Problematiche psicoaffettive

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Tricotillomania e onicofagia

 

 

tricotillomania caduta capelli

 

 

Nella tricotillomania, il bambino avverte un bisogno irresistibile di arrotolare, toccare, accarezzare o, nei casi più gravi, strappare i capelli propri o quelli della madre quando rimane vicina a lui. Quando i capelli sono strappati, questi bambini possono procurare a se stessi chiazze di alopecia.

Questo comportamento provoca stress all’intera famiglia che non sopporta di vedere il figlio che si strappa i capelli e si provoca la calvizie. “Questa condotta può comparire in situazioni di ansia, frustrazione o carenze affettive: separazione dai genitori, morte di uno di loro, nascita di un fratellino, collocamento in istituto…”[1]. In questi casi è inutile rimproverare il bambino: non è con i rimproveri che l’ansia diminuisce. È molto meglio avere con lui un comportamento più vicino e affettuoso ed eventualmente impegnarlo in piccoli lavori manuali o suggerirgli di scaricare l’ansia su qualche oggetto morbido, da tenere e stringere tra le mani.

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Nell’onicofagia, invece, il bambino avverte il bisogno di succhiarsi le dita, di mordersi le unghie o le pellicine attorno all’unghia. Questo comportamento è molto frequente nei bambini ansiosi, troppo vivaci, attivi ed autoritari, i quali hanno bisogno di contenere la loro tensione ed il loro nervosismo.[2]L’onicofagia può essere interpretata come una persistenza del bisogno autoerotico infantile del succhiare: prima il ciuccio e poi il dito. Alcune volte è un comportamento transitorio della durata di pochi giorni o pochi mesi. Può però diventare un comportamento radicato e persistere anche in età adulta. Poiché viene giudicato dagli adulti: genitori, familiari, insegnanti, come un “vizio” e un comportamento riprovevole, anche dal punto di vista igienico, il bambino stesso, se sensibile al giudizio altrui, cerca di evitarlo in ogni modo, ma spesso con scarsi risultati; per cui, anche se di nascosto, continua a mordicchiarsi le unghie.

Sono stati proposti numerosi interventi per dissuadere il bambino e anche il ragazzo da questo comportamento. Poiché si è visto che a nulla servono minacce, rimbrotti e castighi, si è cercato di agire mediante delle tecniche repulsive come fasciare le dita o mettere su di esse una sostanza amara. Oppure, al contrario, si è cercato di rendere orgogliose delle loro unghie le bambine e le ragazzine, mettendo uno smalto e curandole perfettamente. Tuttavia questo come tutti i sintomi che segnalano un disagio o un chiaro disturbo psichico, necessita di interventi che devono riguardare innanzitutto l’ambiente di vita del bambino, al fine di renderlo il più sereno possibile, mentre si segue e si cura il bambino mediante una psicoterapia individuale.


 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 92.

[2] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 92.

 

L'ansia nei bambini

 

 

 

 

L’ansia è un’emozione che tutti noi proviamo comunemente nel corso della nostra vita. Chi non ha mai provato ansia quando da bambino o adolescente, seduto nel banco, a capo chino, aspettava che il professore aprisse il registro per scegliere, in base a sue profonde e imperscrutabili alchimie, chi interrogare quel giorno?

Chi non ha provato ansia, mentre in un’aula universitaria assisteva agli esami degli altri candidati e si chiedeva continuamente: “Questo domanda la so, questa non la so?”, “oh, Dio! fa domande troppo difficili! Cosa faccio? Non è meglio se mi ritiro e do la materia un’altra volta?” L’ansia fa compagnia anche a tutti i neo papà i quali, dietro la porta della sala parto, aspettano che la consorte metta al mondo il loro primogenito.

Ansia piacevole e ansia spiacevole

Accanto a queste ansie spiacevoli vi sono anche quelle piacevoli, come quando, con struggimento, aspettiamo l’amata o l’amato al primo appuntamento. Mentre in psicoanalisi i termini di ansia e angoscia sono usati come sinonimi, nell’ambito della psichiatria si preferisce usare il termine angoscia, quando l’ansia è molto intensa ed è accompagnata da paure irrazionali, da una sensazione di malessere generico e, a volte, da vertigini, sudorazioni, e palpitazioni cardiache, per cui ha un potere paralizzante, producendo confusione.[2]

Definizioni dell'ansia

Non è facile descrivere l’ansia: viene comunemente indicata come una sensazione di paura vaga e senza un oggetto specifico. In questo senso si distingue dalla paura nella quale vi è un ben definito oggetto che si teme. Per Bressa[3] : “l’ansia si può definire come quel fenomeno funzionale, destinato a sollecitare nel complesso mente-corpo che forma il nostro universo, una risposta sintonica ed adattativa agli stimoli esterni”. Lo stesso autore la definisce come quella sensazione di attesa penosa, quel malessere che ci impedisce una piena realizzazione facendoci vivere male anche le situazioni più banali[4]. Ma chiunque l’abbia provata, almeno una volta, sa che è qualcosa di più e di diverso. È un’emozione che impedisce di pensare correttamente e serenamente. È un’angoscia che blocca il respiro. È una sgradevole tensione che avvolge e sconvolge il corpo e la mente. È una bufera dentro la quale ci si ritrova sballottolati “come foglie al vento”. In altri casi si ha la sensazione di navigare su una fragile barchetta in mezzo alla tempesta, senza riuscire ad avere una meta precisa, senza riuscire a concentrarsi anche su compiti estremamente semplici e banali.

 

Ansia normale 

L’ansia viene considerata un’emozione normale, in quanto è notevolmente presente nella vita quotidiana: sia degli animali, sia dell’uomo. Essa è una forma particolare di paura che si sviluppa quando si è esposti a un pericolo che è ancora incerto, nella sua natura e indefinito nello spazio e nel tempo. L’ansia ha la funzione di mettere in allerta il corpo, in modo tale che possa affrontare al meglio: con più grinta ed efficacia, le prove più difficili ed ardue. Questa emozione si ritrova maggiormente nel sesso femminile, forse per permettere alle madri di attivarsi prontamente e rapidamente nella protezione e nella cura dei piccoli.

L’ansia è spesso accompagnata da una o più sensazioni fisiche sgradevoli: aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, sudorazione, dolori al petto, cefalea, respiro corto, nausea, tremore interno, formicolii, dolore di stomaco e secchezza alla bocca. A questi sintomi seguono stanchezza e spossatezza come quando si è compiuto uno sforzo notevole.

L’ansia si distingue dalla paura vera e propria per il fatto di essere aspecifica e vaga.

Ansia piacevole – Ansia sgradevole

Tutti noi abbiamo sicuramente sperimentato, più di una volta, nella nostra vita l’emozione dell’ansia, e abbiamo imparato a distinguere nettamente l’ansia piacevole da quella sgradevole. Quando, aspettando l’arrivo della persona amata, abbiamo avvertito il cuore battere forte, mentre le tempie pulsavano, il respiro si faceva corto e la bocca diventava secca e asciutta, abbiamo provato cosa significa l’ansia piacevole. Altre volte, sicuramente, abbiamo provato anche l’ansia sgradevole, quando, in ritardo rispetto all’orario di rientro a casa, prevedevamo un’aspra e dura reprimenda da parte dei nostri genitori.

Le situazioni ansiogene

Le situazioni che provocano ansia possono essere una o più di una e possono variare nel tempo in base agli stimoli interni o esterni. Molto condizionati da quello che leggiamo nei quotidiani o vediamo in tv, il pericolo può assumere, di volta in volta, la veste di un pedofilo, di uno stupratore o violentatore pronto a ghermire noi o un nostro figlio all’angolo della strada. In altri periodi e per altri soggetti sono le malattie che possono metterci in allarme. Ad esempio, dopo il decesso di una persona amica per una malattia incurabile, diventiamo noi gli esperti nel riconoscere i primi sintomi di un tumore incombente, per cui ci sottoponiamo e costringiamo a sottoporsi le persone a noi care, a tutti gli esami possibili pur di scovare e distruggere in tempo questa insidiosa malattia.

 

Ma non sono solo gli esseri viventi, grandi o piccoli che siano, a stimolare la nostra ansia. Anche la natura ci può mettere in allarme. Dopo una catastrofe causata da un’alluvione o da un terremoto, guardiamo con trepidazione e sospetto il placido fiume della nostra città. Fiume che, fino a quel momento, aveva accompagnato i momenti più lieti e sereni della nostra vita e della nostra infanzia. Allo stesso modo, dopo un devastante terremoto avvenuto molto lontano da noi, con la visione di muri accartocciati e sventrati dalle onde del sisma, osserviamo con palpitazione e sospetto le travi della casa dove abitiamo. Travi che prima ci erano sembrate forti e robuste, mentre ora ci appaiono ridicolmente fragili e inefficaci a sopportare la minima scossa tellurica.

Oggi che i mass- media pur di vendere, pur di attirare e coinvolgere il pubblico riprendono, a volte per mesi e anni le notizie più truci e sconvolgenti, sottolineando i particolari più macabri, gli aspetti più morbosi purché capaci di provocare nei lettori e negli ascoltatori paura, rabbia, collera, disgusto, i motivi di ansia sembrano aumentare ogni giorno di più.

Ansia fisiologica e ansia patologica

L’ansia fisiologica è quella che si attiva quando l’essere umano, per evitare di correre dei rischi di fronte ad un pericolo reale o semplicemente immaginato, mette in moto i meccanismi di salvaguardia che lo proteggono da possibili conseguenze negative[5]. Per ottenere ciò, tutto l’organismo si attiva al fine di valutare rapidamente, mediante le sue conoscenze e le sue esperienze, l’ambiente che lo circonda, per poi affrontarlo nel modo migliore possibile con forza e determinazione.

Situazione diversa è quella di chi vive questa emozione con troppa frequenza o con un sentire dolorosamente accentuato (ansia patologica). In questi casi vi è una notevole discrepanza tra le situazioni da affrontare e la tensione che si mette in moto, per cui, anche problematiche molto blande, banali o poco difficili o pericolose, sono affrontate con enorme tensione. In molte occasioni, addirittura, senza che vi sia alcuno stimolo ansiogeno esterno, il cuore, la mente, il corpo, delle persone che soffrono di ansia patologica, sono come investiti e sconvolti per ore e a volte per giorni e notti intere, da questo stato d’allarme. Stato d’allarme che spossa, rende notevolmente indecisi su cosa fare e come farlo, altera e complica anche le attività più banali, mentre diminuisce le capacità di attenzione e concentrazione. Cosicché il rendimento, soprattutto il rendimento intellettivo, scade notevolmente. A questo proposito non bisogna dimenticare che esiste un parallelismo costante tra la vita affettiva e quella intellettiva, e che questo parallelismo prosegue lungo tutto lo sviluppo dell’infanzia e dell’adolescenza, in quanto per Piaget[6] “Ogni condotta presuppone degli strumenti o una tecnica: sono i movimenti e l’intelligenza. Ogni condotta però implica anche moventi e valori finali (il valore degli scopi): sono i sentimenti. Affettività ed intelligenza sono indissolubili e costituiscono due aspetti complementari di ogni condotta umana”.

Quando questo stato d’animo pervade la mente del soggetto ansioso ne soffrono anche i rapporti affettivi ed amicali in quanto l’ansia si diffonde alle persone con le quali ci si relaziona. Per tale motivo i rapporti interpersonali diventano difficili, dolorosi e conflittuali. È penoso stare in compagnia di una persona che emana spesso ansia (persona ansiogena), in quanto l’ansia si trasmette alle persone più vicine.

Il soggetto ansioso in modo patologico, valuta in modo errato gli eventi di cui è protagonista. Egli è pertanto coinvolto più dalle risonanze interne che dalle reali dimensioni dello stimolo[7]. Per tale motivo avverte la maggior parte delle situazioni come troppo grandi e rilevanti per le sue possibilità, pertanto tende ad evitare sempre di più le sollecitazioni per il timore, spesso ingiustificato, di non saperle affrontare. Oppure, al contrario, le affronta in maniera affrettata, convulsa, senza riflettere sufficientemente, per cui gli errori nella valutazione e nelle scelte sono numerosi e frequenti.

Per cercare di liberarsi dell’ansia, vi sono fondamentalmente due strategie: la prima è l’immobilità, per cui si cerca di allontanare questa sgradevole emozione cercando di distendere al massimo il proprio corpo, con la speranza che anche l’animo si distenda; la seconda è esattamente opposta alla prima: attivarsi notevolmente nel lavoro, negli impegni quotidiani o in attività motorie intense, come camminare, passeggiare, fare sport. Il tutto nella speranza di scacciarla mediante gli impegni, l’attività ed il movimento.

 

Le conseguenze dell'ansia

In sintesi, le conseguenze dell'ansia sono notevolmente disturbanti in quanto:

  • la persona vive molti momenti della sua vita con apprensione ed angoscia e sempre in allerta, in quanto pensa che i pericoli possono essere in ogni cosa e in ogni persona;
  • il soggetto ha difficoltà a vedere la realtà con occhi sereni ed obiettivi e gli avvenimenti nella giusta proporzione;
  • il suo stato di continua tensione gli rende difficile comunicare o ancor più mettersi in ascolto con gli altri, in quanto il soggetto è troppo impegnato a governare qualcosa difficilmente gestibile;
  • poiché il soggetto in preda all’ansia crea attorno a sé e negli altri un clima di allarme ingiustificato, rischia di accentuare il malessere di chi gli sta intorno. Pertanto la comunicazione sociale a seconda della gravità del vissuto ansioso, è più o meno compromessa;
  • le azioni della persona ansiosa sono dettate più dall’impulso del momento che non da un’analisi obiettiva e razionale della realtà, per cui gli errori che compie sono frequenti e le decisioni che attua spesso non sono coerenti ed efficaci;
  • questo vivere per lungo tempo in situazione di emergenza, pone la persona ansiosa in una condizione di facile irritabilità, stanchezza ma anche, a volte, maggiore reattività e aggressività;
  • poiché nei momenti in cui l’ansia è maggiore e più coinvolgente, il soggetto ansioso ha difficoltà a dare risposte efficaci, il suo rendimento è incostante e non armonico: maggiore in alcuni momenti e per alcune discipline, minore o molto minore in altri momenti e in altre discipline.
Le manifestazioni dell’ansia

L’ansia si può manifestare sotto forma di ansia generalizzata, di attacchi di panico, di somatizzazioni ansiose.

