta una signora che stava comprando dei palloncini che le sono volati. La signora si chiamava Francesca, come sua madre e aveva 11 figli e non erano contenti perché i palloncini erano solo tre. Allora la madre è andata a comprarne altri. Alla fine tutti i figli sono morti perché la mamma era vecchia e pure i figli. I palloncini sono volati in cielo insieme ad una lettera dove c’era scritto ”mamma ti voglio bene”.

L’interpretazione del racconto di Maria ci fa chiaramente pensare a una madre che cerca in tutti i modi di dare ai figli l’affetto che loro desiderano e di cui hanno diritto. Tuttavia, questa non riesce a dare a tutti quanto dovrebbe (C’era una volta una signora che stava comprando dei palloncini che le sono volati. La signora si chiamava Francesca, come sua madre e aveva 11 figli e non erano contenti perché i palloncini erano solo tre). Nonostante l’impegno della madre i suoi apporti affettivi risultano inadeguati, tanto che i figli muoiono (Allora la madre è andata a comprarne altri. Alla fine tutti i figli sono morti perché la mamma era vecchia e pure i figli). Nonostante ciò i figli continuano ad amare la loro madre perché sanno che aveva fatto del suo meglio nei loro confronti (I palloncini sono volati in cielo insieme ad una lettera dove c’era scritto ”mamma ti voglio bene”).

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Wright C., C., Strawderman et al.,(1996), “La depressione negli studenti in difficoltà: identificazione precoce e intervento”, Difficoltà di apprendimento, Vol.2, n° 2 , dicembre, p. 181.

[2] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 394.

[3] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 395.

[4] De Negri M. et al., (1970), Neuropsichiatria infantile, Genova, Fratelli Bozzi Editori, p. 127-128.

[5] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 73.

 

I disturbi del sonno nei bambini

 

 

 

 

Questo capitolo ci fa comprendere bene come sia difficile, nell’ambito della neuropsichiatria infantile, la distinzione tra normalità e patologia. “Mia figlia, di cinque anni, ha difficoltà ad andare a letto. Spesso mi chiama dopo averle raccontata la favoletta e vuole che io le stia vicina fin quando si sarà addormentata. È normale o patologica questa sua richiesta?” “Mio figlio qualche volta si sveglia di soprassalto gridando e piangendo. Che significa?” “Nella stanza dove dormono i miei figli vi è sempre uno stridore di denti. Perché fanno questo? “ “Mia figlia, di dodici anni, non si addormenta se non ha accanto a sé un pupazzetto che negli anni è diventato lercio. Glielo devo lasciare o almeno posso imporle di sostituirlo con uno nuovo?”

 

Per potere rispondere correttamente a queste domande, sicuramente ci potrebbero essere di aiuto alcuni dati: come l’età del bambino o della bambina, la durata e l’intensità del disturbo, la frequenza con il quale questo sintomo si manifesta e, soprattutto, la presenza o non di altri sintomi concomitanti che rendano penosa la vita del bambino. Tuttavia sarebbe lo stesso molto difficile distinguere quale disordine del sonno dovrebbe essere giudicato patologico e quale fisiologico, senza prima avere esaminato l’intera vita affettivo-relazionale del bambino per cogliere tutti i movimenti del suo animo, in rapporto alla realtà interna e all’ambiente esterno.

 

Conosciamo bene l’importanza che ha il sonno sulla salute fisica e psichica di tutti gli animali e, in particolare, degli esseri umani. Tutte le ricerche, anche le più recenti, confermano la necessità in tutte l’età dell’uomo, ma soprattutto nell’età infantile, di molte ore di riposo e sonno, soprattutto durante la notte. Il sonno è un fenomeno fisiologico fondamentale per la vita. Quando si dorme vi è un’interruzione dei rapporti sensoriali e motori che legano l’organismo all’ambiente esterno. Questa interruzione momentanea permette sia al corpo e sia alla mente, l’indispensabile, necessario riposo. Non solo ma durante il sonno le tracce mnestiche date dall’esperienza diurna sono selezionate, integrate, collegate e programmate, in modo tale da essere in seguito ben utilizzate.

Un buon sonno “ristora” nel senso che fa sentire bene e scaccia ansia e tristi pensieri. Un buon sonno migliora le difese immunitarie, le capacità di memorizzazione e aiuta ad avere rapporti sociali più sani e sereni. Pertanto nel bambino il sonno è importante per la sua salute fisica e psicologica, così come per la memorizzazione e per l’apprendimento.

La durata del sonno è maggiore nel neonato, mentre diminuisce progressivamente durante la crescita, fino a ridursi molto nella vecchiaia. Ma anche a quest’età un buon sonno è fondamentale. Si è constatato che gli anziani che dormono sufficientemente hanno migliori capacità nella memorizzazione e nella gestione delle relazionali interpersonali.

Poiché ogni bambino è diverso dall’altro, alcuni di essi dormono, anche se neonati, tutta la notte, cosicché fanno dormire tranquillamente anche i loro genitori; mentre ve ne sono altri che fanno disperare mamma e papà per anni. In ogni caso sono sempre molti i genitori i quali, prima o poi, hanno dovuto affrontare, durante gli anni della crescita del loro figlio, qualche problema legato all’addormentamento o ad alcuni disturbi del sonno. Questi problemi si presentano fisiologicamente molto più intensamente nel primo anno di vita del bambino, per poi diminuire progressivamente.

Nonostante i benefici che il sonno apporta siano numerosi, sono molte le difficoltà che hanno i bambini nell’accettare di lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo. Queste difficoltà risultano comprensibili solo se si coglie qual è la condizione particolare del bambino in questi momenti.

Addormentarsi significa lasciare i genitori, gli oggetti ed i luoghi conosciuti, per entrare in un mondo ignoto nel quale, mediante i sogni, possono verificarsi tutti i tipi di eventi: alcuni belli, come il sognare di volare o di poter realizzare cose impossibili nella vita reale; altri brutti, come sognare di cadere e farsi male; altri ancora terrifici, così descritti da un bambino da noi seguito: “Come quando l’uomo nero sembra avvolgerti con il suo mantello o come quando i cattivi robot avanzano con i loro potenti disintegratori, ma tu non puoi fare nulla per controbattere e non puoi neanche scappare, perché le gambe non ti ubbidiscono”.

 

Durante la veglia mamma e papà sono sempre pronti ad affrontare e risolvere i problemi del figlio, mentre, durante la notte, egli si sente solo, in quanto non può portare con sé le persone che potrebbero difenderlo o che gli procurano, già con la sola loro presenza, una sensazione di sicurezza. Il bambino si sente solo nell’affrontare la paura del buio e dei ladri; solo di fronte alle illusioni terrifiche che le tenebre attorno a lui possono creare negli angoli della sua stanzetta; solo nel momento in cui deve affrontare gli incubi; solo contro l’”uomo nero”.

 

La frequenza e la numerosa tipologia delle alterazioni o delle difficoltà dell’addormentamento dei bambini è la migliore dimostrazione delle fragilità di quest’area.[1] Si può avere pertanto:

 

  1. Irregolarità del ritmo sonno-veglia.
  2. Difficoltà nell’addormentamento.
  3. Sogni ansiosi o angosciosi.
  4. Pavor nocturnus (terrore notturno).
  5. Incubi notturni.
  6. Sindrome allucinatoria acuta.
  7. Paralisi del sonno.
  8. Sonnambulismo.
  9. Bruxismo.
  10. L’eccesso di sonno (ipersonnia).

 

 

 

1.      Irregolarità del ritmo sonno veglia

 

Si parla di irregolarità del ritmo sonno-veglia quando il bambino, in alcuni periodi, dorme complessivamente poco: perché tarda ad addormentarsi; perché si sveglia presto;  perché ha dei risvegli notturni. Questi bambini non si addormentano nelle ore e con le modalità richieste; non accettano di restare nel loro letto, né tanto meno accettano di dormire nella loro stanzetta. Al primo risveglio notturno spesso vanno nel lettone dei genitori e rifiutano di ritornare nel loro letto.

 

2.      Difficoltà nell’addormentamento

 

Per quanto riguarda le difficoltà nell’addormentamento, De Ajuriaguerra e Marcelli[2] descrivono così questo disturbo : “Il bambino si oppone all’andare a letto, instaura dei rituali sempre più lunghi e complessi, richiede un conforto controfobico (luce, oggetto transizionale, pollice), ha bisogno di una storia narrata da uno dei suoi genitori…” Queste difficoltà possono arrivare fino alla fobia dell’andare a letto, nella quale il piccolo “è preso dal panico quando sente di stare per addormentarsi, vuole che gli si tenga una mano, vuole addormentarsi tra i genitori”.

 

Nel primo anno di vita può essere presente l’insonnia precoce severa. Questo tipo di insonnia si può presentare sia nella sua forma agitata sia nella forma calma. Nella forma agitata il bambino grida, urla, si agita fino allo sfinimento, per poi ricominciare a piangere e gridare. Talvolta questa insonnia si accompagna a movimento ritmati e a violenti dondolamenti o condotte auto-aggressive. Nella forma calma, invece, “…il bambino resta nel suo letto, con gli occhi spalancati, silenzioso sia di giorno sia di notte. Sembra non chiedere nulla, e non attendersi nulla” [3].

 

3.      I sogni ansiosi e angosciosi

 

Durante il sonno il bambino può soffrire di sogni che gli procurano ansia o, peggio ancora, angoscia. Per tale motivo, mentre dorme geme, grida, piange, chiama aiuto, a causa dei “sogni cattivi” che fa. Anche in questi casi è naturale per lui cercare tranquillità, accoglienza e sicurezza nel lettone dei genitori.

 

4.      Pavor nocturnus (terrore notturno)

 

Il piccolo può essere vittima anche del terrore notturno per cui, durante il sonno REM, appare agitato, presenta fenomeni neurovegetativi (sudorazione). Le cose che lo terrorizzano non sono solo sogni cattivi ma improvvise e terrificanti sensazioni che accompagnano immagini mentali fugaci. A causa di tali sensazioni il bambino si sveglia angosciato, con gli occhi spalancati verso qualche oggetto immaginario, “urla nel suo letto, con gli occhi stravolti, col viso atterrito. È confuso, disorientato, non riconosce chi gli sta attorno, neppure sua madre; sembra inaccessibile a qualsiasi ragionamento”[4]. Mentre al risveglio non ricorda nulla. In queste occasioni è meglio non svegliare né toccare il bambino. Mamma e papà possono eventualmente stare vicino a lui e con voce calma e tranquilla cercare di rassicurarlo. Per fortuna i terrori notturni sono rari e colpiscono i bambini tra i quattro e i sette anni.

 

5.      Incubi notturni

 

Mentre dorme, il bambino è preda degli incubi, si sveglia improvvisamente, fa qualche movimento, geme pieno di terrore per ciò che ha visto nel sonno, ma riesce a esprimere la sua angoscia, ricordando il sogno che lo ha turbato. Gli incubi, a differenza dei terrori notturni, sono frequenti e si manifestano in bambini tra gli 8 e i 10 anni. In questo caso, a differenza che nel pavor nocturnus, il piccolo ha bisogno di essere rassicurato dai suoi genitori e, mediante delle coccole, accompagnato a riaddormentarsi.

 

6.      Sindrome allucinatoria acuta

 

Colpisce sia i maschietti che le femminucce di età compresa tra i due e i tredici anni. È una sindrome rara (un caso su 56.000). L’esordio è sempre acuto e si manifesta durante il sonno notturno con un’improvvisa visione di piccoli animali terrificanti, voraci, immondi, ripugnanti, brulicanti per ogni dove (microdermozoopsie), per cui il bambino manifesta un brusco risveglio con grande agitazione psicomotoria, con tremore, ipersudorazione, pallore, tachicardia, angoscia profonda. A questi episodi seguono dei periodi di insonnia prolungata, in quanto il bambino fa di tutto per non addormentarsi, per evitare che queste allucinazioni si ripresentino.

 

7.      Paralisi nel sonno

 

Alcuni bambini, svegliandosi improvvisamente da un incubo, per qualche secondo o qualche minuto, scoprono di non potersi muovere o di non potere chiamare ad alta voce i propri genitori. Possono soltanto gemere e muovere gli occhi.

 

8.      Sonnambulismo

 

Nel sonnambulismoil bambino attua dei comportamenti psicomotori complessi: come alzarsi dal letto, camminare, aprire e chiudere le porte ecc. In questi casi il piccolo riesce, almeno in parte, a percepire la realtà esterna ma non è interessato a ciò che lo circonda. Egli appare come immerso nei propri pensieri, per cui si comporta come un automa con dei movimenti limitati e con un’andatura incerta, mentre lo sguardo è fisso. Dopo un periodo di deambulazione che può essere molto variabile (dai cinque ai trenta minuti) il bambino torna nel suo letto o vi si lascia condurre docilmente. Il giorno dopo egli non ricorderà più niente di ciò che è accaduto. Nella forma lieve di sonnambulismo il bambino cerca di alzarsi ma rimane seduto sul suo letto.

 

Questi comportamenti si attuano mentre il bambino continua a dormire, tanto che al risveglio non ricorda nulla di quanto ha fatto durante il periodo del sonnambulismo. Anche in questo caso non bisogna cercare di svegliare il bambino. Le crisi di sonnambulismo raggiungono l’acme durante l’adolescenza, per declinare intorno ai diciassette-diciotto anni.

 

Anche per questi sintomi sono stati imputati l’ansia e i conflitti interiori. Nel sonniloquio, invece, il bambino parla durante il sonno, ma non ricorda nulla di quanto ha detto.

 

9.      Bruxismo

 

I bambini che soffrono di questo automatismo motorio digrignano i denti durante il sonno.

 

Le cause dei disturbi del sonno

 

Le cause dei disturbi del sonno possono essere molto varie:

 

Cause organiche. Numerose patologie mediche, soprattutto a carico delle vie respiratorie e dell’apparato gastro enterico, possono provocare disturbi del sonno.

 

Cause ambientali. Queste possono essere molto banali come una rigidità eccessiva degli orari dei pasti, un’abbondante o non idonea alimentazione, un cattivo isolamento acustico; abitudini non confacenti con i bisogni del minore, come l’andare a letto in orari sempre diversi.

 

Il sonno può essere disturbato da cause psicologiche e ambientali:

 

  • quando è presente un difficile rapporto tra il bambino e le persone che hanno cura di lui, a causa di difficoltà educative dei genitori;[5]  
  • quando le figure di accudimento soffrono di disturbi psicologici, per cui comunicano al bambino le loro ansie e paure ed hanno difficoltà a comprendere e a soddisfare i suoi bisogni;
  • quando il piccolo è coinvolto in situazioni stressanti o frustranti;
  • quando vi è ansia eccessiva da parte dei genitori proprio nei riguardi del sonno del bimbo;
  • quando il piccolo è preda di dinamiche conflittuali e disordini emozionali connessi al processo di crescita, con conseguenti disturbi pervasivi dello sviluppo, depressione, attaccamento ansioso, ansia di separazione, iperattività motoria e/o mentale ecc.

 

Interventi

 

Senza voler dare delle ricette, in genere poco utili in quanto ogni bambino è un caso a sé, ci sembra doveroso suggerire almeno qualche utile accorgimento:

 