Ansia generalizzata

L’ansia generalizzata dura nel tempo e non è concentrata su un particolare oggetto o situazione. Pertanto è aspecifica e fluttuante. Le persone che hanno questo disturbo avvertono una tensione interiore che non si collega ad una particolare paura. Questo tipo di ansia interessa soprattutto il genere femminile, tanto che colpisce due donne per ogni uomo e può portare ad una menomazione considerevole. Questa tensione si evidenzia con una continua sequela di malesseri fisici, psicologici e psicosomatici, che impediscono al soggetto di vivere bene sia il suo lavoro che i rapporti con gli altri. A causa della persistente tensione interiore queste persone possono soffrire di emicrania, palpitazioni, vertigini e insonnia. Nello stesso tempo è per loro molto difficile affrontare le normali attività quotidiane, soprattutto quelle che richiedono un maggior discernimento, controllo e attenzione.

Questa tipologia d’ansia può essere associata ad elementi depressivi con ricorrenti pensieri e sentimenti tristi e penosi. Spesso è avvertita maggiormente al mattino rispetto alla sera. Forse perché la sera l’organismo, dopo ore di tensione continua, ha bisogno di riposo e quindi si impegna maggiormente a far cessare quest’inutile stato di allarme o forse perché la sera gli impegni ed il lavoro cessano, per cui diminuiscono anche gli stimoli ansiogeni.

In alcuni soggetti però l’ansia continua anche durante il sonno, pertanto, quello che dovrebbe essere il periodo di maggior riposo viene alterato sia in qualità che in quantità. Quando l’ansia si presenta in modo continuo e cronico, alla lunga produce, oltre a vari disturbi psicosomatici, anche una reale diminuzione della resistenza alle malattie infettive, per una caduta delle difese immunitarie.

Gli attacchi di panico

L’ansia si può presentare in maniera brutale e acuta con gli attacchi di panico. Sebbene questi, qualche volta, sembrino nascere dal nulla, generalmente sono avvertiti dopo esperienze traumatiche o in seguito ad uno stress prolungato. Gli attacchi di panico hanno un inizio brusco per cui sono molto intensi già nei primi dieci minuti o anche meno. Spesso i soggetti che ne soffrono sono costretti a ricoverarsi al pronto soccorso in quanto avvertono, improvvisamente e in alcune particolari circostanze, come una bufera che si abbatte sulla loro mente e sul loro corpo: “Stavo bene, poi all’improvviso non riuscivo a mantenere il controllo della situazione, mi sentivo svenire, era come se stessi impazzendo, tutti i miei organi correvano all’impazzata”[8]. Essi avvertono intensa apprensione unita a tremore, scosse, vertigini e difficoltà respiratorie.

Anche se tutti gli esami risultano nella norma, le persone che soffrono di attacchi di panico continuano a preoccuparsi a causa delle manifestazioni fisiche dell'ansia che rafforzano il timore che nel loro corpo vi sia qualche grave malanno. A volte vi è la “paura di avere paura”. Si innesta un intenso timore di avere una crisi d’ansia. Ad esempio, i normali cambiamenti nella frequenza cardiaca, che si avvertono quando si sale una rampa di scale, possono far pensare a queste persone che nel cuore vi sia qualcosa che non va o che stanno per avere un attacco di panico. Pertanto, si bloccano ed evitano di andare avanti.

Questo tipo d’ansia lascia nell’individuo che ne è colpito un residuo di malessere, tanta paura per l’emozione subita e uno stato di grande prostrazione. Dopo aver fatto questo tipo d’esperienza, da quel momento l’individuo cerca in tutti i modi di evitare quei luoghi dove questa crisi è avvenuta.

Questo tipo di crisi d’angoscia è scatenato dalla concomitanza di quattro concause:

  1. percezione di pericolo incombente;
  2. informazioni inaffidabili o contraddittorie sulla natura e sulla entità del rischio;
  3. presentimento di non essere in grado di adottare adeguate contromisure di protezione e di difesa;
  4. sensazione che sia rimasto poco tempo per mettersi in salvo.
L’ansia somatizzata

Quando l’ansia si manifesta soprattutto con sintomi legati al corpo, per il DSM IV siamo in presenza di un Disturbo di somatizzazione.

I soggetti affetti da somatizzazioni ansiose manifestano e descrivono i loro numerosi malanni in termini eclatanti ed esagerati: “Ho un mal di testa da impazzire”. “Mi fa tanto male la schiena che non mi posso muovere dalla sedia”. “Mi gira tanto la testa che non riesco a stare in equilibrio”. “Mi sembra di vedere doppio”. “Ho come un bruciore sulla parte sinistra del capo”. Questi soggetti, nonostante gli esami obiettivi e di laboratorio ai quali si sottopongono non giustifichino la gravità dei disturbi lamentati, spesso, per la loro insistenza sui sintomi ottengono, dai medici consultati, terapie mediche ed anche interventi chirurgici che risultano, a posteriori, assolutamente inutili.

 

 

L'ansia nei bambini

L’ansia dei bambini, almeno apparentemente, è molto diversa di quella degli adulti.

Intanto il bambino difficilmente riesce a comunicare in modo diretto la sua ansia. Dirà che sta male, che non vuole uscire o andare a scuola.

Si lamenterà del male al pancino, vomiterà, piangerà, farà capricci, ma non vi dirà mai che avverte ansia. Quest’emozione interiore la dovremo capire dai suoi occhi e dal suo sguardo teso. Quest’emozione dolorosa la dovremo percepire dai suoi comportamenti: dagli abbracci alla madre o al padre dai quali non riesce a staccarsi quando deve andare a scuola o in un altro luogo, senza i suoi genitori. La dovremo interpretare osservando il modo convulso con il quale disegna. La dovremo percepire dai suoi racconti e dalle sue fantasie, nelle quali spesso prevalgono temi tristi e angosciosi. De Ajuriaguerra e Marcelli[1] così descrivono l’ansia del lattante:

 “…è sufficiente ricordare il viso perso, i grandi occhi sbarrati, le grida stridenti ed incessanti di angoscia, l’ipertonia generalizzata con la frequente agitazione degli arti inferiori del lattante di undici-dodici mesi, allorché viene ricoverato per un banale motivo intercorrente, …”.

 Per quanto riguarda i suoi comportamenti,  il minore ansioso si dimostra spesso irritabile, scontroso, ha difficoltà ad addormentarsi, ma ha anche difficoltà ad effettuare i compiti giornalieri; appare distratto, la concentrazione è altalenante, si mordicchia le unghie (onicofagia), il suo corpo, a volte, può essere scosso dai tic, ha difficoltà a respirare profondamente, per cui lamenta come un nodo alla gola, ha bisogno di rassicurazioni continue. Solo da queste e da altre manifestazioni del corpo o del comportamento riusciremo a capire quando e quanto è coinvolto da quest’emozione.

Le cause dell’ansia

Secondo la concezione costituzionalistica, l’ansia sarebbe il frutto di una predisposizione su base genetica che porterebbe a delle modalità di funzionamento neuropsichico in cui prevale l’iperemotività, l’ipereccitabilità neuro-muscolare, la labilità dell’equilibrio neuro-vegetativo, l’astenia, i tremori, e così via. [2]

Secondo la teoria comportamentale, così come le nevrosi sperimentali pavloviane mediante frustrazioni ripetute comportano negli animali stati di irrequietezza, ipereccitabilità, anoressia, insonnia, allo stesso modo anche nell’uomo gli stress, le frustrazioni e i traumi ripetuti porterebbero ai disturbi ansiosi. “Successive elaborazioni della teoria comportamentale hanno proposto che i sintomi ansiosi siano da interpretare come modelli di condotta appresi disadattivi”.[3] Secondo la teoria psicoanalitica, l’ansia fa parte delle nevrosi ed è quindi la conseguenza di un conflitto tra le esigenze dell’Es e quelle del Super-Io.

A nostro parere molti dei sintomi che notiamo nei bambini hanno come componente principale l’ansia, che è come il substrato di buona parte della patologia psicoaffettiva. L’ansia è commista alle paure e alle fobie; rappresenta l’altra parte della medaglia nei casi di depressione infantile; è nascosta dall’apparente indifferenza; è presente in modo massiccio nell’autismo; stimola in maniera abnorme la motilità nei bambini iperattivi; disturba notevolmente la funzionalità degli organi interni traducendosi, nei bambini che tendono a somatizzarla, in sintomi somatici come: dolori di stomaco, cefalee, nausee, vomito, palpitazioni, vertigini.

Ansia di separazione

Quando un bambino è costretto ad allontanarsi dai suoi genitori, dai familiari, dai suoi oggetti più cari, dalla sua casa, senza che abbia la maturità psicologica per fare ciò, la sua sofferenza si manifesta con un tipo di ansia che chiamiamo di separazione. Dietro l’ansia di separazione vi è sempre un bambino che soffre a causa della sua insicurezza o per le sue paure. Per questo bambino molto insicuro il padre, un altro familiare, ma ancor di più la madre, sono importanti fonti di sicurezza. Così come sono fonte di sicurezza, ma a un livello molto minore, la sua casa, la sua stanzetta, i suoi giocattoli. Queste persone e questi oggetti rappresentano per il bambino una possibile ancora di salvezza; sono strumenti capaci, almeno in parte, di tranquillizzare, rassicurare, scacciare le paure, allontanare gli incubi, dare sollievo all’inquietudine che l’attanaglia. Per tale motivo il suo malessere si accentua quando egli è costretto ad allontanarsi dagli oggetti, dai luoghi, ma soprattutto dalle persone che gli danno questa sensazione di tranquillità e sicurezza.

 

 

Quando è il momento di dormire, momento estremamente difficile per questi bambini, se l’ansia e le paure non sono eccessive, si accontenterà di restare nella stanza dov’è presente almeno uno dei genitori, ma se l’ansia è maggiore, chiederà che la madre gli stia vicina tenendogli la manina, fin quando non riuscirà ad addormentarsi. Se l’ansia è ancora più grave, chiederà che la madre dorma insieme a lui per tutta la notte nel suo lettino. Quando le sue paure e la sua tensione sono ancora più intense, non gli basterà stare nella stanza dei genitori, né sarà sufficiente dormire nel loro letto: egli chiederà di stare abbracciato alla madre o almeno toccare una parte del suo vestito o del suo corpo, soprattutto dei suoi capelli.

L’ansia di separazione si manifesta anche quando il bambino è costretto ad andare lontano dai suoi genitori, per dei motivi che per altri bambini potrebbero essere molto piacevoli: una gita, un viaggio premio, un pernottamento con gli scout, una festa con i suoi compagnetti. In questi casi, anche se è in compagnia di amici o persone che ben conosce, è assalito dalle paure e da intensi sentimenti di nostalgia, per cui, quando i genitori sono lontani, farà di tutto per restare in contatto con loro mediante il telefono. A volte teme che possa loro succedere qualcosa di male: che possano ammalarsi, morire o scomparire e, quindi, lasciarlo solo e abbandonato. In altri casi può aver paura che eventi catastrofici possano colpire la sua famiglia o lui stesso: che possa smarrirsi e non ritrovare più i genitori, che possa stare male e non avere alcun aiuto da mamma e papà, e così via.

Disturbo d’ansia generalizzato

Nel disturbo d’ansia generalizzato l’oggetto dell’ansia non è legato ad un elemento specifico, come avviene nelle paure e nella fobie, né ad una determinata situazione, come avviene nell’ansia di separazione. Questi bambini hanno paura di tutto, per cui mostrano ansia e preoccupazione per svariati motivi: quando sono lasciati da soli, quando devono fare nuove esperienze, quando sono chiamati a svolgere un compito e così via. Si preoccupano della qualità delle prestazioni, ad esempio dei voti nelle interrogazioni scolastiche, così come si preoccupano di eventuali eventi catastrofici: terremoti, guerre, temporali. Queste preoccupazioni procurano loro irrequietezza motoria, facile faticabilità, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, tensione muscolare, disturbi del sonno, tensione mimica e manifestazioni neurovegetative. Questi bambini che soffrono d’ansia generalizzata, per Militerni,[4] tendono ad essere, inoltre, eccessivamente conformisti e perfezionisti, con sentimenti di insoddisfazione per le prestazioni effettuate.

Ansia somatizzata

Nei bambini il corpo rappresenta la via più comune per l’espressione dell’ansia. Questa si può manifestare con una serie di sintomi i quali, inizialmente, possono far pensare ad un problema di natura organica: tensione o dolore allo stomaco e all’intestino, vomito, diarrea, ma anche emicrania, dolori articolari che si manifestano in orari e in momenti ben precisi, vertigini, manifestazioni allergiche e così via. Sintomi apparentemente organici, ma che si rendono evidenti in alcune particolari situazioni emotive: quando mamma e papà si allontanano dal bambino, quando bisogna andare a scuola o in un altro posto, poco o nulla amato da lui. Sintomi che svaniscono completamente quando il minore ha la possibilità di restare con i suoi genitori o di rimanere lontano da certi luoghi e da particolari situazioni stressanti.

L'ansia nei bambini autistici

 

Quest’emozione, a nostro parere, è presente in modo massiccio nei bambini con Disturbo Autistico. Tuttavia, in questa patologia, stranamente, la si riconosce più facilmente nei casi lievi o quando il bambino sta velocemente progredendo verso la normalità, che non nei casi più gravi, nei quali è mascherata dagli altri sintomi più eclatanti e vistosi come le stereotipie, gli importanti disturbi relazionali, del linguaggio e della comunicazione o dall’apparente apatia e indifferenza. L’ansia del bambino con autismo ad alto funzionamento è evidente da molti segnali: intanto dalla labilità nell’attenzione, dalla iperattività, dall’ipercinesia e dalla rapidità e impetuosità dei suoi giochi e dal modo “nervoso” con il quale affronta tutte le situazioni e tutti i compiti compresi quelli scolastici. Gli insegnanti e i genitori notano che il bambino ha notevoli difficoltà a vivere molti momenti della sua vita in modo rilassato e tranquillo. Riferiscono: ‹‹Passa continuamente da un oggetto all’altro, è precipitoso in tutto quello che fa, è  un vulcano sempre attivo, non sta mai fermo››.[1]  Notano, inoltre, che il bambino, quando è più teso o nervoso, quando deve affrontare qualche impegno più importante o quando ricerca nell’attività in cui è impegnato una maggiore concentrazione, si mordicchia le dita.