  1. I bambini amano che le cose si svolgano secondo determinati orari, regole e ritmi. È bene quindi dar loro un orario ben preciso, dopo il quale invariabilmente i genitori inizieranno ad effettuare, in modo allegro e affettuoso, tutti i rituali per andare a letto: lavarsi i denti, andare in bagno, mettersi il pigiamino, dare il bacio della buona notte ecc. Sull’orario si possono certamente fare delle eccezioni, purché queste siano veramente delle eccezioni e, pertanto, siano rare.
  2. Quando il bambino ha delle paure e ha bisogno di maggior accompagnamento al sonno, è sicuramente utile stargli accanto così da rassicurarlo con la nostra presenza. È però altrettanto importante fare in modo che il bambino trascorra tutta la giornata in modo sereno e gioioso. Perché “una buona giornata prepara una buona nottata”.
  3. Per fare in modo che il passaggio dalla veglia al sonno sia il meno traumatico è importante il racconto di una favoletta o la lettura di un capitolo di un libro. Oggi, purtroppo, il numero dei bambini che si addormenta con le favole dei genitori è in notevole diminuzione.[6] L’abitudine ad ascoltare una favola è importante, in quanto le favole, oltre a favorire il sonno, fanno correre la fantasia, sviluppano la memoria uditiva, l’immaginazione e l’intelligenza, migliorano le capacità linguistiche del bambino, permettono una maggiore vicinanza affettiva e un miglior dialogo con i genitori. Questo momento di intimità aiuta il bambino a vincere le sue paure e a risolvere alcuni suoi problemi psicologici in quanto la serenità dei genitori, il loro amore, la loro solida e sicura presenza, si trasmettono all’animo del piccolo, tranquillizzandolo, mentre nel contempo gli offrono maggiore sicurezza. Il racconto può essere l’occasione per apprendere, oltre che numerose nuove parole ed espressioni letterarie, alcune cognizioni di base: come utilizzare il coraggio unendolo alla prudenza, come unire la furbizia alla generosità, come contemperare la fantasia con la realtà. Anche il ripetere la stessa storia può essere utile per aiutare il bambino a scoprire nuove espressioni e modi di dire, nuovi sinonimi, nuovi aspetti e particolari della storia che gli è stata raccontata e che gli sono sfuggiti.
  4. È bene che l’orario per andare a letto sia compatibile con la necessità che hanno i bambini di un congruo numero di ore di sonno. Se i bambini non dormono sufficientemente non solo saranno minori le loro capacità di memorizzazione, attenzione e comprensione, ma vi è il grave rischio di un peggioramento globale della loro vita psichica e relazionale, in quanto è più facile che insorgano ansie, paure, nervosismo, irritabilità e momenti di tristezza. Sintomi questi che potranno incidere negativamente sul rapporto sia con i coetanei, sia con i genitori e gli adulti in genere. D’altronde i genitori, dopo una giornata trascorsa per assolvere i vari impegni domestici, educativi o di lavoro, hanno il bisogno ed il diritto di avere qualche ora per ritrovarsi come coppia.
  5. Evitiamo assolutamente di lasciare nella camera del bambino la Tv, il computer, i videogiochi, i Tablet, i cellulari, in quanto questi strumenti apportano nell’animo del piccolo una notevole quantità di stimoli eccitanti, ansiosi e, spesso, anche paurosi. Stimoli questi che per quantità e per qualità sono esattamente il contrario di quelli necessari a favorire il sonno, come la tranquillità, la serenità, il rilassamento, la distensione, la dolcezza, il sentirsi protetti. Quest’abitudine di lasciare vari strumenti elettronici nella stanza dei bambini , purtroppo, sta diventando sempre più diffusa in quanto, il maggior benessere permette di avere molti di questi oggetti distribuiti per tutta la casa. Spesso i genitori sono lieti che i figli usino anche la sera e la notte i vari strumenti elettronici: “Così restano tranquilli nel loro letto”. Le cose purtroppo non stanno in questi termini. Il danno che il bambino  ne subisce sulla quantità e qualità del sonno, ma anche su molti altri aspetti della sua vita psichica e intellettiva, è tale da sconsigliare nettamente questo tipo di comportamento.
  6. A differenza della tv e dei video giochi che è bene evitare, si può tranquillamente lasciare al bambino il suo oggetto transizionale, qualunque esso sua: la bambolina, il pupazzetto, il peluche, la madonnina fluorescente, la spada che lo difende dai “mostri” e così via, in quanto questi oggetti l’aiutano ad acquisire una maggiore tranquillità e sicurezza. Quando questi oggetti, a causa del tempo e del continuo uso, sono diventati vecchi e degradati, è bene non cambiarli con altri nuovi e smaglianti, in quanto il legame che si stabilisce tra il bambino e il suo oggetto transizionale, al quale il piccolo attribuisce notevoli valenze affettive, è talmente unico che difficilmente può essere sostituito.
  7. È bene che il bambino si abitui ad avere un posto tutto suo per dormire: la sua culla o il suo lettino, da sistemare prima accanto al lettone dei genitori e poi in una stanza vicina alla loro. Nel caso però che il bambino, per qualunque motivo: malattie, malesseri momentanei, paure, incubi, apnee notturne, ecc. dovesse avere bisogno dell’intervento rassicurante e protettivo da parte dei genitori, è utile provare a rassicurarlo, stando per qualche momento accanto al suo lettino. Se ciò non dovesse bastare si può tranquillamente accoglierlo nel lettone, in modo tale che si senta più sicuro e protetto, tranne poi a riportarlo nel suo giaciglio, nel momento in cui la crisi sia cessata ed il bambino si sia riaddormentato. Altra eccezione sull’uso del lettone è quando tutta la famiglia vuole stare vicina per ridere e giocare insieme, come durante la mattina dei giorni di festa, nei quali si è liberi dagli impegni e si può oziare tutti insieme.
  8. Se il bambino li richiede, è senza dubbio utile mettere nel suo comodino tutto quello che gli può servire durante la notte: il fazzoletto, la lucetta, il bicchiere con l’acqua, il vasino per la pipì, un giocattolo, un libro da leggere e così via.

Abbiamo detto dell’importanza del sonno per lo sviluppo sereno ed armonico del bambino. Tuttavia anche in questo non bisogna eccedere. Alcuni genitori e familiari, pur di poter essere liberi di espletare le loro faccende o comunque di non doversi occupare del bambino per qualche tempo, fanno di tutto per far dormire il bambino anche quando questi non ne ha alcun bisogno e non ne ha alcuna voglia. Ciò non è affatto utile in quanto rischia di far regredire il piccolo e impedisce tutte quelle esperienze di motricità, linguaggio e socialità, che solo da sveglio egli potrebbe effettuare.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 73.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 75.

[3] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 76.

[4] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 77.

De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori.

 

[5] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 74.

[6] Oliverio Ferraris A., (2005), Non solo Amore, Firenze, Giunti Demetra, p. 107.

 

I disturbi ossessivi e compulsivi nel bambino

 

 

 

I disturbi ossessivi e compulsivi

Che i bambini, insieme al piacere di disordinare, abbiano anche, in alcuni momenti della loro giornata, un istintivo bisogno di ordine è risaputo. Una delle componenti che offre loro sicurezza è data dal constatare che gli avvenimenti nella loro famiglia e attorno a sè si svolgono secondo una prassi e un rituale ben consolidati. Ad esempio, a colazione alcuni bambini desiderano bere il latte dalla tazza alla quale sono affezionatissimi; durante il pranzo vogliono sedersi sempre nella stessa sedia; se sono abituati a vedere dei cartoni animati mentre mangiano, si impuntano affinché le cose non cambino. Sono poi ben conosciuti i rituali per andare a letto. Rituali fatti da attività routinarie: andare in bagno, pulirsi i denti, dare a papà il bacetto delle buona notte, sistemare il cuscino, storia da raccontare o lettura di una favola e poi, per le femminucce, orsacchiotto o bambola preferita tra le braccia e per i maschietti spada dell’eroe dei cartoni animati messa accanto al letto, pronta per essere sguainata contro nemici immaginari. Questi ed altri rituali tendono a scomparire, in genere, verso i sette-otto anni,[1]dopo tale periodo buona parte dei bambini accettano alcuni cambiamenti nella loro routine quotidiana.

Solo quando questo tipo di manifestazioni è molto coattivo ed è associato ad altri segni di sofferenza del bambino, siamo in presenza di sintomi ossessivi. Questi sono caratterizzati da persistenti e ricorrenti idee, pensieri, impulsi o immagini mentali, che la volontà non riesce ad eliminare dal campo della coscienza. Idee, pensieri ed impulsi, che costituiscono motivo di turbamento e di disagio per il bambino. Queste idee e questi impulsi possono avere anche delle componenti aggressive o distruttive, delle quali il bambino si vergogna o si fa una colpa.

Le ossessioni e/o le compulsioni interferiscono, a volte pesantemente, sulle sue attività quotidiane: studio, vita di relazione, igiene, gioco, ecc., rendono difficili molti momenti della giornata del minore, in quanto non solo non gli lasciano tregua e spazio per dedicarsi ad altro, ma gli procurano anche molta stanchezza e spossatezza.

I bambini che soffrono di sintomi ossessivi avvertono questi pensieri come qualcosa di intrusivo e, quindi, indipendente dal normale flusso dei loro pensieri, ma anchecome un qualcosa di fastidioso, sia per il contenuto, sia per la frequenza con il quale si manifestano e gli recano disagio. Ma mentre l’adulto avverte questi pensieri come privi di senso, irrazionali ed esagerati , o comunque non giustificati dalla realtà nella quale egli vive e si muove, per cui è consapevole del loro carattere morboso, anche se non può fare a meno di subirli, il bambino non sempre ha la chiara consapevolezza che le ossessioni e le compulsioni siano qualcosa di irragionevole che lo coinvolge.

Le compulsioni

Accanto alle ossessioni il minore soffre anche delle compulsioni o rituali ossessivi. Questi consistono in azioni mentali e comportamenti che si attuano in risposta alle ossessioni e che rappresentano un tentativo di soluzione; in quanto, anche se temporaneamente, questi rituali sono seguiti da un senso di sollievo dal disagio causato dalle ossessioni.

I rituali possono essere di vario genere: alcuni bambini hanno la necessità di ripetere una preghiera per un certo numero di volte per scongiurare la morte o la malattia propria o di un altro familiare. Altri che hanno paura che certi oggetti o certi indumenti da loro toccati possano contaminarli, hanno la necessità di lavare continuamente le proprie mani, i vestiti o altri oggetti personali. Vi sono poi dei bambini che avvertono l’impulso di far del male a qualche familiare o di effettuare delle azioni molto rischiose: ad esempio, attraversare la strada mentre sfrecciano le auto; per cui, pur di scongiurare ciò, sentono la necessità di camminare sul marciapiede toccando tutti i pali che incontrano sul loro cammino. Altri bambini ancora possono avere il timore di essere esposti a un pericolo, o si sentono responsabili e colpevoli di tale pericolo e, quindi, avvertono la necessità di contare alcuni particolari oggetti che incontrano, ad esempio, tutte le auto di colore bianco, o di ripetere determinate parole al fine di scongiurare eventi catastrofici.

Come abbiamo visto, i tipi di ossessioni e di rituali compulsivi possono essere molto vari e numerosi, possono modificarsi nel tempo[2]e possono presentarsi in forma più o meno grave. In quest’ultimo caso provocano nel bambino notevoli frustrazioni e sofferenze, anche perché i vari rituali che sono costretti ad effettuare hanno ripercussioni sulla sua vita familiare, sociale e sul rendimento scolastico. Per tale motivo la depressione e ansia, che spesso si evidenziano in questi casi, se da una parte possono essere causa dei sintomi, dall’altra possono esserne la conseguenza.

Le cause

Le indagini genetiche hanno evidenziato un’elevata concordanza del disturbo nei gemelli omozigoti e una più elevata incidenza fra gli ascendenti e collaterali.[3]

Le indagini neurochimiche hanno messo in evidenza una disfunzione serotoninergica.

Le neuroimmagini suggeriscono una disfunzione dei circuiti striato-talamo-corticali.

Cause ambientali. I sintomi ossessivo-compulsivi spesso si presentano in concomitanza con alcuni eventi stressanti come l’inizio della scuola, la separazione dei genitori, i cambiamenti di abitazione. È evidente, inoltre, come alcune caratteristiche psicopatologiche dei genitori, con conseguenti comportamenti educativi impropri, possono contribuire alla genesi del disturbo. Accanto a questi bambini possiamo trovare dei genitori molto ansiosi o con problematiche simili, i quali attuano nei confronti dei figli dei comportamenti educativi eccessivamente severi, responsabilizzanti e colpevolizzanti. Secondo l’interpretazione psicoanalitica questi sintomi sono dei tentativi più o meno disperati di contenzione delle pulsioni vissute come pericolose e distruttive, in modo tale da mantenere un ambiente circostante identico ed invariabile e di assicurare questa immobilità.

 

 

 

Amore e odio

 Salvatore, di anni undici, era figlio di genitori separati, i cui rapporti di coppia si erano deteriorati dopo la nascita del bambino. I genitori iniziarono a fargli frequentare la scuola dell’infanzia a due anni e otto mesi ma, nonostante il bambino piangesse ogni volta che veniva portato a scuola, non accettando di allontanarsi dalla sua casa e dai suoi genitori, questi non desistevano dal loro intento in quanto il bambino “doveva abituarsi”. Le maestre durante la scuola materna notavano che il piccolo dimostrava una buona intelligenza ma appariva scontroso e chiuso, con difficoltà nella socializzazione e nell’integrazione con i coetanei.

 La sintomatologia del piccolo si accentuò quando si evidenziarono nella madre dei disturbi psichici. Il bambino era diventato più aggressivo con i genitori e con i nonni, mentre presentava paura degli altri, del mondo esterno: temeva che potesse succedere qualcosa di male a se stesso o ai suoi genitori. Presentava, inoltre, fobia degli insetti, delle malattie e dei germi. E poiché temeva di essere contagiato si lavava le mani molte volte al giorno e soffiava in continuazione per eliminare i microbi dalla bocca. Sempre per lo stesso motivo non voleva essere toccato e non accettava i baci da nessuno. I suoi problemi non si limitavano alle fobie e ai sintomi ossessivi-compulsivi egli, se rimproverato, reagiva aggredendo verbalmente e fisicamente la madre, in quanto diceva che non poteva accettare di sottomettersi ai suoi comandi. Appariva disubbidiente, nervoso, irritabile e manifestava nell’ambiente domestico atteggiamenti provocatori, ostili, negativisti, facile perdita del controllo e atteggiamenti vendicativi. Se la madre gli chiedeva qualcosa o diceva o faceva un gesto che a lui dava fastidio “gridava come un pazzo”. Le emozioni che manifestava più frequentemente erano, pertanto, rabbia e aggressività.

Erano evidenti anche gravi problemi nella socializzazione: non voleva uscire da casa e solo alla fine della quarta elementare era riuscito a fare amicizia con due bambini. Molto geloso delle sue cose, non dava niente e non regalava niente a nessuno. Inoltre si rifiutava di assaggiare i cibi che non rientravano nel suo limitato menù. I suoi interessi erano molto ristretti: parlava, leggeva, collezionava e si interessava solo dei dinosauri. D’altra parte era molto impegnato nello studio tanto che non praticava alcuno sport per paura di non riuscire a studiare sufficientemente. Mentre era aggressivo verso i compagni di classe, nei confronti delle insegnanti era particolarmente educato e molto rispettoso. Nonostante verso la madre avesse dei comportamenti provocatori e aggressivi era molto geloso di lei, tanto che diceva al padre: “La mamma è mia, tu te ne devi andare”.

Quando si chiedeva al bambino quale poteva essere il motivo dei suoi problemi egli sottolineava soprattutto la separazione dei genitori.

Dall’esame di questo caso notiamo come le componenti ambientali siano state rilevanti nella nascita e nel mantenimento dei disturbi psicologici del bambino: presenza nella madre di importanti problematiche psichiche, conflittualità nei genitori sfociata in seguito nella loro separazione, scarsa attenzione ai segnali di sofferenza del bambino manifestata da entrambi i genitori.

Accanto alle problematiche di tipo ossessivo compulsivo sono evidenti in Salvatore molti altri sintomi di sofferenza: gravi problemi nella socializzazione, atteggiamento rabbioso e aggressivo nei confronti della madre e del padre, interessi notevolmente limitati.

Pensiamo sia evidente come il conflitto tra i genitori con la successiva separazione abbia provocato in Salvatore un conflitto interiore difficilmente superabile, che si manifestava con atteggiamenti di odio ma anche di gelosia nei confronti della madre e con rifiuto del padre. Tra i due genitori il bambino sembrava avesse scelto la madre, in quanto era la persona dalla quale poteva ricevere delle cure, ma nello stesso tempo vi era in lui la consapevolezza che anche la donna aveva partecipato e partecipava al suo malessere.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 285.

[2] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 384.

[3] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 383.

 

Il bullismo

 

Le violenze sui minori possono essere causate dagli adulti ma anche da altri minori.

 

Le violenze fisiche esercitate da altri minori possono essere causate da scontri fisici personali; da scontri tra gruppi e bande o da manifestazioni di bullismo.

 

Quest’ultimo tipo di violenza è stato sempre presente in ogni comunità: scuola, collegio o convitto, dove sono costretti a convivere molti bambini. In questi ambienti è facile che un altro ragazzo, o più spesso un gruppo di ragazzi, prenda di mira un coetaneo o un bambino più piccolo, immaturo e debole o con problemi fisici e/o psichici, mediante una serie di prepotenze e attacchi aggressivi, sia fisici sia verbali. Caratterizza, quindi, questo tipo di violenza, l’intenzionalità nel fare del male e il persistere nel tempo di queste azioni offensive da parte di uno o più minori della stessa età o più grandi, su uno o più minori.

La violenza viene esercitata mediante scherzi, beffe, esclusioni dal gruppo amicale, appropriazione e distruzione degli oggetti del bambino o dei bambini vittima dei compagni, ma anche da spintoni, minacce, insulti, ricatti e, a volte, violenze sessuali. La povera vittima è costretta a subire in silenzio tutto ciò, per timore di rappresaglie ancora più pesanti e dolorose. Non v’è dubbio che questo comportamento sia odioso ma, purtroppo, è molto frequente nelle scuole e in tutte le comunità dove bambini, ragazzi e giovani si ritrovano costantemente insieme.