 

Gli adulti osservano che nel rapporto con i compagni, nonostante il bambino con Disturbo Autistico ad alto funzionamento, a volte, voglia e cerchi di entrare in relazione con loro e ci tenga alla loro amicizia, ha notevoli difficoltà a rispettare i turni e le regole e fa fatica ad accettare i desideri dell’altro, per cui, vinto dall’inquietudine interiore, tende ad imporre il proprio gioco ed i propri desideri, provocando il rifiuto e l’emarginazione da parte dei coetanei.

 

Nelle gravi forme di autismo quest’emozione la possiamo riconoscere dalle apparentemente imprevedibili, frequenti, rapide, improvvise oscillazioni dell’umore, dalle crisi d’angoscia acuta, a volte provocata da minime frustrazioni e dai racconti che, a volte, questi bambini riescono ad esprimere. Racconti nei quali prevalgono temi notevolmente paurosi e angoscianti. Racconti nei quali l’ansia riesce a scoordinare l’organizzazione strutturale delle idee, per cui viene alterata la sequenzialità con la quale gli avvenimenti sono riportati, così come viene alterata la logicità dei contenuti, che diventano slegati e ricchi di numerose interruzioni. Ed è sempre l’ansia che incide sui contenuti stessi dei racconti per cui questi bambini, negli avvenimenti che riportano, inseriscono temi coprolalici, aggressivi, violenti e ricchi di angoscia. Inoltre, proprio perché sono alla ricerca continua di modalità di difesa dall’ansia che li pervade, alcuni di questi bambini non sopportano i cambiamenti e/o gli spostamenti di oggetti intorno a loro, in quanto, come nei soggetti con disturbi ossessivi, ogni cambiamento comporta in loro maggiore instabilità che accentua l’ansia che pervade la loro mente. E ancora come spiegare il loro riso nervoso o non adeguato alle circostanze se non come dei tentativi per cercare di diminuire questa emozione che pervade la loro mente?

 

Dice la GRANDIN T.: ‹‹Quando ero più giovane, l’ansia alimentava le mie fissazioni e agiva da fattore di motivazione››.[2]  E ancora: ‹‹Ora mi rendo conto che a causa dell’autismo, il mio sistema nervoso era in uno stato di ipervigilanza, e ogni piccolo inconveniente poteva suscitare una reazione intensa››. [3]  ‹‹Gli attacchi d’ansia più leggeri mi sollecitavano a scrivere pagine e pagine nel mio diario, mentre quelli più gravi mi paralizzavano e mi facevano desiderare di rimanere a casa, per paura che mi venisse un attacco in pubblico››. [4]  Scrive ancora la GRANDIN T. : ‹‹Il mondo della persona autistica non verbale è caotico e le crea confusione››.[5] ‹‹Si immagini uno stato di iperattivazione nel quale si è inseguiti da un pericoloso aggressore in un mondo di caos totale››.[6]

 

L’intensità e la gravità con la quale questi bambini sono coinvolti da quest’emozione è facilmente evidenziabile, anche se in modo indiretto, dai notevoli e numerosi sistemi di difesa che essi sono costretti a mettere in atto, per cercare di contenerla, diminuirla o mascherarla. Pertanto le attività ripetitive, le stereotipie motorie e del linguaggio, le strane abitudini, i rituali, l’apparente indifferenza, il distacco, la chiusura, lo sguardo indiretto, non sono altro che modalità di difesa atte a contenere, limitare o mascherare, per quanto possibile, il notevole stato d’angoscia presente, quasi costantemente, nell’animo di questi  minori. Anche l’autolesionismo, così come avviene in pazienti borderline, può essere utilizzato per ridurre la tensione interiore, in quanto il dolore che viene ad essere provocato serve a distrarli per qualche momento dai vissuti angoscianti.[7]

 

Altri segnali della presenza costante e pervasiva dell’ansia troviamo nei disturbi del sonno e nello scarso controllo degli sfinteri. Il bambino con autismo può presentare disturbi del sonno come l’ insonnia calma, oppure l’insonnia agitata. ‹‹Nell’insonnia calma, il piccolo bambino tiene gli occhi spalancati nel buio senza dormire, ma senza manifestare né reclamare la presenza materna[...] Nell’insonnia agitata il bambino grida, mugugna, urla, senza potersi calmare per delle ore, ogni notte››.[8]  Spesso, nei bambini con autismo sono presenti disturbi nel controllo degli sfinteri per cui può essere presente enuresi, ma anche encopresi. Ciò conferma la presenza di un notevole stato di apprensione che rallenta, altera o rende difficile il controllo sfinterico.

I possibili interventi

Le manifestazioni ansiose del bambino rischiano di aggravare l’ansia dei genitori e dei familiari. A sua volta questa tenderà ad accentuare l’ansia del bambino.

Per tale motivo il primo compito dei genitori e degli operatori è quello di cercare di capire, mediante un attento esame della vita del minore, cosa può aver provocato l’ansia, in modo tale da eliminare le possibili situazioni ansiogene ancora attive. Successivamente, compito dei genitori e degli operatori sarà scoprire quali sono gli atteggiamenti più idonei, capaci di diminuire l’ansia del piccolo.

Molte volte, aiutati dal terapeuta è necessario che i genitori prendano delle decisioni coraggiose e forti: come allontanare momentaneamente il bambino dalla scuola, ridurre drasticamente il tempo dedicato allo studio, alla visione della tv, ai videogiochi, sforzarsi di modificare i propri comportamenti ansiosi, il proprio stile educativo non corretto o, quando è necessario, aumentare la propria presenza dialogante e giocosa. Si può, inoltre, intervenire dando più sicurezza e fiducia al bambino per quello che fa o dice. Molto utile si è dimostrato nella nostra esperienza stimolare il bambino a creare dei racconti come commento ai suoi disegni. In questi casi non bisogna assolutamente commentare se non positivamente i suddetti racconti. Utili si sono sempre dimostrati, presso tutti i popoli e in tutti i tempi, i racconti e le favole dei genitori, nelle quali i protagonisti della storia vivono delle difficoltà che però riescono a superare, così che vi sia sempre un lieto fine. Sarebbe inoltre importante far effettuare al bambino degli esercizi di rilassamento mediante il Training Autogeno.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 277.

[2] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 372.

[3] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 372.

 

[4] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 376.


[1] R MILITERNI, Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, 2004, p. 256.

[2] T. GRANDIN, Pensare in immagini, Trento, Erickson,2006, p. 123.

[3] T. GRANDIN, Pensare in immagini, Trento, Erickson, 2006, p. 123.

[4] T. GRANDIN, Pensare in immagini, Trento, Erickson, 2006, p. 122.

[5] T. GRANDIN, Pensare in immagini, Trento, Erickson, 2006, p. 65.

[6] T. GRANDIN, Pensare in immagini, Trento, Erickson, 2006, p. 66.

[7] C. SCHMAHL, Farsi male per farsi bene, in “Mente e cervello”, n 98, 2013.

[8] DE AJURIAGUERRA J., MARCELLI, D., Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia Editori,1986, p. 251.

 

 

 

 

 

La rabbia e la collera nei bambini

 

 

 
 
 

Non è difficile farsi un’idea della collera e della rabbia in quanto tutti noi adulti, molte volte, abbiamo sperimentato direttamente queste emozioni o le abbiamo notate negli occhi, nel corpo e nei comportamenti altrui. Collera e rabbia sono reazioni primordiali emotive, intense, primarie, universali, presenti in tutti gli animali superiori. Da una frustrazione profonda e durevole che ci riguarda e che giudichiamo inaccettabile, nasce una reazione d’intensa insoddisfazione, che provoca questo tipo di reazioni, le quali si manifestano con modalità improvvise e travolgenti.

Quando dentro di noi cresce la collera avvertiamo un disagio e una tensione via via crescente, fino a quando non abbiamo la possibilità di scaricarla sulla persona che l’ha provocata o su altre persone, animali o cose, assolutamente innocenti che sono costretti, loro malgrado, a subire i nostri maltrattamenti e le nostre ingiurie. Solo allora, solo quanto rispondiamo attaccando la persona che avvertiamo fonte di minaccia o quando possiamo scaricare l’aggressività su altri, la tensione diminuisce e ritroviamo uno stato di momentaneo e parziale benessere.

Per quanto riguarda la distinzione tra rabbia e collera la prima è un’emozione, mentre la collera è il comportamento conseguente a questa emozione. In definitiva si prova rabbia, ma si agisce in modo collerico.

 La collera e la rabbia sono pertanto meccanismi di protezione che ci segnalano che c'è qualcosa che non va nel rapporto con gli altri. Ci mettono a conoscenza del fatto che qualcuno ci sta facendo del male, che i nostri diritti sono stati violati, che i nostri bisogni e i nostri desideri non sono stati soddisfatti. Queste reazioni ci stimolano a farci valere e ci danno le motivazioni per fare ciò, in modo tale da riaffermare noi stessi e i nostri giusti e sacrosanti diritti e bisogni.

Poiché queste emozioni fisiologiche fanno scattare l’istinto di sopravvivenza, che mobilita tutte le energie fisiche necessarie a difendersi, minacciare e colpire chi si ritiene nemico o avversario, il corpo viene posto in una posizione di difesa e di offesa, così che sia pronto e teso a scattare e a scatenare una lotta per eliminare o rendere innocuo chi si percepisce come fonte di irritazione, dolore, o peggio di pericolo. Durante tutto il tempo della reazione emotiva sono stimolate le ghiandole che portano alla produzione degli ormoni adrenalinici e noradrenalinici. Questi ormoni, a loro volta, provocano un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca. In tal modo il cuore e i polmoni mettono a disposizione di tutto l’organismo il propellente energetico necessario per far fronte alla straordinaria ed improvvisa richiesta.

 

Le manifestazioni esterne sono eclatanti: il viso, a volte rosso, altre volte chiaramente paonazzo, è sconvolto dalla tipica espressione di rabbia. Gli occhi iniettati di sangue comunicano a chi ci sta di fronte come nemico, biasimo e repressione, e gli fanno capire che siamo pronti ad attaccare. La bocca, i denti e le mani, stretti per l’irrigidimento della normale tensione muscolare, sono pronti ad aggredire al fine di spaventare, mordere o colpire la persona o le persone che si ritengono minacciosi avversari. Ma se questo non fosse possibile, gli stessi ormoni preparano i muscoli degli arti inferiori ad una fuga precipitosa. Purtroppo però, in questa condizione particolare, la mente, accecata dall’odio e dal bisogno di far del male, mira soltanto a scegliere la migliore strategia di offesa o di difesa, trascurando le conseguenze degli atti aggressivi che si stanno per compiere. Cosicché l’efficacia della ragione diminuisce notevolmente. Per tale motivo le capacità comunicative prettamente umane e razionali sono ridotte al lumicino, per cui spesso si sopravvalutano le caratteristiche negative dell’altro, mentre, nel contempo, si sottovalutano quelle positive. Inoltre, nell’impeto della rabbia la mente si focalizza sulle cause scatenanti e cancella tutto il resto. Veniamo "accecati dall’ira” in una spirale distruttiva ma, a volte, anche autodistruttiva. Ciechi, diventiamo incapaci di spiegare le nostre ragioni con chiarezza. Le nostre parole, in preda all’ira, sono fatte di urla, muggiti e grugniti, come di animale inferocito, mentre prevalgono pensieri distruttivi e di vendetta.

 

Il bimbo molto piccolo manifesta la sua collera con grida e calci, con tentativi di colpire e mordere, con ostinato rifiuto di mangiare o con l’espulsione incontrollata delle feci. Quello più grande può già meglio esprimere i suoi sentimenti con parole e gesti più moderati. Bisogna tener presente che, per fortuna, la rabbia e la collera dei bambini, nonostante siano più intense di quelle degli adulti, sono anche più fugaci.

 

Nella collera del bambino vi è, come in quella degli adulti, una cieca irrazionalità, tale da far addirittura desiderare l’eliminazione e la distruzione dell’ostacolo frapposto all’esaurimento del desiderio infantile, anche se si tratta di una persona che in quel momento dovrebbe essere per lui fondamentale e molto amata.

Il caso che presentiamo ne è un esempio:

Fabio, di nove anni, era nato da una donna la quale aveva vissuto delle situazioni sentimentali sempre molto complicate e difficili. La madre si era sposata una prima volta con un uomo dal quale aveva avuto una figlia. Separatasi dal marito aveva convissuto per due anni con il padre di Lorenzo, dal quale si era allontanata quando il bambino aveva solo due anni. Subito dopo aveva iniziato una relazione con un uomo sposato. Relazione che era durata diversi anni. Quando la donna decise di lasciare l’amante, questi iniziò a perseguitarla, minacciandola in vario modo. Tale comportamento dell’uomo spinse la donna a decidere di trasferirsi con il figlio in un’altra regione d’Italia, allontanando così da lei il pericolo rappresentato dall’ex amante. Con tale decisione però, il figlio sentiva di essere costretto a restare lontano dal padre, dai nonni, dai compagni e dalla casa e città natale, nella quale fino a quel momento era vissuto.

 

Il bambino, molto risentito per questa situazione, nella ricerca di un minimo di benessere interiore, avvertiva nel suo intimo il bisogno di difendersi e punire chi gli aveva fatto e gli stava facendo del male. Come possiamo notare da questo suo racconto, questo bisogno di difesa e di sanzioni nella sua fantasia avevano assunto degli aspetti drammatici.