 

Questi comportamenti a volte sono considerati degli scherzi innocenti, ma non sono affatto tali, in quanto possono causare, nel bambino o nel ragazzo che li subisce sofferenze notevoli fatte da frustrazione, senso di solitudine e di esclusione, disturbi psicosomatici, alterazioni del sonno, ansia generalizzata, attacchi di panico, difficoltà di concentrazione sulle materie scolastiche con conseguente calo nel rendimento scolastico, e, a volte, timori talmente intensi nel dover affrontare giorno dopo giorno i molestatori da spingere la vittima a rifiutare di andare a scuola. Queste odiose persecuzioni possono condurre ad uno scarso livello di autostima, concomitante ad una visione negativa di se stessi e delle proprie capacità, a depressione, insicurezza, a comportamenti autolesivi, al ritiro in se stessi, ma anche, per fortuna in rari casi, al suicidio.

Chi subisce prevaricazioni può, a sua volta, reagire in modo aggressivo nei confronti di altri coetanei sia per scaricare l’aggressività repressa a causa delle angherie subite, sia per recuperare prestigio all’interno del gruppo. Questi atteggiamenti persecutori possono essere già attuati nelle prime classi della scuola elementare ad un’età di sette-otto anni, ma possono essere presenti durante tutto il ciclo scolastico.

Il bullismo è appannaggio di entrambi i sessi, anche se i maschi tendono a perseguitare le loro vittime utilizzando soprattutto attacchi fisici: pugni, spintoni, schiaffi, pizzicotti, mentre le femmine, più frequentemente, tendono ad usare prevalentemente armi verbali e comportamenti di esclusione.

Purtroppo questo fenomeno non è legato a particolari ceti sociali, ed è particolarmente frequente in Italia. Come nota Fonzi[1]:

“Ciò che in primo luogo emerge è che il bullismo risulta in Italia molto più elevato che altrove, sia per quanto riguarda la percentuale dei prepotenti che quella delle vittime […,] In definitiva, l’alta incidenza del bullismo in Italia, se messa a confronto con quella degli altri paesi, sembra essere un fatto reale, che almeno in parte può essere ricondotto a differenze culturali. Noi riteniamo che nella nostra cultura le manifestazioni di conflitto siano più tollerate e che meno frequentemente portino alla rottura dei rapporti”.

 

Vi sono diversi tipi di bulli, così come vi sono diversi tipi di vittime.

Oliverio Ferraris e Olweus[2] distinguono:

 

  • il bullo aggressivo. È il più diffuso. Si presenta come un bambino fisicamente forte, impulsivo, sicuro di sé, con un forte desiderio di dominare gli altri. Appare come insensibile ai sentimenti altrui e considera la violenza come una cosa positiva. Questo tipo di bullo gode di grande popolarità tra i compagni e spesso si accompagna a dei gregari che gli danno man forte, in quanto, almeno inizialmente, suscita timore e ammirazione presso gli altri coetanei;
  • il bullo passivo o gregario . Questi non prende l’iniziativa di far del male alla vittima, ma appoggia e si aggrega ai bulli. Partecipa parzialmente e, qualche volta, si limita ad assistere. Non è particolarmente aggressivo, è sensibile ai sentimenti altrui e si sente in colpa dopo aver agito, cosicché è disponibile a confessare il deprecabile comportamento del gruppo dei bulli aggressivi;
  • il bullo ansioso. Èil meno sicuro e il più problematico. Può attaccare bambini e ragazzi più forti di lui, facendosi aiutare dai gregari, pur di poter esprimere, in qualunque modo, la sua aggressività.

 

Gli stessi autori distinguono due tipi di vittime:

 

  • le vittime passive. Queste sonorappresentate da bambini riservati, facili al pianto, senza amici, insicuri, ansiosi, fisicamente poco forti. Se si tratta di femminucce queste sono meno abili nel difendersi con le parole agli insulti, ai pettegolezzi e al vocio denigratorio delle compagne. Per cui tra il bullo e la vittima vi è sempre asimmetria per prestigio e per potere.
  • le vittime provocatrici. Queste vittime sono composte da bambini ansiosi, che si comportano in modo irritante e provocatorio. Questi minori appaiono più deboli dei bulli, sono impulsivi e sono anche capaci di attaccare, ma reagiscono in modi poco efficaci, diventando vittime dei compagni più prepotenti e più determinati di loro.

 

I minori che tendono a prevaricare sono descritti dai vari autori che hanno studiato questo fenomeno come bambini estremamente ansiosi e insicuri, che presentano indifferenza, scarsa empatia e mancanza di coinvolgimento emotivo nei confronti delle vittime. Bambini carenti di autorealizzazione e autostima, frustrati da esperienze scolastiche negative, con disordini cognitivi e socialmente incompetenti. Sono descritti, inoltre, come bambini alla ricerca di un rinforzo compensativo a causa di inadeguato soddisfacimento di uno o più bisogni interiori. Questi minori hanno genitori che, pur usando e abusando nell’imporre la disciplina di punizioni fisiche, non riescono in alcun modo a contenere i comportamenti aggressivi dei figli. Censi[3]  nota che nel bullismo “il venir meno di finalità socialmente apprezzate e di un sistema forte di obiettivi può condurre a forme di apatia emotiva. Un analfabetismo dei sentimenti che può condurre ad azioni deprivate di principi: l’indifferenza programmata, la violenza immotivata, la sopraffazione insensata”.

 

Le vittime sono descritte da Giorgi e altri[4] come “prudenti”, piuttosto “sensibili” e genericamente “tranquille”. Quando gli alunni-vittime sono di sesso maschile tendono ad essere fisicamente meno prestanti e più deboli, a livello di forza fisica, dei loro aggressori.

 

Interventi

 Sappiamo che gli interventi da parte dei docenti e delle autorità scolastiche sono difficili, in quanto i ragazzi vittima di bullismo, non avendo molta fiducia nell’aiuto degli adulti non sempre sono disposti a denunciare gli abusi subiti. Ma anche quando questo avviene i docenti si trovano in difficoltà in quanto poco o nulla ottengono punendo con maggiore severità gli aggressori, mentre non riescono a coinvolgere i loro genitori, per definire un’azione educativa concordata, in quanto questi tendono spesso a difendere e proteggere i comportamenti dei loro figli in ogni caso e con tutti i mezzi, per evitare di sentirsi in colpa loro stessi.

Gli interventi da predisporre per affrontare questa problematica devono necessariamente tener conto di alcuni elementi:

 

  1. Le manifestazioni aggressive hanno quasi sempre un substrato fatto di errori nello stile educativo ma anche e soprattutto nascono da ambienti familiari scarsamente idonei allo sviluppo di un minore. Il piacere di far del male ad una persona più debole, l’apparente insensibilità verso la sua sofferenza presuppongono, quindi, molto spesso, la presenza di disturbi psicoaffettivi capaci di minare la normale sensibilità del bambino. È allora necessario innanzitutto affrontare, con l’aiuto di esperti neuropsichiatri e psicologi, la patologia che sottostà a questo tipo di comportamenti.
  2. Quando questi bambini aggressivi avvertono che gli altri non li considerano bambini “cattivi” ma bambini che per vari motivi manifestano in questo modo la loro sofferenza, il loro atteggiamento cambia sostanzialmente in quanto sentono che qualcuno è interessato finalmente al loro malessere e non soltanto a quello che essi procurano agli altri, con i loro comportamenti.

Il rapporto con la famiglia del bullo non dovrebbe consistere nel raccontare ai loro genitori le malefatte del figlio, in quanto ciò contribuirebbe a metterli ancora più in crisi, peggiorando il loro già difficile rapporto con il figlio. Sarebbe importante, invece, aiutarli a meglio capire e aiutare il loro figlio mediante dei colloqui di supporto e di sostegno.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Fonzi,  A., (1997-1998), “Il bullismo in Italia”, Psicologia e scuola,  n°89, Anno diciottesimo, dicembre –gennaio, pp. 4-5.

[2] Oliverio Ferraris A., (2005), Non solo Amore, Firenze, Giunti Demetra, p. 57.

[3] Censi, A., (2010), “Bambini. Dalla violenza alla cura”, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza,  vol. 77, p. 225.

[4] Giorgi, R., et al., “Bullismo: analisi e prevenzione del fenomeno”, Attualità in psicologia, Volume 15, n. 2, p. 174.