                     

Il cavaliere, il drago e la strega

“C’era una volta un cavaliere che andò con il suo cavallo tanto lontano. Un giorno giunse a un punto e lì ha visto un drago. Pian piano avvicinandosi alla bestia il drago si svegliò e se ne andò via. Però il cavaliere con il suo cavallo lo inseguì e lo uccise. Lo uccise perché il suo comandante, il suo re, gli disse di uccidere il drago perché era una minaccia per il Paese.

Quando uccise il drago lo portò al Paese e lo mise davanti al re. Però il cavaliere non sapeva che il re era una strega che lanciò una maledizione sul cavaliere e lo fece diventare una rana. Il ranocchio andò a casa di una principessa. Questa ragazza era la figlia di un re di un altro Paese. Quando arrivò a casa della principessa, questa gli disse: “Ma tu chi sei?” Il ranocchio gli rispose: “Sono il cavaliere ma la strega mi ha fatto una maledizione. La principessa capì il problema e allora lo baciò, ed il cavaliere tornò normale.

Il cavaliere e la principessa corsero insieme con le guardie dalla strega e la imprigionarono nelle segrete. Da quel giorno in poi la strega era nelle segrete, così il cavaliere e la figlia del re vissero felici e contenti”.

 

Se interpretiamo il racconto di Fabio alla luce della sua storia familiare e personale, capiamo che egli sente prepotentemente il bisogno di eliminare in maniera definitiva l’essere cattivo che attenta alla sicurezza sua e della sua famiglia (C’era una volta un cavaliere che andò con il suo cavallo tanto lontano. Un giorno giunse a un punto e lì ha visto un drago. Pian piano avvicinandosi alla bestia il drago si svegliò e se ne andò via. Però il cavaliere con il suo cavallo lo inseguì e lo uccise).

Egli ubbidisce ai dettati del suo comandante e re, che in questo caso è la madre perseguitata da un uomo “cattivo”(Lo uccise perché il suo comandante, il suo re, gli disse di uccidere il drago perché era una minaccia per il Paese). Tuttavia sa bene che i suoi problemi non sono solo all’esterno della sua famiglia, ma vivono accanto a lui: il problema maggiore è proprio la madre che con i suoi comportamenti incongrui lo ha messo e lo mette sistematicamente in ansia e in grave difficoltà. (Quando uccise il drago lo portò al Paese e lo mise davanti al re. Però il cavaliere non sapeva che il re era una strega che lanciò una maledizione sul cavaliere e lo fece diventare una rana). A questo punto la soluzione non può che venire dall’esterno della sua famiglia. La soluzione può venire solo da una ragazza, una principessa buona, figlia di un vero re e non di una strega (Il ranocchio andò a casa di una principessa. Questa ragazza era la figlia di un altro re di un altro Paese. Quando arrivò a casa della principessa, questa gli disse: “Ma tu chi sei?” Ma il ranocchio gli rispose: “Sono il cavaliere ma la strega mi ha fatto una maledizione. La principessa capì il problema e allora lo baciò, ed il cavaliere tornò normale). Ed è alleandosi con questa ragazza che gli è possibile fare in modo che la madre, causa di buona parte dei suoi problemi, sia rinchiusa nelle segrete, così che non possa più nuocergli ( Il cavaliere e la principessa corsero insieme con le guardie dalla strega e la imprigionarono nelle segrete. Da quel giorno in poi la strega era nelle segrete, così il cavaliere e la figlia del re vissero felici e contenti).

 

Vi sono vari tipi di collera:
 

Quella che abbiamo descritto è la forma più grave ed eclatante della collera.Vi sono, per fortuna, forme più lievi nelle quali quest’emozione si manifesta soltanto con una lieve irritabilità, con fastidio o impazienza.

Quando la collera si manifesta immediatamente dopo un evento sgradevole o punitivo in modo esplosivo, viene chiamata collera disinibita. Se, invece, si accumula nel tempo e si esprime in un momento successivo con scoppi d’ira, viene chiamata collera implosiva o inibita.


Quest’ultimo tipo di collera è caratteristico di quei bambini i quali, essendo molto attenti al rispetto formale o per paura delle punizioni e delle reazioni degli adulti, riescono a tenere a bada o a mascherare la rabbia, sotto l'azione dell'inibizione educativa, per non compromettere la loro immagine agli occhi dei genitori o degli altri educatori. Tuttavia i riflessi di questa emozione violenta non scompaiono, ma si accumulano nel tempo, fino a quando i bambini sono capaci di contenerli. Quando la tensione ha raggiunto il massimo essi esplodono in atteggiamenti d'ira agitata e scomposta, perdono il controllo delle parole e delle azioni, ed oltrepassano la giusta misura. In questi casi, per effetto rimbalzo, più la rabbia viene repressa, tanto più facilmente viene manifestata come un'improvvisa esplosione.

Ciò può avvenire in qualunque momento, ma è più facile che avvenga durante l’adolescenza. In questa fase della crescita il ragazzo si scopre forte e deciso, per cui non teme più le punizioni fisiche. A quest’età la collera può manifestarsi in tutta la sua intensità, lasciando i genitori scioccati e perplessi per la presenza di un’emozione così violenta in un figlio che, fino ad allora, era stato giudicato come tranquillo ed educato.

Nella collera autopunitiva la forza distruttiva della collera si ripercuote e si dirige verso se stessi. La sua carica distruttiva diventa autopunitiva e autolesionistica. In questi casi il bambino si colpevolizza, si auto-rimprovera, si auto-accusa, si fa del male e rischia di perdere in modo stabile la stima di sé, in quanto non trova, o preferisce non trovare, un obiettivo su cui orientare il proprio scontento. La rabbia repressa, ritorcendosi contro di sé, lo induce a strapparsi i capelli, a mordersi le unghie, a dare testate nei muri. Nel contempo aumentano i sintomi depressivi e sono alimentati i sentimenti di inferiorità.

Quando la mente non riesce più a gestire questi conflitti ne può soffrire il corpo, per cui si possono manifestare le affezioni psicosomatiche, come la cefalea, le gastroenteriti, il vomito. Nel contempo, diminuiscono le difese immunitarie e, conseguentemente, è facilitata l’insorgenza delle malattie virali e batteriche.

Un altro percorso della collera e della rabbia è quello dellimpotenza. In questi casi il bambino appare apatico, perde il tono corporeo, diventa flaccido, stanco, lamenta mal di testa, inappetenza e stanchezza. In questi casi la rabbia si nasconde dietro i lamenti, le lagne e lo scoraggiamento.
La collera può, inoltre, essere espressa oppure mascherata. Sono forme di collera mascherata gli attacchi psicologici come la maldicenza, la calunnia, l'ironia, le insinuazioni e le critiche denigratorie che si abbattono sull'oggetto ritenuto causa della frustrazione con lo scopo di porre questo in cattiva luce, sminuendone le qualità o cercando di colpevolizzarlo.

In definitiva però, tutti i tipi di collera possono essere di grave nocumento a se stessi e agli altri: la collera disinibita può comportare la rottura dei rapporti amicali e familiari. Le forme di collera autopunitive o impotenti possono essere nocive alla salute stessa del bambino che le prova. Inoltre, quando l’oggetto della collera è una persona che il piccolo dovrebbe amare o che gli ha fatto del bene, egli può provare dei sensi di colpa, per essersi lasciato trascinare da questa intensa, aggressiva emozione.

Il rancore

La rabbia non dura nel tempo. Essa può scomparire rapidamente così come rapidamente appare. Ma se si trasforma in rancore e astio tenace e profondo, può durare anche molti anni. Il rancore è quindi un sentimento di avversione profonda e di risentimento verso una persona, un ambiente o una situazione, per lo più celato nell’animo e non manifestato apertamente, che dura nel tempo. Si prova rancore soprattutto verso persone ben conosciute, a cui si è legati da vincoli di affetto o di parentela, che sono perciò rilevanti nella nostra vita. Nel rancore è presente la ruminazione, ossia il continuo rimuginare, giorno dopo giorno, sull’episodio che ci ha fatto soffrire e spesso anche sui modi per potersi rivalere. In questi casi la sofferenza per il torto subìto viene continuamente autoalimentata.

Lo spostamento della collera

In molte situazioni il bambino non potendo o sapendo reagire adeguatamente alla collera, finisce con lo sfogare la propria rabbia non sul reale oggetto che l'ha provocata, ad esempio la madre, il padre o uno dei familiari, che non ha il coraggio o non vuole affrontare, ma su un obiettivo meno temibile o più facilmente raggiungibile, che fa da capro espiatorio (spostamento della collera). Il capro espiatorio può essere di volta in volta il proprio fratello o la propria sorella minore, il debole e fragile compagno di classe, il disabile, il bambino “diverso” per lingua o colore della pelle. Anche gli innocenti oggetti ed animali possono subirne le conseguenze. Spesso i genitori si lamentano che il bambino distrugge le matite, i giocattoli, strappa i libri, sconvolge la sua stanzetta, rincorre e tenta di stritolare l’innocente gattino, senza comprendere che questi comportamenti nascono dalla sua difficoltà a manifestare direttamente la sua collera alle persone che lo fanno o lo hanno fatto soffrire.

La dissociazione della collera

Un’altra forma di reazione alla collera è la dissociazione descritta da Freud. In questi casi, una parte della personalità nascosta ma conscia nega che l’evento aggressivo, doloroso, di perdita, sia veramente accaduto, mentre, contemporaneamente, un'altra parte della personalità continuerà a credere che in realtà ciò è veramente avvenuto.

Quel che è certo è che il precipitoso attuarsi di processi difensivi: repressione o dissociazione, con conseguente fissazione, inizia molto più facilmente nell'infanzia che in età adulta. In ciò risiede la spiegazione del perché e del come le esperienze di perdita nella prima infanzia portino a uno sviluppo incompleto della personalità e a una predisposizione a disturbi psichici (Bowlby, 1982, p. 60).

La collera, pertanto,  è un sentimento secondario, ma deriva sempre da un sentimento primario. Gli animali spesso attaccano perché sono sofferenti, aggrediti, disturbati, tormentati. Attaccano per cacciare un intruso dal territorio o per difendere la prole.
Negli esseri umani il sentimento primario può riguardare una o più nostre paure dovute a dei comportamenti incongrui da parte di che ci sta vicino: paura di non essere amati, di essere allontanati, abbandonati, di rimanere soli, di essere rimproverati, puniti, sminuiti o denigrati ingiustamente.

La rabbia peggiora quando si attribuisce all'altro la volontà di ferire, quando si ha la sensazione che la persona che ci fa stare male commetta un sopruso, una mancanza di riguardo. Vi sono bambini che reagiscono con estrema facilità anche in seguito a motivi banali, mentre altri, invece, più sereni, equilibrati e più capaci di razionalità e controllo emotivo, accettano e sopportano stimoli anche molto intensi. Sono soprattutto i permalosi quelli che spesso si sentono feriti ed urtati per motivi, a volte insignificanti, ai quali reagiscono con acredine, ruminando rancore e vendette. Questi bambini trovano nelle parole e nei gesti degli altri sempre qualcosa che li colpisce ingiustamente.

Ogni bambino possiede un tipo particolare di rabbia che contraddistingue il suo tipo di personalità e ogni bambino ha un modo differente di manifestarla. Pertanto la rabbia e la collera hanno notevoli caratteristiche di soggettività, in quanto non conta tanto lo stimolo che le hanno scatenate quanto il cervello che le ha elaborate. La collera, se si manifesta eccezionalmente e per gravi motivi, ha di per sé una funzione positiva, in quanto serve a proteggerci dalle prevaricazioni degli altri. Se invece si manifesta frequentemente o in modo eccessivo è di grave danno alla persona, agli altri e alla società; essa, pertanto, dovrebbe costituire un campanello dall’allarme per i genitori, i quali dovrebbero riuscire a capire le cause più vere e profonde di questa eclatante manifestazione.

 La collera nella varie fasi della vita del bambino

Nei primi mesi di vita la collera e l’aggressività si manifestano quando le sequenze abituali non vengono rispettate o le consuete gratificazioni non compaiono al momento giusto. Nel bambino, dietro la collera c’è spesso la paura e la sensazione di minaccia per la propria sopravvivenza. Per Bowlby[1] la collera, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, è un'immediata, comune e costante reazione alla perdita, ed è parte integrante delle reazioni di dolore. Il piccolo dell’uomo, come altri cuccioli di animali, quando perde il contatto con il gruppo familiare si sente sperduto e angosciato, in quanto questa perdita può essere fatale per la sua sicurezza, il suo benessere, la sua stessa sopravvivenza. Pertanto reagisce cercando rapidamente di ritrovare le persone perdute e, quando le trova, le scoraggia ad attuare nel futuro un comportamento simile, mediante aspri rimproveri (Bowlby, 1982, p. 56).

E ancora lo stesso autore[2]:

 "L'ipotesi da me avanzata, dunque, è che nel bambino piccolo l'esperienza di separazione dalla figura materna sia particolarmente atta a suscitare processi psichici d'importanza cruciale per la psicopatologia, così come lo sono le infiammazioni ed i conseguenti fenomeni cicatriziali del tessuto per la fisiopatologia. Questo non significa che debba risultarne necessariamente una personalità mutilata, ma piuttosto che, come nel caso delle febbri reumatiche, troppo spesso la formazione di conseguenti tessuti cicatriziali può portare in seguito a disfunzioni più o meno gravi”. "Sembra che una persona colpita da una perdita combatta con il destino con tutto il suo essere emotivo, cercando disperatamente di capovolgere il corso del tempo e di recuperare quei giorni felici che le sono stati improvvisamente tolti. Lungi dall'affrontare la realtà, tentando di adattarvisi, una persona colpita da una perdita ingaggia una lotta con il passato”.[3]

Nel bambino di due – tre anni la collera può essere dovuta al fatto di essere frenato, contrastato, frustrato, nelle sue aspettative.

 

Nell’età scolare le crisi di collera sono spesso dovute alle difficoltà che può avere il bambino di ben relazionarsi con i coetanei e con gli insegnanti. Sempre a questa età il bambino riconosce facilmente i dissapori familiari, ma non riuscendo a porvi rimedio si arrabbia, a volte con l’uno, a volte con l’altro genitore, perché lo mettono in ansia ed in difficoltà. Spesso rivolge la sua rabbia anche verso se stesso, perché in qualche modo si ritiene responsabile dei loro contrasti o perché non riesce a porvi rimedio.

Nell’adolescenza le crisi di rabbia e collera sono rivolte verso i genitori dai quali non si sente capito nei suoi bisogni di autonomia e di libertà, ma anche verso i compagni dai quali non si sente rispettato e verso gli amici, quando si sente tradito.

Le cause delle crisi di collera possono quindi essere dovute a qualcosa che è accaduto in quel momento o poco tempo prima, oppure possono trovare la loro origine in un tempo più o meno lontano. In molti casi risultano importanti le frustrazioni precoci che ha subito il bambino. Queste frustrazioni possono essere di vario tipo: un temporaneo abbandono da parte di uno o di entrambi i genitori, un clima familiare particolarmente teso, una madre o un padre con problemi psichici, che non sono in grado di rispondere in maniera adeguata ai suoi bisogni e così via.

La reattività ad uno stimolo non è mai uguale. Il bambino quando è sereno e soddisfatto può reagire bene a degli intensi stimoli negativi. Al contrario, in certi momenti e in particolari condizioni, può reagire male anche ad uno stimolo minimo. Ad esempio, è più facile che reagisca male quando è stanco e stressato per aver subito una giornata nella quale non sono stati rispettati i suoi bisogni fisiologici primari: sonno, cibo, gioco, movimento libero, attenzioni, coccole e serenità ambientale.

 

Altre volte le crisi di collera possono nascere in un bambino reso particolarmente irritabile a causa di uno stillicidio, nel tempo, di comportamenti poco opportuni, anche se questi comportamenti, esaminati singolarmente, non appaiono particolarmente intensi e gravi: troppi favoritismi a suo sfavore, troppe critiche e confronti negativi, troppi rimproveri e punizioni, troppi lievi scontri all’interno della famiglia, richieste eccessive per quantità o qualità, manifestazioni d’ansia eccessive da parte dei genitori o dei familiari ecc.

Non sono da sottovalutare le crisi dovute ad uno stato di fragilità e debolezza fisica che si trasforma in uno stato di debolezza e fragilità psichica, come quando il bambino si trova o è appena uscito da uno stato di malattia organica, per cui ha dovuto subire terapie e interventi in ambiente ambulatoriale, o peggio, in regime di ricovero.

Gli pasmi affettivi

Una particolare modalità espressiva della collera sono gli spasmi affettivi. Debray e Belot[4] così li descrivono :

“In una situazione di frustrazione, che provoca collera, il bebè si mette improvvisamente a singhiozzare, il respiro si fa sempre più rapido e, dopo un ultimo sussulto accompagnato da stridore senza risposta respiratoria, il torace si blocca in inspirazione forzata e il bambino va in apnea. Compare cianosi, il bambino perde conoscenza, cade come una bambola di pezza, talora vi è un rivolgimento degli occhi. L’attacco può condurre a una crisi convulsiva, spesso di tipo tonico con eventuali scosse cloniche, con o senza perdita delle urine”.

La durata della pausa respiratoria va da qualche secondo a un minuto circa. La forma pallida, più rara, è provocata dal dolore, da uno shock, da un’emozione o da una paura. Il bambino, dopo un grido, talora appena abbozzato, diventa pallidissimo e cade in sincope. Le forme più gravi di spasmi affettivi possono essere scambiati per crisi convulsive,  in quanto il bambino, sistematicamente, subito dopo un trauma presenta una crisi convulsiva.

Le cause della collera

Per quanto riguarda le cause della collera dobbiamo saper distinguere:

  1. La reazione a qualcosa di ingiusto che è stato fatto al bambino.
  2. Il bisogno ed il piacere di creare attorno a sé un momento di confusione e distruttività.
  3. I comportamenti pretestuosi.
1.      La reazione a qualcosa di ingiusto che è stato fatto al bambino.

Non è difficile che qualcosa di ingiusto sia stato fatto al bambino da parte dei genitori, dei fratelli, di qualche compagnetto o dagli insegnanti. In questi casi avere il coraggio di dire al bambino: “Hai ragione, noi come genitori ci siamo comportati male”.  “Io come madre, come padre mi sono sbagliato, ti ho rimproverato ingiustamente”. “La maestra è stata troppo dura con te”. “Tuo fratello o il tuo compagno non dovevano trattarti in questo modo”.  L’avere questo coraggio, dicevamo, fa scomparire la collera come per magia. Queste parole hanno il potere di comunicare al bambino delle indiscutibili verità e realtà : tutti possono sbagliare. Possono sbagliare i bambini ma anche gli adulti. L’importante, quando questo accade, è ammettere i propri errori, chiedere scusa, e sforzarsi di evitare che la stessa cosa accada in futuro. Queste parole, o parole come queste hanno il potere di far sentire al bambino l’amore e la stima che nutriamo nei suoi confronti e l’attenzione che sentiamo verso i suoi sentimenti e le sue emozioni.

2.      Il bisogno ed il piacere di creare attorno a sé un momento di confusione e distruttività

L’impulso a disordinare in modo convulso gli oggetti o i giocattoli, così come il bisogno di distruttività, è molto forte nei bambini che soffrono e hanno molto sofferto. In questi, soprattutto se maschietti, è presente il desiderio ed il bisogno di scaricare l’aggressività, l’ansia e la tensione interiore su qualcosa o su qualcuno. Ma, sempre maggiormente nei maschi, un certo grado di impulso distruttivo è presente anche nei soggetti normali[5] (Isaacs, 1995, p. 69). Quando si evidenzia la necessità di esprimere in modo aggressivo la propria energia interiore, è importante assicurarsi che il bambino abbia una grande libertà e possibilità di fare ciò, senza far del male a se stesso o agli altri e senza dover incorrere in rimproveri e punizioni. Ciò è possibile utilizzando il gioco libero, o per mezzo di attività motorie altrettanto libere e spontanee, effettuate all’aria aperta.

3.      I comportamenti pretestuosi
 

 Alcune crisi possono essere sicuramente pretestuose. Sono queste delle pseudo-crisi finalizzate ad ottenere qualcosa di proibito: un uso eccessivo della tv o dei videogiochi, cibi, giocattoli e oggetti che in quel momento i genitori non ritengono opportuno concedere o non sono in grado di comprare. In questi casi le crisi vanno certamente ignorate, ma mai sottovalutate. Vanno ignorate in quanto rispondere ad una crisi nata da un capriccio, soddisfacendo il capriccio stesso, rischia di innescare un circolo vizioso, per cui il bambino “si fa venire la crisi” ogni volta che vuole ottenere qualcosa di proibito. Tuttavia non vanno sottovalutate, poiché spesso queste manifestazioni eclatanti di disagio, nascono da comportamenti incongrui dei genitori.

In altre parole, spesso il bambino si impunta ad ottenere un giocattolo costoso e inutile, ma dietro questa richiesta nasconde il suo disagio e la sua sofferenza, dovute a reali carenze molto più importanti: bisogno di regole chiare e comportamenti lineari; scarso dialogo o attenzione da parte dei genitori o familiari; saltuaria o limitata possibilità di giocare giornalmente, liberamente e per un congruo tempo con dei coetanei; presenza di comportamenti poco adeguati da parte dei genitori nei suoi confronti o nei confronti della loro relazione; e così via.

I possibili interventi
 

Abbiamo constatato in numerosi casi di bambini con questa sintomatologia quali possono essere i comportamenti poco utili o che, anzi, tendono a peggiorare queste manifestazioni e quelli più utili e produttivi.

 

Non ci appare utile:

 
  •   sgridare sempre di più o punire sempre più severamente il bambino. Insomma, non funziona il dispotismo a qualunque costo. In questi casi, anche se si ottiene in quel momento l’effetto voluto, rimane, si alimenta e si accentua, dentro l’animo del bambino, altra rabbia e altra collera;
  •   ignorare i motivi della rabbia e della collera. La mancanza di comprensione accentua la sensazione di solitudine e di tristezza nel minore e accresce la sua reattività nei confronti dei genitori, degli altri adulti o coetanei;
  •   non riflettere su quanto succede nell’animo del bambino. In questi casi è come chiudere gli occhi davanti alla realtà, sperando che non esista, o ancor peggio, sperando che esista solo un bambino cattivo e ribelle da domare con la frusta e con la cavezza, come un cavallo selvatico;
  •   rispondere con la rabbia e con la collera alla collera del bambino. In questi casi, si inizia un duello che sicuramente non farà bene né ai genitori né al bambino, in quanto o quest’ultimo sarà costretto a interiorizzare le sue emozioni, con conseguenziali autoaccuse, autopunizioni, somatizzazioni ecc., oppure aumenteranno i comportamenti collerici, sia verso i genitori sia verso i fratelli, le sorelle o altri bambini, assolutamente innocenti;
  •   a nostro parere è poco utile anche il cosiddetto “contenimento fisico”, messo in atto da parte dei genitori o degli educatori, per evitare che il bambino si faccia o faccia del male. In quanto il bambino già prigioniero e sconvolto dalle sue emozioni, avverte gli altri ed il mondo che lo circondano in maniera ancora più negativa e repressiva.

Ci sembra utile invece:

 
  •   riuscire a mantenere la calma, sforzandosi di capire quali possono essere state le cause che hanno comportato l’insorgere di quest’emozione nel proprio figlio;
  •   rispecchiare le sue emozioni e accettarle. “Capisco che sei arrabbiato perché hai dovuto lasciare il tuo gioco preferito per uscire con papà e mamma. Ma si era fatto troppo tardi e non potevamo aspettare ancora”;
  •   comunicare al bambino i motivi che ci hanno portato a rimproverarlo o punirlo. Anziché dire: “Sono arrabbiato con te…”, è meglio dire: “Ho avuto paura per ciò che poteva accaderti in quella situazione ed è per questo motivo che ho dovuto rimproverarti o punirti”;
  •   cercare di calmarlo con un atteggiamento affettuoso e sereno, impegnandosi nel contempo a risolvere i problemi di fondo, dai quali può essere scaturita la sua rabbia e la sua collera;
  •   distrarre e deviare la sua attenzione, su un’attività o un gioco piacevole o neutro;
  •    contenere in senso affettivo il bambino, cercando di fargli capire i nostri sforzi per capire i motivi della sua rabbia, mentre, nel contempo, ci sforzeremo di indicargli i modi migliori per evitarla, meglio gestirla o controllarla;
  •   mettere delle regole chiare. I bambini accettano le regole se queste sono chiare, lineari e non sono continuamente modificate. Ad esempio, per un bambino che chiede continuamente soldi o giocattoli è indispensabile mettere delle indicazioni precise, tenendo conto delle proprie possibilità economiche e della necessità di insegnare al bambino l’uso accorto del denaro: “Avrai ogni settimana la tua paghetta settimanale di tot euro che potrai spendere come vuoi. Solo per il tuo compleanno, per l’onomastico e per la fine della scuola avrai un bel giocattolo”.
  •    cercare di prevenire le crisi dando, ad esempio, al bambino, un preavviso di qualche minuto per smettere quello che sta facendo, evitando così di costringerlo ad interrompere bruscamente l’attività iniziata;
  •   intervenire con decisione, facendogli capire che non siete disposti a farvi ricattare da questi comportamenti incongrui, quando le crisi avvengono in luoghi pubblici: chiesa, ristorante, negozio, con lo scopo di ottenere più facilmente qualcosa di proibito o non adeguato al momento;
  •   abituare il bambino a manifestare il suo disagio e la sua sofferenza mediante un continuo ascolto, così da chiarire il vostro o l’altrui comportamento;
  •   insegnargli a dare risposte adeguate e non distruttive, senza farsi sottomettere dagli altri, ma anche senza arrivare agli scatti d’ira.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 56.

[2] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 60.

[3] Bowlby  J., (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 98.

[4] Debray R. e Belot, A., (2009), Psicosomatica della prima infanzia, Roma, Casa editrice Astrolabio, p. 57.

[5] Isaacs S., (1995), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, p. 69.

 

 

 


[1] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 338.

[2] Militerni R., (2004), Neuropsichiatria infantile, Napoli, Editore Idelson Gnocchi, p. 337.

 

 

I meccanismi di difesa dell'Io

 

Le nevrosi e i meccanismi di difesa

Le teorie psicodinamiche permettono di spiegare bene e in modo più preciso e completo i disturbi nevrotici dei bambini e degli adulti. Secondo tali teorie i sintomi nevrotici rappresentano dei tentativi per mezzo dei quali l'Io cerca di risolvere l'ansia, derivata dai conflitti tra le varie attività psichiche. In particolare l’Io cerca di risolvere le pulsioni dell'Es che si scontrano con quelle del Super Io. Il tutto inserito nel modello ideale dell'Io e nelle condizioni contingenti esterne.

Le pulsioni libidinali o aggressive dell'Es cercano di spingere l'Io verso un certo tipo di comportamento che soddisfi tali pulsioni. A sua volta però, molte di queste pulsioni libidinali o aggressive vengono censurate dal Super Io, in quanto in contrasto con le normative etiche, sociali, culturali o familiari. Ciò comporta un continuo sforzo da parte dell'Io di soddisfare le pressanti esigenze dell'Es, in modo tale però che non siano in contrasto con le istanze morali del super Io, con gli ideali dell'Io e con le condizioni contingenti. In caso contrario ne deriverebbero angosciosi sensi di colpa. Quando i normali mezzi psicologici che ha l'Io a sua disposizione non riescono a risolvere l'ansia derivante tra queste diverse esigenze, compaiono i sintomi nevrotici. Questi sono l'ultimo mezzo che ha l'Io per superare l'angoscia. Freud ricorda in un saggio sulle nevrosi ossessiva che in ogni nevrosi ritroviamo nascosti dietro ai sintomi, i medesimi istinti. Le fobie, le ossessioni, le somatizzazioni, le crisi d'ansia e le manifestazioni isteriche hanno quindi una base comune, sono un mezzo per evitare l'angoscia crescente.