 

L'autolesionismo nel bambino

 

Nell’autolesionismo il bambino, nei momenti di crisi in cui è particolarmente ansioso, nervoso, arrabbiato, depresso, ma altre volte anche senza apparente motivo, si fa del male in vari modi: batte la propria testa sul muro, si dà pugni e schiaffi, si graffia le braccia e le gambe ecc. Non vi è, quindi, qualcuno o qualcosa che gli fa del male, ma è lui stesso che si autoinfligge sofferenza, dolore, e a volte, anche mutilazioni. Le reazioni di chi assiste a questi comportamenti sono le più varie: alcuni sgridano il bambino per farlo smettere, altri lo abbracciano e cercano di consolarlo, altri si agitano e gridano scompostamente, altri ancora cercano di bloccare con tutti i mezzi le sue mani e il suo corpo.

Le cause

Le motivazioni di questo comportamento possono essere molte:

  •   desiderio di punizione per tacitare dei sensi di colpa:
  •   risposta ad una grave frustrazione subita:
  •  segnale di richiamo o di sollecitazione nei confronti dell’ambiente. Come dire “Io ci sono. Io ho dei bisogni. Ascoltatemi!”;[1]
  •   auto stimolazione in un contesto di isolamento;[2]
  •   modo per fronteggiare conflitti interni fatti di pensieri ed emozioni opprimenti ed insopportabili, mediante un dolore fisico auto procurato;
  •   modalità per concentrare la propria attenzione sulla realtà e non sulle idee fantastiche. Anche perché è stato sperimentalmente verificato che più i pazienti soffrono di tensione o di sensazioni dissociative, come il senso di irrealtà, minore è il dolore provato;
  •   bisogno di manifestare la propria rabbia verso gli altri. In questo modo il bambino evita di aggredire la o le persone chi gli stanno accanto e a cui tiene molto;
  •   piacere masochistico nel provare delle intense sensazioni dolorose;
  •   alterazione della differenziazione tra sé e non sé;
  •   percezione ed integrazione difettosa degli stimoli dolorosi;[3]
  •  alcuni autori associano l’autolesionismo ai tentativi di suicidio, partendo dal presupposto che si tratti di comportamenti autodistruttivi e di attacco al proprio corpo.

Non vi è dubbio che spesso questo aggredire se stessi è quasi sempre accompagnato da uno stato di notevole sofferenza interiore, associato a rabbia. Queste manifestazioni sono frequenti in bambini deprivati di cure materne, nei soggetti affetti da disturbo autistico o nei soggetti istituzionalizzati, ma anche in tutti i bambini nei quali la sofferenza e la rabbia non trovano mezzi o strumenti più idonei per manifestarsi se non quelli drammatici sopra descritti. Ne abbiamo una prova evidente nel fatto che quando questo stato di notevole disagio o sofferenza diminuisce, questi comportamenti come per magia scompaiono.

Le scorribande di Giovanni

Il caso di Giovanni è emblematico. Questo ragazzo adolescente, ricoverato in ospedale psichiatrico per paresi spastica agli arti inferiori e per gravi disturbi del comportamento era, sia di giorno sia di notte, costantemente contenuto, in quanto gravemente autolesionista: si dava pugni sul viso e metteva le dita in bocca fino a lacerare le guance così da far sgorgare rivoli di sangue. Questa sintomatologia sembrava resistente a qualunque terapia con psicofarmaci ma anche ai tentativi di comunicazione che, quando era possibile, vista la grave situazione del reparto, cercavamo di attuare. Poiché stimolati dalle idee del Prof. Basaglia eravamo riusciti ad aprire il reparto verso l’esterno cosicché gli ammalati venivano invitati ad uscire non solo nel giardino dell’ospedale, ma anche fuori dalle sue mura, Giovanni era l’unico paziente che rimaneva confinato dentro la sua camerata e, per giunta, contenuto nel suo letto. Un giorno, visti falliti tutti i tentativi, abbiamo pensato di provare a mettere anche lui fuori del reparto, anche se seduto e legato su una sedia a rotelle. Poiché i primi due-tre giorni urlava con rabbia e si dibatteva cercando di far capovolgere la sedia, così da farsi male cadendo, abbiamo pensato di mettergli accanto, per evitare che ciò avvenisse, un robusto paziente affetto da ritardo mentale, molto socievole, disponibile e allegro.

Tra i due  era scoccata un’amicizia insperata. Il paziente con ritardo mentale, nonostante non riuscisse a parlare, imboccava Giovanni all’ora di pranzo e cena, gli permetteva di fumare porgendogli la sigaretta e lo faceva rientrare in reparto quando aveva bisogno di espletare i suoi bisogni fisiologici. Vedendo Giovanni più allegro e sorridente, mentre prima era perennemente triste e arrabbiato, abbiamo provato a lasciargli libero un braccio. Il ragazzo non solo non si picchiava più, ma era felice di poter fumare e mangiare senza bisogno di alcun aiuto esterno. Questo ci ha incoraggiato a lasciargli libero anche l’altro braccio e le gambe. L’autolesionismo era scomparso, non solo, ma egli, approfittando della forza notevole dell’amico che aveva trovato, utilizzando la sua sgangherata sedia a rotelle, aveva trovato il modo per divertirsi, facendo delle scorribande in tutto l’ospedale, ridendo e scherzando con tutti quelli che incontrava, comprese delle suore che non vedevano di buon occhio le sue corse su e giù per le stradine del nosocomio, unite ai tanti sberleffi che distribuiva a destra e a manca alle persone che incontrava.

I segnali di sofferenza di Fabrizio

Fabrizio, di anni cinque, è stato un altro caso nel quale insieme a molti altri sintomi legati alla sofferenza provata era presente aggressività sia verso gli altri sia verso se stesso.

Il bambino era figlio di una coppia di separati. Il padre veniva descritto dalla madre come un uomo introverso, egoista, poco attento e delicato nei confronti della moglie e del bambino. Questa, d’altro canto, si descriveva come una donna espansiva, un po’ aggressiva, ma sensibile.

Già dopo alcuni mesi dal matrimonio vi erano stati dei problemi nella relazione coniugale, che erano sfociati nella separazione. Giuseppe era, quindi, vissuto in una famiglia nella quale i rapporti genitoriali erano stati sempre conflittuali.

Le manifestazioni della sua sofferenza erano state, negli anni, molteplici: inizialmente presentava balbuzie, tendenza all’isolamento, facile pianto, attaccamento morboso alla madre e alla nonna materna. Successivamente, invece, si era chiaramente manifestata aggressività verso i genitori, i parenti e gli altri bambini, mentre aumentava il distacco emotivo verso il padre. Dopo la separazione dei genitori i sintomi prevalenti riguardavano un’accentuazione dell’isolamento, l’enuresi notturna, la tristezza, l’odio verso la casa nella quale viveva, la paura della solitudine, il bisogno di dormire sistematicamente nel letto dei genitori, anche su richiesta e bisogno della madre, ed infine la presenza di etero ed auto-aggressività,

Come si può ben osservare nei due casi che abbiamo presentato, l’auto ed etero aggressività non si evidenzia mai come sintomo isolato, ma è quasi sempre collegata ad una costellazioni di segnali che evidenziano una notevole sofferenza del bambino o dell’adolescente. Sofferenza che può essere nata in epoca precoce, ma che continua ancora nel tempo ad accompagnare il minore come un triste retaggio.

Una casetta per giocare

Mariangela aveva cinque anni ed era affetta da una grave forma di Disturbo Autistico che si manifestava, tra l’altro, con gesti di autolesionismo. La madre, nelle prime sedute, non faceva che raccomandarmi di starle molto vicino, così da bloccare le sue mani se avesse cercato di graffiarsi o farsi del male, come faceva nella sua casa.

 Mentre me ne stavo seduto nel punto più lontano dalla bambina, senza parlare e senza fare alcun gesto, pensavo a cosa avrebbe detto di me la madre della piccola vedendomi in quella posizione, mentre la figlia, per una buona mezzora, non faceva altro che battere ritmicamente la testa sull’anta di una libreria.

Per fortuna questo suo comportamento aveva più l’aspetto di una stereotipia che non di vero autolesionismo, in quanto la bambina, con il suo gesto non si faceva realmente del male. Era molto più evidente, invece, e questo mi colpì molto, la notevole angoscia e sofferenza interiore che traspariva dal suo viso.

Solo dopo alcune sedute, e solo dopo aver constatato che la bambina era più a suo agio, tanto da aver sostituito quegli aspetti stereotipati di autolesionismo, con il battere un piccolo pezzetto di legno sulla guancia, mi avvicinai un po’ di più a lei, ma senza mai cercare di avere alcun contatto fisico.