Nei bambini si preferisce parlare di tratti nevrotici, piuttosto che di nevrosi, in quanto nell'infanzia la personalità è in evoluzione e in formazione. Pertanto le difese utilizzate dal bambino non sono ancora mature e i sintomi nevrotici, nonostante siano frequenti, non sono strutturati e stabili, come quelli degli adulti, per cui sono considerati “normali” se si presentano saltuariamente ed in modo lieve.

Per la psicanalisi, l’Io utilizza vari tipi di difese psicologiche, in parte inconsce, in parte coatte, messe in atto per ridurre o sopprimere ogni turbativa che possa mettere in pericolo la sua integrità e il suo equilibrio interno. Alcune di queste difese sono egosintoniche, in quanto coerenti con le esigenze dell’Io, altre sono egodistoniche o patogene, in quanto la funzione egoica di esame della realtà si interrompe, per lasciar spazio alla riutilizzazione di modi arcaici di pensare, di percepire e di rapportarsi alla realtà[1].

Accanto ai meccanismi di difesa scoperti da Freud, altri studiosi, nel tempo, ne hanno aggiunto altri.

Pertanto i meccanismi di difesa usati dall’io durante l’infanzia e l’adolescenza sono numerosi[2] (Kaplan, Sadock, 1993, p. 199).

La negazione

È questa una forma di difesa comune nei bambini. Essa consiste nel falsificare fatti, impulsi, dati di realtà o aspetti di sé o del mondo percettivo, allo scopo di conservare il benessere psichico. Questo sistema di difesa viene utilizzato soprattutto per evitare di riconoscere esperienze penose. Ad esempio, nel caso in cui il bambino ha perduto il padre, egli potrà dire: “Mio papà non è affatto morto. Egli tornerà fra qualche giorno”. E così, nel caso di separazione dei genitori potrà affermare con sicurezza: “I miei genitori non si sono separati, papà torna a casa la notte e poi riparte presto la mattina per andare a lavorare, e per questo che io non lo vedo”. L’uso massiccio di questo meccanismo di difesa produce conseguenze negative, in quanto i veri problemi non sono né affrontati, né risolti.

 

La regressione

Anche questo è un meccanismo di difesa frequente. Quando il bambino è coinvolto in circostanze che scatenano in lui più ansia di quanto possa fronteggiare, egli abbandona gli schemi di comportamento appropriati alla sua età e regredisce ad un tipo di comportamento che, in passato, lo appagava. Abbandona, quindi, momentaneamente, certi comportamenti più evoluti e utilizza comportamenti più infantili, ritornando ad una fase precedente al suo attuale sviluppo. Ad esempio, egli può iniziare a comportarsi in maniera capricciosa, come farebbe un bambino piccolo, può parlare come un bebè, rifiutare l’alimentazione solida per quella liquida e così via. In altri casi può regredire alla fase anale e cominciare a bagnarsi e sporcarsi nuovamente, oppure alla fase orale, e chiedere di essere nutrito e cullato come un neonato. In ogni caso si accentua la sua dipendenza dalla madre e dalle altre figure protettive. La regressione non è quasi mai totale, ma riguarda uno o più aspetti della vita psichica del minore.

Quando si presenta questo tipo di difesa è fondamentale il modo di comportarsi dei genitori. Se papà e mamma, comprendendo i segnali che provengono dal bambino, si impegnano in tutti i modi al allentare la pressione su di lui e si sforzano di dargli ciò di cui ha bisogno in quel difficile frangente, la regressione può rapidamente diminuire, per poi scomparire del tutto; per cui il bambino tonerà ad attuare dei comportamenti più maturi e adeguati alla sua età cronologica. Può accadere, invece, che i genitori siano insensibili persino a tali evidenti segnali di disagio o siano troppo occupati o tormentati a causa dei loro stessi problemi, per riuscire a comportarsi e reagire nel modo più opportuno. In questi casi i sintomi della regressione possono non solo persistere, ma anche accentuarsi; per cui il bambino può subire un parziale arresto nel suo sviluppo, accompagnato da una contrazione della sua personalità.

La distorsione

Con questa difesa si rimodella la realtà esterna per soddisfare dei bisogni interni.[3]

Idealizzazione primitiva

Mediante questo meccanismo gli oggetti esterni che sono visti come o “tutti buoni” o “tutti cattivi” sono irrealisticamente dotati di grandi poteri[4].

 

 

La proiezione o spostamento

I sentimenti e gli impulsi inaccettabili verso una persona, quando questi creano conflitto, sono spostati verso un’altra persona, un animale o un oggetto “sostitutivo”, che assume il ruolo di oggetto manifesto, o apparente, ed è in stretto rapporto simbolico con l’oggetto reale o la rappresentazione mentale che causa l’attivazione di questa difesa. Questo meccanismo di difesa interviene spesso nelle fobie, per cui si sposta il sentimento inaccettabile sull’oggetto “fobogeno”.

L’identificazione proiettiva

Mediante questa difesa gli aspetti non desiderati di sé sono depositati dentro un’altra persona, in modo tale che il soggetto che proietta si sente tutt’uno con l’oggetto della proiezione[5].

 

 

La scissione

Lo stesso oggetto o persona viene diviso, scisso in due: uno buono e uno cattivo, in modo tale da potere dirigere sulle parti scisse gli opposti sentimenti che questo oggetto o questa persona ispira: ad esempio: odio verso la parte cattiva della madre, amore verso quella buona; desiderio di accoglienza verso la parte buona, desiderio di morte e distruzione verso la parte cattiva. È questo un meccanismo di difesa primitivo, proprio dei primi mesi di vita, che nell'adulto può presentarsi in varie forme di psicosi.

La messa in atto

È il tentativo di evitare di confrontarsi con i propri conflitti inconsci, cercando soluzioni sul piano della realtà, allo scopo di risolvere con azioni un conflitto interiore che non si vuol riconoscere.[6]

Il blocco

“Una inibizione, in genere temporanea, specialmente di affetti, ma talora anche di pensiero e di impulsi”[7] .

 

 

L’ipocondria

“È la trasformazione del rimprovero verso gli altri in un autorimprovero e in un lamento di sofferenza, di malattia somatica e nevrastenia [8]”.

L’identificazione

“L’identificazione con l’oggetto amato può servire come difesa verso l’angoscia e la sofferenza, che accompagnano la separazione o la perdita dell’oggetto, sia reale che minacciata[9] .

L’introiezione

Questa indica il processo difensivo, mediante il quale il soggetto "introduce” fantasmaticamente al proprio interno oggetti (parziali o totali) e qualità dei medesimi. La nozione di introiezione è stata adottata da Freud in opposizione a quella di proiezione. Attraverso l'introiezione l'Io tenta di incorporare nelle proprie strutture valori e norme esterne, per non viverle come opprimenti ed estranee. È un meccanismo essenziale nello sviluppo infantile, in quanto consente al bambino di assimilare le figure significative, come i genitori, e di mantenerle internamente, così da "ricorrere” alle loro qualità anche in assenza di esse.

Il comportamento passivo-aggressivo

“L’aggressività verso un oggetto espresso indirettamente ed inefficacemente attraverso passività, masochismo e ostilità verso se stessi”[10].

La fantasia schizoide

Tendenza ad usare la fantasia e ad indulgere in un ritiro autistico, con lo scopo di risolvere un conflitto e di ottenere gratificazione[11].

La somatizzazione

Conversione difensiva di derivati psichici in sintomi somatici, tendenza a reagire con manifestazioni somatiche[12].

La rivolta contro se stessi

Un impulso inaccettabile verso gli altri viene rivolto verso se stessi[13] 

Il falso Io

Quando un bambino non riesce a padroneggiare delle situazioni che sono troppo difficili, complesse o frequenti, può cercare di controllare la realtà recitando una parte o indossando una maschera che lo renda bene accetto soprattutto agli adulti, ai quali apparirà come un bambino bravo, ubbidiente, tranquillo, collaborante, allegro ecc. Questa maschera o questa recita gli consente di rapportarsi meglio con gli altri e di dimostrare sia agli altri che a se stesso di essere all’altezza della situazione. Purtroppo questo modo di risolvere i problemi comporta un notevole dispendio di energia psichica e può, col tempo, rivelarsi controproducente, perché la realtà che egli nasconde dietro è troppo diversa dalle apparenze.[14]

 

L’apatia e il distacco sonnolento

Altri meccanismi per diminuire l’ansia sono descritti da Sullivan[15].

Quando il bambino è coinvolto in circostanze che scatenano in lui più ansia di quanto possa fronteggiare, uno dei meccanismi psicologici di cui può servirsi per diminuire la sofferenza causata dall’ansia è l’apatia con la quale tutte le tensioni causate dai bisogni sono sensibilmente attenute ma non eliminate. Questa difesa è attuata quando i bisogni insoddisfatti sono molto importanti e gravi. Quando il bambino è più grande anche il distacco sonnolento riduce l’angoscia grave e prolungata. Questo tipo di distacco è molto simile all’apatia ed è provocato da un’angoscia inevitabile e prolungata.

La disattenzione selettiva

Altro metodo di difesa utilizzato dal bambino, specie quando desidera delle cose impossibili, è la disattenzione selettiva. Utilizzando questa difesa il bambino tratta gli oggetti e le cose desiderate come se non esistessero[16] (Sullivan, 1962, p. 197).

Le stereotipie e le attività ripetitive

Anche le stereotipie e tutte le attività ripetitive possono essere, a nostro avviso, considerate degli strumenti di difesa dall’angoscia. Queste permettono di concentrare l’attenzione verso qualcosa o qualche attività piacevole e rilassante, così da allontanare le ansie e i pensieri truci o paurosi. Quando le stereotipie sono di tipo motorio, a questo effetto di distrazione si aggiunge anche un effetto di scarica dell’ansia e della tensione, attraverso un’attività fisica ripetitiva, molto semplice, facile e banale.

 

L’attivismo

Sono comuni negli adulti una serie di impegni, spesso eccessivi e convulsi, in svariate attività: mentali, fisiche, relazionali, sentimentali, sessuali, attuate rapidamente, senza le opportune pause e senza eccessive riflessioni. Quest’impegni convulsi ed eccessivi, sia di tipo motorio sia di tipo intellettivo, sono giustamente giudicati da parte degli osservatori esterni come impegni nevrotici. In quanto hanno lo scopo, a volte inconscio ma spesso perfettamente cosciente e dichiarato, di tentare di diminuire l’ansia, il dolore e la tristezza interiore, impegnandosi con grinta e frenesia in molteplici attività.

Allo stesso modo il bambino, mediante l’attività motoria convulsa esercitata nell’ambiente di casa, di cortile o di scuola, cerca di allontanare o dar sfogo ai pensieri, alle ansie e alle paure che lo angustiano e lo attanagliano. In tal modo ottiene un miglioramento, anche se, a volte, solo momentaneo, della sua sofferenza.

La focalizzazione dell’attenzione su settori e compiti specifici

In alcuni bambini particolarmente disturbati, come nei soggetti affetti da sindrome di Asperger, ritroviamo da parte del minore una particolare attenzione e quindi capacità in alcuni specifici settori, ad esempio, nelle scienze, nella matematica, nell’informatica. Questo focalizzare l’attenzione su un determinato campo, escludendo tutto il resto, potrebbe configurarsi una delle tante modalità di difesa che l’Io attua per allontanare l’ansia, le paure, e tutte le emozioni disturbanti in quanto, delimitando notevolmente la sfera dei propri interessi, il bambino evita le frustrazioni dovute all’incapacità di ben gestire le difficili relazioni familiari e amicali.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Galimberti U., (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, pp. 604-607.

[2] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 199.

[3] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 199.

[4] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 199.

[5] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 199.

[6] Galimberti U.,     (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 604 - 607.

[7] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 199.

[8] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 199.

[9] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 1193.

[10] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 200.

[11] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 200.

[12] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 200.

[13] Kaplan, H.I., Sadock B. j., (1993), Manuale di psichiatria, Napoli,  Edises, p. 200.

[14] Oliverio Ferraris A., (2005), Non solo Amore, Firenze, Giunti Demetra, p. 103.

[15] Sullivan H.S.,     (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 74.

[16] Sullivan H.S.,     (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore.

 

La frustrazione nel bambino

 

 

La frustrazione viene definita dal Galimberti[1]come una “situazione interna o esterna che non consente di conseguire un soddisfacimento o di raggiungere uno scopo”. Proviamo quindi questo sentimento quando un'attesa risulta vana, quando qualcosa o qualcuno ci delude. L'attesa, e quindi la delusione, può riguardare un atteggiamento, un comportamento, una risposta ad un nostro bisogno, che abbiamo immaginato e pregustato, ma non siamo riusciti ad ottenere. Senso di frustrazione si ha anche quando ciò che abbiamo immaginato si è attuato, ma non ha affatto soddisfatto il nostro desiderio e la nostra aspettativa.

Il non raggiungimento di uno scopo o un non soddisfacimento, può derivare non solo dal mondo esterno, ma anche dal mondo interiore, quando, ad esempio, il Super Io non ci permette di ottenere un soddisfacimento ritenuto ingiusto o riprovevole.

La frustrazione è fatta di sofferenza iniziale, alla quale segue la tristezza e, dopo la tristezza, spesso si affaccia anche la chiusura. Questa può riguardare soltanto il rapporto con chi ci ha deluso, ma può ampliarsi a tutto e a tutti. Come dire: “Se questa persona, se questo sentimento mi ha deluso, io non solo non voglio avere a che fare con questa persona ma chiudo e difendo la mia vita anche da tutto ciò che essa rappresenta: l'amicizia, l'amore, la speranza, la fiducia, il piacere”.

 

La sfiducia si allarga nel nostro animo come le onde provocate da un sasso lanciato su un laghetto. Queste non si fermano nel punto dell'acqua in cui il sasso è caduto ma si allargano fino alla riva. Se una persona ci tradisce, la sfiducia conseguente alla delusione non riguarderà soltanto quella persona ma rischierà di espandersi a tutte le persone. E se ci tradisce un sentimento come l’amore o l’amicizia, il rischio è di non credere più a questi sentimenti.