Già alla terza seduta avevo messo sulla scrivania qualche giocattolo tra cui una bella casetta di bambole. Giocattoli che, però, erano stati totalmente ignorati. Solo verso la fine della quinta seduta Mariangela aveva portato per qualche minuto il suo piccolo pezzetto di legno dentro la casetta delle bambole, facendolo sbattere tra le mura delle stanze e sulla scaletta interna, senza mai però guardarmi negli occhi. Anche questa volta mi tenni in disparte per rispettare il suo spazio fisico e le sue paure. Solo nelle sedute successive pensai fosse giunto il momento di propormi come un suo timido e tranquillo compagno di gioco. Compagno estremamente rispettoso di ogni sua emozione e quindi pronto a ritirarmi in buon ordine, se solo avessi notato una pur minima accentuazione del suo malessere.

Per fare ciò, stando dall’altra parte della scrivania, mentre la casetta restava al centro di noi due, imitavo il gioco della bambina infilando una penna nelle finestre e nelle aperture posteriori della casetta. Per diversi minuti non accadde nulla. Lei muoveva il suo legnetto da una parte, mentre io muovevo la mia penna dall’altra. Se cercavo di toccare con la mia penna il suo legnetto lei sembrava non accorgersi di niente però spostava la sua attenzione su una zona diversa della casetta. Sentivo nettamente che aveva ancora scarsa fiducia in me come compagno di giochi. C’era ancora tra noi un muro di sospetto e di diffidenza che, però, solo lei poteva demolire. Quando e come avrebbe voluto farlo non potevo saperlo, però non mi restava altro che continuare ad essere per lei una presenza sorridente, aperta, disponibile, accettante e mai invasiva, né con le parole, né con i gesti.

Mariangela iniziò a rompere il muro di sospetto nelle sedute successive quando, con il volto serio, sempre come distratto e soprappensiero, ma non arrabbiato, iniziò a spingere con il suo legnetto la mia penna, così da impedirmi di entrare nella sua casetta, mentre io fingevo, per gioco, un gran dispiacere per il suo gesto di rifiuto. Quando Mariangela capì che era un gioco e che io accettavo le sue espressioni di aggressività, sentii che la bambina aveva iniziato a rompere il muro che aveva costruito per difendersi da tutto e da tutti.

Frattanto, gli atteggiamenti di auto-aggressività erano totalmente scomparsi, e anche nelle sedute successive rifacemmo lo stesso gioco con sempre maggiore partecipazione e divertimento da parte di entrambi, fino a quando, e questo non era scritto nei libri di neuropsichiatria infantile che avevo letto, lei cominciò a proporre numerosissimi altri giochi ai quali mi invitava a partecipare e ai quali io aderivo ma sempre come un timido, buon scolaretto. A volte si trattava di giochi con intenti aggressivi e violenti come mettere tutti i giocattoli a terra cosicché potevamo calpestarli violentemente saltandoci sopra. Altre volte, al contrario, i giocattoli e gli oggetti che le avevo messo a disposizione venivano trattati come le reliquie dei Santi. Li metteva uno accanto all’altro in modo perfettamente ordinato, per poi osservarli a lungo in silenzio. Era come un’alternanza di guerra e pace, di bisogno di lasciarsi andare ad istinti aggressivi, per poi ricostruire e godere dei momenti di pace interiore.

 

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 187.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 187.

 

[3] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, pp. 490-492.

 

L'aggressività nel bambino

 

 

Le manifestazioni aggressive del bambino

L’aggressività è sempre presente nell’essere umano e assume le più varie forme in base all’età. È presente nel neonato, come nell’adolescente o nell’adulto, anche se variano le modalità e gli strumenti con i quali viene manifestata ed espressa.

Già nei primi mesi di vita, soprattutto quando le sequenze abituali non sono rispettate o le consuete gratificazioni non compaiono al momento giusto, il neonato, se irritato o insoddisfatto, dimostra la sua aggressività mordendo il capezzolo della madre, stringendo i pugnetti, rigurgitando o rifiutando il cibo.

Nel bambino di due – quattro anni, la collera e l’aggressività si manifestano quando egli è frenato, contrastato, frustrato, nelle sue aspettative in modo eccessivo.[1] A quest’età, quando la madre, per fare le pulizie o perché stanca di vederlo correre in giro per la casa, lo isola per qualche momento nel box o nel suo lettino egli, come un adirato prigioniero, manifesta la sua indignazione sbattendo i giocattoli sul lettino o sul box. Altri bambini, nel desiderio e nella ricerca di far del male, si attaccano, strappandoli, ai capelli della madre o della sorella. Tuttavia, con la maturazione affettivo-relazionale vi è una graduale diminuzione nell’uso dell’aggressività o un suo utilizzo prevalente nel gioco simbolico. Come dice Spok[2]:

“Un bambino normale impara a controllarsi a poco a poco, crescendo, attraverso le manifestazioni delle propria natura e i buoni rapporti con i genitori. A uno-due anni, quando è arrabbiato con un altro bimbo, è capace di morsicagli un braccio senza un attimo di esitazione. Ma a tre-quattro anni ha già imparato che l’aggressività violenta è una brutta cosa, però gli piace fingere di uccidere sparando ad un ipotetico indiano”.

 

IL BAMBINO DISUBBIDIENTE

 

 

Il bambino disubbidiente ha scarsa aderenza alle richieste dell’altro, ha difficoltà a coinvolgersi in attività condivise, ha poco rispetto per le regole, ha un comportamento oppositivo, a cui corrispondono, se i genitori e gli educatori vogliono costringere il bambino ad effettuare quanto richiesto, crisi di collera.[1]

Questo comportamento, per cui il bambino rifiuta di sottostare alle richieste impartite dai genitori o da un’altra autorità, è considerato dalla psicoanalisi caratteristico della fase anale dello sviluppo psichico (secondo – terzo anno). In questa fase il bambino ha bisogno di differenziare il proprio Io da quello della madre e da quello delle persone che l’accudiscono, in modo tale da avere una sua autonomia e, di conseguenza, un maggior controllo su se stesso e sul mondo esterno. A quest’età, pertanto, questo tipo di comportamento non dovrebbe essere valutato come patologico, né dai genitori, né dagli altri educatori. Questo sintomo dovrebbe invece essere degno di attenzione solo se lo si rileva in maniera abnorme ad un’età superiore.

Ritroviamo comportamenti disubbidienti in molti bambini che presentano vari altri segnali di sofferenza: bambini con paure, iperattività, irritabilità; bambini che presentano disturbi dell’attenzione o disturbi oppositivo-provocatori. Il massimo della disubbidienza crediamo sia appannaggio dei bambini con disturbo pervasivo dello sviluppo. Questi sembrano non udire nemmeno le richieste fatte dagli altri, per cui continuano imperturbabili nell’attività o nel gioco intrapreso e quando li si costringe a smettere rispondono con irritazione ed aggressività.

In questi piccoli, se la patologia è molto grave, questo sintomo viene meglio accettato dagli educatori e dai genitori, in quanto l’handicap evidente lo giustifica; se invece è presente nei bambini con disturbo autistico ad alto funzionamento, la vivace intelligenza, unita alle notevoli capacità nel ricordare, calcolare e nell’effettuare spontaneamente attività complesse, provoca nei genitori e negli insegnanti, dei giudizi nettamente negativi, nonché manifestazioni di stizza con minacce e castighi, in quanto sono giudicati come bambini molto capricciosi e insubordinati da mettere in riga mediante delle punizioni, piuttosto che come piccoli esseri sconvolti da gravi problemi psicologici.

 

Interventi
  1. Isaacs[2]consiglia, intanto, di dividere le richieste fatte al bambino in tre categorie:
  • le cose per cui pretendiamo un’obbedienza assoluta. In questo caso se la nostra richiesta è saggia e utile, è bene comportarsi con decisione, anche se gentilmente e affettuosamente. È importante però che queste richieste non siano numerose e frequenti in quanto, se così fosse, costringeremmo il bambino in modo eccessivo, limitando notevolmente le sue possibilità di giudizio e di scelta, per cui rischiamo di alimentare nel bambino o dei comportamenti eccessivamente deboli e inibiti o, al contrario, atteggiamenti aggressivi, oppositivi, distruttivi e ribelli.
  • Le cose nelle quali abbiamo delle speranze e delle preferenze che suggeriamo direttamente o indirettamente ma che non imponiamo. In questo caso è bene far chiaramente capire al bambino quali sono, secondo il nostro parere, le scelte migliori, ma evitiamo di imporgliele.
  • Le cose nelle quali lasciamo il bambino libero di scegliere. In questo caso accettiamo con gioia le sue scelte senza fargli pesare il fatto che noi avremmo fatto diversamente.
  1. Nel fare delle richieste è utile ricordarsi che il bambino ha una visione temporale diversa dalla nostra. Per tale motivo cerchiamo di non intralciare all’improvviso le attività nelle quali è impegnato. Quando abbiamo bisogno di chiedergli qualcosa, avvisiamolo per tempo, in modo tale che possa completare ciò che ha già iniziato. Se i genitori vogliono fare tutto in fretta si ritroveranno con un bambino che non collaborerà.
  2. Dopo esserci assicurati che quanto chiediamo sia giusto, nelle nostre richieste usiamo un atteggiamento nel quale la fermezza sia associata alla dolcezza, all’affettuosità e alla fiducia, così che egli avverta la nostra stima, il nostro rispetto ma anche la fiducia che abbiamo verso di lui. Fiducia che quanto abbiamo chiesto egli lo farà. Se rimaniamo calmi, affettuosi e fiduciosi, è molto più facile che il bambino ubbidisca alle nostre richieste; se, invece, dentro di noi vi è già il preconcetto che lui si comporterà in maniera disubbidiente, egli avvertirà la nostra scarsa fiducia nei suoi confronti, ma anche la nostra rabbia e collera pronte a manifestarsi, per cui interpreterà quello che gli chiediamo come una violenta, ingiusta imposizione. Pertanto è sicuramente controproducente urlare. Quando i genitori urlano i bambini ubbidiscono solo in quanto si spaventano, ma questo spaventarsi li sconvolge, per cui in futuro tenderanno a vivere ancora di più nel loro mondo e a vedere i genitori come dei nemici cattivi, e quindi ubbidiranno sempre meno.
  3. Teniamo inoltre presente che nel rapporto con un bambino è bene non considerare ogni momentaneo rifiuto come una disobbedienza assoluta. A volte i suoi “no” significano soltanto che ancora non ha finito quello che aveva iniziato, per cui, dopo che egli avrà concluso il suo gioco o avrà messo ordine nei suoi pensieri e nelle sue emozioni, i suoi “no” potranno benissimo trasformarsi in “sì”.
  4. Se il bambino manifesta un atteggiamento aperto di sfida, di rabbia e si mette a fare capricci, non è utile sgridarlo. È molto meglio aspettare che si calmi e poi fare di nuovo la nostra richiesta, sempre con molta calma e affettuosità. L’importante è assicurarci che non ottenga niente con i suoi capricci[3].
  5. Per distinguere ciò che è capriccio da ciò che non lo è, dobbiamo necessariamente metterci in ascolto dei suoi vissuti interiori. Se il bambino è psicologicamente disturbato e quindi è ansioso, teso, stanco e nervoso, non potrà sicuramente rispondere prontamente alle nostre richieste. Il nostro compito, in questi casi, non è imporre la nostra disciplina e farci ubbidire a qualunque costo, ma renderlo più sereno, in modo tale che possa avere la possibilità e la capacità di essere ubbidiente, senza effettuare un notevole sforzo su se stesso. Se, in questi casi, come spesso accade, attuiamo delle imposizioni violente, rischiamo di accentuare il suo disagio e, quindi, rischiamo di peggiorare tutta la sua vita affettivo- relazionale, compresi i suoi comportamenti disubbidienti. Abbiamo detto che il massimo della disobbedienza lo ritroviamo nel bambino con disturbo autistico ma non è un caso che in questi bambini ritroviamo il massimo dei disturbi psicologici.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 105.

[2] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, p. 89.

[3] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, pp. 92-93.

La perdita della sicurezza nei bambini

La perdita della sicurezza nei bambini

Emidio Tribulato

 

 


 

Per Militerni:[1]“La sicurezza si riferisce a quel sentimento di stabilità emotiva derivante dalla maturazione di alcune certezze “interne”, che permettono al bambino di affrontare situazioni nuove e fronteggiare situazioni insolite”. Una delle maggiori ansie del bambino è data dalla perdita della sicurezza. È nota l’angoscia che egli prova in questi casi.

 

Gli eventi che possono comportare insicurezza sono numerosi. Facciamo qualche esempio. Un mattino, mentre il piccolo si alza dal letto, la mamma gli presenta la nuova tata, la quale, con fare dolce e accogliente, si sforza in tutti i modi di fare amicizia con lui. Per fortuna questa giovane donna, già dopo qualche giorno, riesce in pieno a conquistare la sua fiducia e il suo affetto. Purtroppo, dopo qualche mese, giacché i genitori del piccolo hanno trovato un’altra ragazza più disponibile o più a buon mercato, la tata gli si avvicina con le lagrime agli occhi per salutarlo, in quanto dovrà andare via. Nel contempo lo rassicura che verrà a trovarlo spesso e che continueranno a restare sempre buoni amici. Naturalmente ciò non avviene! Questa promessa è solo una pietosa bugia. Dopo i primi saltuari contatti la giovane donna, avendo trovato un altro lavoro e altri interessi, non telefona più, mentre le visite diventano sempre più rare.

 

Facciamo ora un altro esempio fra i tanti possibili: la mamma accompagna il bambino all’asilo nido e lo lascia, rassicurandolo, tra mille baci e calde lagrime, che verrà prestissimo a riprenderlo: “Il tempo di comprarti un regalino e poi sarò di nuovo da te e ce ne andremo a casa”. Naturalmente, trattandosi di una pietosa bugia, ciò non avviene. La mamma compra sì un regalino per il piccolo, ma la sua assenza, durata troppo a lungo per poterla sopportare tranquillamente, determina nel bambino la paura di averla perduta per sempre, paura che si confonde con la rabbia per l’inganno subito. E a nulla vale il regalino per cancellare questi sentimenti! Se questi eventi, o eventi simili si ripetono più volte, sarà facile che nell’animo del bambino alligni la sfiducia. Sfiducia non solo nei confronti della figura materna ma anche verso tutti gli adulti e verso la vita in generale. Accanto alla sfiducia emergerà prepotentemente l’insicurezza.

 

Per tale motivo, il senso della perdita della sicurezza può essere acuto o cronico. In entrambi i casi il bambino prova, insieme alla paura, dolore, sofferenza e rabbia. Naturalmente le conseguenze saranno più gravi quando la perdita della sicurezza è cronica, piuttosto che quando l’evento traumatico è raro e si risolve in breve tempo.

 

I motivi che possono portare alla perdita della sicurezza sono molti. Ne ricordiamo solo qualcuno dei più importanti:

 

  •   poiché fonte primaria della sicurezza per il bambino è la propria madre ed i propri genitori verso i quali, specie quando egli è piccolo, vi è un attaccamento particolare, una madre o un padre poco o saltuariamente presenti comportano senso di insicurezza;
  •   lo stesso sentire è presente quando il bambino, pur non essendo maturo per affrontare una separazione dai suoi, viene forzatamente allontanato dalla propria casa e dalla propria famiglia per essere inserito in ambienti a lui non consueti, in compagnia di persone sconosciute. Anche in questo caso può avvertire ansia o peggio angoscia abbandonica;
  •   anche le difficoltà economiche possono essere fonte di insicurezza, sia perché il bambino avverte nell’ambiente attorno a lui l’ansia e la preoccupazione per questa difficile e preoccupante situazione di vita, sia perché nel confronto con gli altri si sente sminuito e “diverso”;
  •   per quanto riguarda la presenza di una disabilità, questa comporta senso di insicurezza solo quando la famiglia, la scuola e l’ambiente sociale che il bambino frequenta non riescono a ben gestire i suoi limiti e le sue difficoltà;
  •   motivi di insicurezza prova il bambino quando si ritrova coinvolto in situazioni di disarmonia familiare (De Negri e altri[2], 1970, pp. 116-117). In questi casi, poiché ogni minore ha bisogno di sentirsi protetto, sostenuto ed amato dai suoi familiari, fonte di sicurezza è l’avvertire che i suoi genitori sono uniti e il loro legame è stabile e solido. Quando invece tra i genitori vi sono continui, traumatici contrasti, il bambino avverte la paura ed il rischio concreto della rottura del legame familiare e della possibile perdita di uno o di entrambi i genitori;
  •   da non dimenticare, infine, che motivi di insicurezza possono sorgere da comportamenti genitoriali eccessivamente autoritari, limitanti e frustranti o, all’opposto, da comportamenti eccessivamente permissivi.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" -Volume unico

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[1] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 97.

 

[2] De Negri M. et al., (1970), Neuropsichiatria infantile, Genova, Fratelli Bozzi Editori, p. 116-117.

 

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