Sono notevolmente più gravi le delusioni infantili, in quanto l’essere umano, ancora immaturo, non ha sviluppato efficienti meccanismi di difesa. Le frustrazioni del bambino vanno di pari passo e seguono la quantità e la qualità delle aspettative che egli ha nei confronti delle persone di riferimento. Le più gravi riguardano la madre, alla quale seguono il padre, i nonni, i fratelli, gli insegnanti, gli amici e così via.

Poiché il mondo del neonato e del lattante è fatto quasi esclusivamente della madre, quando questa lo tradisce nelle sue aspettative, è come se tutto il mondo l’avesse tradito. Pertanto, la depressione e la chiusura che ne seguono possono essere molto intense e durature. Non sempre, per fortuna, la reazione che ne consegue è la totale chiusura. Spesso il bambino manifesta altri tipi di reazione rispetto alla passività della chiusura, come può essere la rabbia, la collera e l’aggressività.

 

Nella frustrazione è implicito un sentimento soggettivo, per cui lo stesso episodio può essere vissuto da bambini diversi, in modo diverso, in base alle caratteristiche di personalità, ai vissuti del momento, alla loro età e alla fase di sviluppo che, in quel momento, essi vivono. I bambini differiscono, oltre che per una eterogenea tolleranza alla frustrazione, anche per un diverso modo elettivo di reagire. Alcuni rispondono chiudendosi o regredendo ad uno stadio inferiore di sviluppo, altri reagiscono manifestando aggressività e collera, altri ancora esprimono la loro sofferenza piangendo.

Naturalmente le frustrazioni più gravi sono quelle di natura affettivo–relazionale, le quali possono lasciare dei reliquati anche per tutta la vita. Tali sono le frustrazioni causate da una continua o frequente lontananza dei genitori, che impedisce di soddisfare il desiderio di cure, manifestazioni affettive e attenzioni stabili. Tali sono le frustrazioni che subisce un figlio a causa di genitori nei quali sono presenti disturbi psicologici rilevanti. Ad esempio, genitori molto ansiosi o depressi che rendono particolarmente penosa la vita dei figli, impedendo loro di soddisfare i bisogni di gioco, di scoperta, di condivisione. Tali sono le frustrazioni presenti in una famiglia che soffre di frequenti ed intensi conflitti che impediscono al bambino di godere della necessaria pace, tranquillità e sicurezza.

Per quanto riguarda l’età, il postergare una soddisfazione affettiva, come può essere il piacere e il senso di benessere dati dall’abbraccio o dalla parola affettuosa di una madre o di un padre, è più grave quanto più il bambino è piccolo, in quanto possiede poche possibilità di sostituire la persona che lo ha deluso con un’altra.

Queste considerazioni hanno notevoli implicazioni e spiegano perché le delusioni subite nella primissima infanzia, quando il bambino si affaccia alla vita, possono portare a dei quadri sintomatologici molto gravi, sia di depressione sia di chiusura.

In definitiva, la quantità, la qualità e la durata delle frustrazioni, nonché l’età di chi le subisce e il modo con il quale sono somministrate, hanno una notevole importanza nel processo di maturazione affettiva e nello sviluppo del carattere del minore.

Frustrazioni acute o croniche

Se un bambino viene rimproverato, picchiato, gli viene negato qualcosa a cui lui tiene molto, o viene deriso, insultato, o subisce altri tipi di violenza in un determinato momento, l’evento subìto determina una frustrazione acuta.Si ha invece una frustrazione cronica quando gli eventi che procurano la sofferenza si prolungano nel tempo. Possiamo paragonare la frustrazione acuta ad una ferita. Il bambino soffre, piange, il dolore permane per qualche giorno, ma poi la ferita si rimargina e guarisce. Se invece lo stesso bambino vive costantemente in un ambiente inquinato e non ha la possibilità d’allontanarsi da questo ambiente, egli avrà delle conseguenze molto più importanti e durature nel tempo. D’altra parte, un bambino con una ferita sanguinante suscita immediatamente l’attenzione di chi gli sta intorno: familiari o estranei che siano. Non avviene altrettanto quando lo stesso bambino vive per anni in un ambiente inquinato!

I motivi che portano ad una frustrazione cronica possono essere molti:

  •   l’istituzionalizzazione totale o parziale;
  •   le carenze affettive di tipo genitoriale o parentale;
  •  lo scarso o alterato dialogo;
  •   i comportamenti educativi errati;
  •   le eccessive limitazioni, incomprensioni, rimproveri e punizioni;
  •   le limitate possibilità di autonomia o di espressione dei bisogni di gioco, movimento e cure;
  •   i frequenti e costanti conflitti presenti nella coppia genitoriale o nella famiglia.

 

Il bambino si confronta molto meglio di fronte ad una frustrazione acuta, in quanto questa gli permette di manifestare rabbia e collera e lo stimola a cercare un rimedio, una mediazione, un aiuto o un sostegno esterno. Nella frustrazione cronica, invece, le possibilità di difesa del minore sono ridotte, in quanto è l’ambiente in cui egli vive stabilmente che limita in modo eccessivo e continuativo il soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri. Spesso, purtroppo, gli effetti della frustrazione cronica, che sono quelli più frequenti e numerosi, non creano alcun allarme sociale e familiare, nonostante incidano negativamente in modo considerevole sullo sviluppo sereno del minore.

Da notare che nasciamo in una situazione di ottimismo di base per cui i cuccioli dell’uomo tendono istintivamente a vedere gli aspetti positivi di una situazione, piuttosto che quelli negativi. Pertanto, quando il bambino è sopraffatto dalla tristezza e dallo scoraggiamento, le cause devono essere state talmente pesanti e durature da sconfiggere il suo innato ottimismo.

Le conseguenze

Gli aspetti positivi delle frustrazioni, quando queste non sono eccessive per quantità e per gravità, sono dovuti al fatto che queste favoriscono una maggiore presa di coscienza, danno in maniera più chiara e netta il senso del limite all’Io del bambino, stimolano la sua forza e la sua determinazione, migliorano le capacità d’adattarsi al mondo che lo circonda, stimolandolo a trovare le strategie più idonee a superare le delusioni. Per tali motivi una frustrazione non eccessiva può comportare una reazione positiva, poiché stimola il soggetto ad intensificare il suo impegno ed i suoi sforzi in vista della soluzione del problema o della meta da raggiungere.

Una frustrazione eccessiva, invece, può portare ad una disorganizzazione psichica, che si evidenzierà con vari sintomi: tensione e conflittualità interiore, ansie, paure, inibizione, disistima di sé, degli altri e del mondo che circonda il minore, disturbi del comportamento, aggressività verso gli altri, verso gli animali o gli oggetti, ma anche, a volte, verso se stessi.

Una frustrazione risulta eccessiva o non eccessiva in base a molteplici fattori personali e ambientali, pertanto può essere ben retta e gestita quando non è frequente, non è eccessivamente intensa, e quando la persona che la vive è abbastanza forte, solida e matura per riuscire a sopportarla.

 

 

Lo stress nei bambini

 

Lo stress viene definito dal Galimberti[1], come lareazione emozionale intensa ad una serie di stimoli esterni che mettono in moto risposte fisiologiche e psicologiche di natura adattativa. Se gli sforzi del soggetto falliscono perché lo stress supera le capacità di risposta, l’individuo è sottoposto a una vulnerabilità nei confronti della malattia psichica, di quella somatica, o di entrambe”.

Gli stimoli esterni e, quindi, gli agenti stressanti, possono essere numerosi. Vi può essere uno stress fisico dovuto a stimoli come il caldo ed il freddo o gli eccessivi sforzi muscolari; vi può essere uno stress psicologico, dovuto a stimoli emozionali,[2] come il dover affrontare le richieste delle persone che vivono accanto a noi, ad esempio, quando i familiari richiedono al bambino un comportamento irreprensibile: eccessivamente educato, ordinato, ubbidiente, puntuale o un impegno scolastico sproporzionato alle sue possibilità. Vi sono, inoltre, gli stress psicosociali, nei quali il bambino è costretto ad affrontare una situazione esterna, caratterizzata da difficoltà interpersonali, sociali o individuali.[3]

Per Clancy Blair: “Lo stress influenza lo sviluppo cerebrale di bambini anche molto piccoli, probabilmente perfino prima della nascita”. “Gli ormoni dello stress possono modificare i circuiti cerebrali in via di sviluppo. In particolare influenzano le connessioni neurali nella corteccia prefrontale, che presiede alle funzioni esecutive”.[4]  Queste zone cerebrali sono fondamentali per il ragionamento, la pianificazione e la risoluzione dei problemi e per regolare le emozioni e l’attenzione, e sono essenziali al successo accademico. Se nei bambini lo stress può impedire lo sviluppo di capacità cognitive importanti, lo stesso è pericoloso a ogni età. Negli adulti, ad esempio, può sconvolgere e portare scompiglio anche nelle loro capacità relazionali e di concentrazione. Se lo stress si presenta in maniera cronica, può danneggiare la persona sia fisicamente, sia emotivamente che intellettualmente. Con conseguenze psicologiche gravi, come depressione e ansia cronica.

 

Uno stress può essere ben retto e gestito, quando non è frequente, non è eccessivamente intenso o quando la persona che lo vive è abbastanza forte, solida e matura, per riuscire a sopportarlo. In caso contrario può provocare, in chi lo subisce, delle conseguenze psicologiche, ma anche fisiche, più o meno gravi.

L'esposizione precoce a stimoli ambientali stressanti, come possono essere la separazione del bambino dalla madre, la presenza di intensa conflittualità all’interno della famiglia, la depressione o l’ansia genitoriale, il cattivo rapporto con gli insegnanti o con i coetanei, è in grado di alterare, in senso negativo, la sensibilità dell’individuo ai successivi stimoli stressanti; quindi in epoche e momenti successivi, anche stimoli molto modesti e banali possono causare una notevole ansia.

Pertanto uno stress lieve su una persona che ha l’età, la maturità e la robustezza psicologica sufficiente per affrontarlo e ben sopportarlo, produce effetti positivi, come una maggiore gioia e gratificazione, alle quali seguono una maggiore maturità e robustezza interiore, date dal piacere di affrontare, con buoni risultati, un cammino più impervio e difficile del solito. Se invece la situazione stressante si ripete frequentemente, è troppo intensa o agisce su un bambino già provato da stress precoci ed eccessivi, questi, nonostante la buona volontà e nonostante tutti i tentativi di ben affrontare la richiesta, non riuscendo nell’intento è costretto a cedere. In questi casi si ha la fase dell’esaurimento e del collasso delle difese, con pesanti ripercussioni sul piano fisico e psicologico.[5]

Questo tipo di stress con effetti negativi viene definito distress. Il distress prolungato nel tempo produce incremento del ritmo cardiaco, aumento della pressione arteriosa e del ritmo respiratorio, deficit del sistema immunitario e diminuzione delle capacità di ragionamento, con conseguente difficoltà ad affrontare i problemi che di volta in volta si dovessero presentare. Inoltre, nel caso di distress prolungati ed intensi, sono compromesse sia la memoria, sia la percezione della realtà esterna all’individuo.[6]

Quasi sempre gli stress sono di origine ambientale. Solo occasionalmente, invece, sono il risultato di impedimenti costituzionali non riconosciuti (Wolff, 1970, p. 37). A volte gli stress nascono da ottime intenzioni. Ad esempio, spesso, nella nostra società, i genitori, spinti dalla moda del momento e avendo paura di non stimolare sufficientemente il loro figlio e di privarlo di qualcosa, stimolano i bambini coinvolgendoli in mille attività: musica, danza, piscina, corso di inglese, pattinaggio. Ciò senza tener conto dei bisogni reali dei figli.

Come abbiamo già accennato, la possibilità di reggere e ben gestire una o più situazioni stressanti dipende da vari fattori:

  •  l’età dell’individuo. Minore è l’età dell’individuo, minori saranno le possibilità di ben gestire i fattori stressanti;[7]
  •  la frequenza, la durata, l’intensità e la gravita dell’elemento stressante. Maggiore è la frequenza, la durata e la gravità dell’elemento stressante, minori saranno le possibilità di reggerle efficacemente;
  •  la robustezza o la fragilità psicologica della persona. Più una persona è psicologicamente sana e robusta,  più facilmente sopporta gli stress; più è fragile, più facilmente diventa vittima degli stress.[8]

 

Purtroppo quando i livelli di pressione psicologica sono notevolmente elevati, le persone che riescono a resistere senza cedere sono molto poche.

Tutti i bambini incontrano piccole difficoltà nel corso del loro sviluppo, in quanto possono subire incidenti, malattie, la nascita di un fratellino, un cambiamento di casa, di scuola o di ambiente di vita, richieste di maggiore autocontrollo, insegnanti particolarmente severi o scorbutici. Per lo più questi bambini reagiscono a questi stress con temporanee alterazioni del comportamento, episodi di enuresi notturna, manifestazioni di collera violenta o con la presenza di incubi notturni, paure intense ed eccessive. Per fortuna, se i genitori riescono ad interpretare correttamente e rapidamente questi sintomi di malessere, così da attivarsi immediatamente, cercando di allentare le pressioni sul bambino, i sintomi causati dallo stress diminuiscono, fino a scomparire. Serie difficoltà insorgono quando gli stress sono schiaccianti o quando gli adulti sono poco attenti, troppo occupati o eccessivamente superficiali, per cui non badano ai segnali di disagio e difficoltà espressi dal bambino. In questi casi i sintomi del piccolo peggiorano, ed è necessario un aiuto specialistico, quantunque le reazioni del bambino siano “normali”, nel senso che qualunque bambino, in quelle condizioni, avrebbe reagito allo stesso modo.[9]

Può succedere di peggio, quando da parte dei genitori o degli adulti, questo tipo di reazione dei bambini agli stress, non solo non è capito e accettato, ma anzi viene giudicato come un comportamento capriccioso e monello: “È diventato incontentabile, sempre piagnucoloso e irrequieto. Fa queste cose volutamente, per farmi soffrire e per stancarmi”. In questi casi i sintomi di difficoltà e disagio espressi dal bambino, non affrontati nella maniera corretta, cercando di scoprirne le cause, per poi provvedere ad eliminarle o ridurle, innescano, ora sì, un vero disturbo psicologico.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Galimberti U., (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, p. 553.

[2] Galimberti U., (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, p. 553.

[3] Galimberti U., (2006), Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, vol. 3 p. 554.

[4] Blair C., (2013), “Pericolo stress”, Mente e cervello, n° 105, settembre, p. 45.

[5] Meazzini P.,  (1997), "Quando lo stress colpisce, ovvero fatti e misfatti dello stress nella scuola",  Psicologia e scuola, n. 86, anno 18°, Ottobre – novembre, p. 33.

[6] Meazzini P.,  (1997), "Quando lo stress colpisce, ovvero fatti e misfatti dello stress nella scuola",  Psicologia e scuola, n. 86, anno 18°, Ottobre – novembre, p. 39.

[7] Meazzini P.,  (1997), "Quando lo stress colpisce, ovvero fatti e misfatti dello stress nella scuola",  Psicologia e scuola, n. 86, anno 18°, Ottobre – novembre, p. 32.

[8] Meazzini P.,  (1997), "Quando lo stress colpisce, ovvero fatti e misfatti dello stress nella scuola",  Psicologia e scuola, n. 86, anno 18°, Ottobre – novembre, p. 32.

 

[9] Wolff S., (1969), Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando - Armando Editore, p. 7.

 

La gestione delle emozioni

LA GESTIONE DELLE EMOZIONI

 

Dott.ssa  LINDA FONTI -  Pedagogista

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LE EMOZIONI: PARTE INTEGRANTE DELLA NATURA UMANA.

 

 

 

“Le emozioni non ci possiedono, e non siamo noi a possederle. Possiamo però imparare a gestirle. Anche se le azioni dettate dalle emozioni possono essere inaccettabili, sono sempre legittime.”

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Che cosa sono dunque le emozioni? Le possiamo conoscere, controllare e gestire davvero?

 

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Costituiscono una componente importantissima della vita umana e sono parte integrante dell’esistenza. Vivono con noi quotidianamente, sono la vita stessa. Senza emozioni saremmo dei calcolatori elettronici, dei computer. Quando il loro apporto è equilibrato sono fonte di salute e vita, quando vengono a lungo bloccate dietro a dighe più o meno improvvisate possono essere distruttive. La loro mancanza porta aridità e sofferenza.

Etimologicamente, il termine emozione deriva dal latino ex-moveo, ossia rimuovere, allontanare, scacciare; verbi che denotano un movimento da “dentro” verso “fuori”.

Lo studio sulle emozioni ha da sempre influenzato le riflessioni filosofiche dei massimi pensatori dell’antichità, dai quali abbiamo ereditato un patrimonio che ci ha aiutato a comprendere meglio le dinamiche emotive.

    Le emozioni non sono volontarie: per esempio non possiamo innamorarci o rallegrarci a comando. Non possiamo crearle, inventarle o sopprimerle.

Ciononostante possiamo scegliere se essere succubi o meno, poiché abbiamo la responsabilità del nostro “comportamento”, perché, quello sì, può essere controllato.

 

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Imparare a gestire le emozioni, proprie e altrui, aiuta a non averne paura, e a viverle appieno, infatti soffocare le emozioni negative, col tempo, anestetizza anche quelle positive, e allora la vita perde intensità e senso.

E' importante però non giudicare le emozioni che ci attraversano, ma riconoscere loro il diritto di esistere: solo così possiamo arrivare a capirle, e a riconoscerle come parte di noi anziché sentirle aliene e misteriose.

Un'emozione respinta o non accettata si tramuta in azioni che ci allontanano da noi stessi e dalla consapevolezza di ciò che siamo: come quando ci si ritrova a litigare senza un vero motivo, o a comprare cose inutili, o a perdere un treno senza capirne il perché. Dobbiamo imparare ad attivare la nostra intelligenza emotiva, l’abilità di essere consapevoli dei propri sentimenti e di saperli esprimere senza farsi prendere la mano e che ci consente di comprendere i nostri bisogni profondi e di soddisfarli.

L'emotività possiamo immaginarla come un cavallo che va capito e rispettato, ma comunque imbrigliato perchè non deve essere lui a decidere la strada, e se gli imponiamo con violenza gli ordini s'imbizzarrisce.

Il rapporto di ognuno di noi con le sue emozioni finisce con lo svilupparsi casualmente, prendendo esempio dalle persone più vicine, o da risposte automatiche agli eventi. Spesso diciamo ai bambini di "non piangere", "non fare il cattivo", "non avere paura", ma non gli insegnamo quasi mai un modo alternativo di gestire l'ondata di emozione, di qualsiasi natura essa sia. Così non tutti sanno che quando un emozione ci assale prima o poi bisognerà farci i conti, non si potrà fare finta di niente.

Se viene vissuta e scaricata in modo adeguato non farà danni, se invece viene incassata passivamente, "mandata giù", ignorata e poi dimenticata, rimarrà dentro come un macigno che non mancherà di causare problemi, a lungo termine, ripercuotendosi sulla salute fisica o sulla tranquillità d'animo.

Per vivere bene con le nostre emozioni, per poterle gestire e, quando necessario, controllarle dobbiamo prima di tutto imparare a riconoscerle e ad accettarle. Non serve a niente dirsi "non voglio arrabbiarmi" se l'ira ormai ci ha pervaso, e non serve neppure chiudere gli occhi di fronte a una passione se questa ormai ha messo seme in noi e ci sta trascinando dove vuole lei.

 E poi… l'emozione va vissuta, non c'è via di scampo. Quello che si può cambiare è il ritmo, il tempo e lo spazio che vogliamo dare all'esperienza. Se un'emozione è piacevole non c'è nessun problema a lasciarsi avvolgere e trasportare anche se durerà poco, perché le emozioni sono intense ma, se vissute, si dissolvono rapidamente.

Ci sono invece emozioni che se ignorate e represse o, al contrario, espresse senza freno, possono fare male, a se stessi e agli altri. Sono emozioni più difficili da gestire, come la rabbia, la paura, l'ansia che richiedono un metodo che permetta di far fronte al loro insorgere.

 

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Il metodo parte dal presupposto che un'emozione va scaricata, sempre e comunque, ma i modi di scaricarla sono tre: diretto, indiretto e sublimato. Un moto di irritazione scaricato direttamente si traduce in un attacco, fisico o verbale, nei confronti di chi ha causato l'irritazione; se, invece, la scarica è indiretta, l'aggressione sarà rivolta verso terzi, come quando un lavoratore frustrato urla a casa con i figli.

La sublimazione è la forma che lascia più spazio e libertà d'azione, cioè la trasformazione dell'emozione in "forza lavoro" che può essere scaricata in tantissimi modi diversi: correndo, urlando, prendendo a pugni un cuscino, camminare all'aria aperta, parlare con un amico, ballare o scrivendo una lettera con tutti gli insulti e improperi che vorremmo dire (senza però mandarla), e così via.

Imparare a costruire un buon rapporto con le proprie emozioni, cioè dare loro dignità di esistenza e modalità di espressione, ci eviterà i danni dei due possibili estremi, da una parte la repressione, quindi “l’aridità", e dall'altra l'espressione incontrollata, quindi "l’alluvione". le volubili e mutevoli colorazioni del nostro animo si trasformeranno non in una croce da subire, ma in una ricchezza.

Un bambino che affronta le emozioni più dolorose e difficili da solo, potrà sviluppare un atteggiamento di impassibilità e il suo vissuto interiore rimarrà “suo”: non ammetterà di sentirsi triste, spaventato o arrabbiato, poiché si vergognerà a doversi raccontare, temendo di essere rifiutato o frainteso.

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    Questa sfiducia può persistere per tutta la vita.

LE EMOZIONI PIACEVOLI.

Interesse, eccitamento, felicità, gioia, curiosità, amore, hanno un ruolo vivificante, sono cruciali nella lotta per la sopravvivenza e per la crescita personale; collegano l’individuo al mondo e agli altri, sono gratificanti, migliorano la performance e l’apprendimento; sono fonte di motivazione e il piacere deriva dal senso pieno e sano di padronanza, dal raggiungimento della competenza e dalla creazione di legami sociali; attivano il comportamento esplorativo, la ricerca di novità e di stimoli, la trasformazione e sostengono il mantenimento di tutte le relazioni (amicizia, legame di attaccamento coi genitori, relazioni intime).

L’interesse è l’emozione primaria più frequente, è un importante fattore di motivazione, guida la percezione e l’attenzione e le sue determinanti sono il cambiamento e la novità. Unito all’eccitamento, implica l’attivazione, l’orientamento all’azione e l’intensificazione degli sforzi per conseguire uno scopo. L’interesse è la forza primaria che mantiene le persone impegnate attivamente nel mettersi in contatto con il mondo. Quando l’interesse viene meno, mancano gli input sensoriali e la stimolazione cognitiva e si riducono la capacità esplorativa e l’organizzazione adattiva per conoscere l’ambiente e far fronte alle difficoltà, manca il contatto con la propria sorgente creativa e la ricerca di nuove esperienze evolutive non viene messa in atto.

La felicità è associata al riso e al sorriso, è percepita come altamente gradevole, è uno degli stati emozionali più desiderati, in cui ci si rivolge alla vita come a un tutto, si aspira al raggiungimento di ciò che è profondamente desiderato e ci si sente in armonia con il mondo. Sperimentiamo gioia quando interagiamo con i sorrisi, quando sperimentiamo la nostra efficacia, quando giochiamo coinvolgendo attivamente gli altri e quando attiriamo le cure delle persone che amiamo, aumentando la reciproca responsività. L’assenza di gioia spesso provoca la rottura di legami emotivi importanti, con conseguenti appiattimento emozionale e depressione. Il sorriso, negli infanti, favorisce il legame nella relazione di attaccamento e, negli adulti, è un segnale, universalmente riconoscibile, di disponibilità ad un’interazione amichevole. Nei bambini, l’interscambio fra interesse, eccitamento e gioia con chi si prende cura di lui è indice di uno sviluppo sano.

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L’emozione positiva è fisiologicamente attivante e consente la liberazione della tensione; la felicità e la gioia portano all’espansività. I problemi sorgono quando vi è in maniacale eccesso di eccitamento indifferenziato e reattivo alle circostanze. Nella dipendenza da sostanze, la persona è attratta dal senso di beatitudine e dall’eccitazione euforica che le droghe procurano. In ogni esperienza in cui la presenza di un oggetto produce un’intensa soddisfazione, oppure è auto-gratificante e la sua assenza risulta frustante, si stabilisce una forma di dipendenza. Poiché la gioia ci mette in grado di superare la paura, la vergogna e lo sconforto, può favorire la dipendenza da qualsiasi cosa procuri un sentimento di gioia.

EMOZIONI E CERVELLO: BASI NEUROFISIOLOGICHE.

All’interno dell’organismo l’emozione comporta una serie di cambiamenti, regolati dal sistema nervoso centrale (SNC), dalle sue sezioni – simpatico e parasimpatico- del sistema nervoso neurovegetativo (SNA) e dal sistema ormonale ed endocrino.

È il nostro cervello che attiva e regola gli aspetti fisiologici dell’emozione, infatti gli studiosi concordano nell’identificare il substrato neurologico dell’emozione nel sistema limbico e nei lobi frontali.

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La corteccia frontale sinistra svolge un ruolo importante per le emozioni positive, mentre il lobo frontale destro per alcune emozioni negative.

La corteccia pre-frontale svolge compiti di organizzazione comportamentale e di anticipazione.

La capacità di regolare le emozioni, invece dipende dai lobi frontali le cui connessioni neuronali cambiano in relazione alle esperienze vissute.

L’amigdala e l’ippocampo sono le parti più influenzabili dall’ambiente emotivo in cui cresciamo. L’amigdala è il nostro archivio della memoria emozionale e del significato degli eventi che ci accadono. L’esperienza dimostra che danni all’amigdala o la sua disconnessione interferiscono nella valutazione di situazioni pericolose o negative. Il SNP mette in collegamento il SNC con tutto l’organismo.

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Il SNA fa parte di quello periferico ed è responsabile delle risposte autonome o vegetative che si attivano in base allo stato emotivo della persona (salivazione, sudorazione, variazioni della pupilla, modificazioni dell’apparato gastroenterico e cardiovascolare come aumento della pressione sanguigna e aumento o diminuzione del battito cardiaco).

Il sistema simpatico e parasimpatico del SNA svolgono funzioni antagoniste, poiché il primo è preposto alla produzione di energia e il secondo, invece ha il compito di risparmiare e conservare le riserve energetiche.

Il sistema endocrino ha il ruolo di mediatore tra SNC e SNA. Anche la tiroide, le gonadi insieme ad ipotalamo e ipofisi controllano il SNC.

LA GESTIONE DELLE EMOZIONI IN AMBITO SCOLASTICO.

Ascoltare le nostre emozioni, seguirle e gestirle a nostro vantaggio è la conquista per un buon adattamento. Il bambino apprende fin da piccolo come gestirle, infatti la relazione con la madre, figura di attaccamento primario, dà senso alle prime esperienze, gli fornisce un senso di coesione con se stesso, impara a riconoscere e interpretare gli stati d’animo suoi e degli altri, a gestirli e a rispondere in modo coerente.

    In seguito attinge gli insegnamenti della vita emotiva dal resto dell’ambiente familiare, impara a percepirsi come individuo e a conoscere le reazioni degli altri ai suoi sentimenti; poi compaiono educatori, insegnanti e compagni di gioco, che rivestendo un ruolo importante nella sua vita ed entrando in contatto con lui, diventano potenziali socializzatori delle sue emozioni.

In genere i bambini in età prescolare cominciano a rendersi conto e riconoscere l’ambivalenza delle situazioni emotive e delle reazioni diverse in differenti persone e cominciano a prendere coscienza delle strategie di regolazione delle emozioni.

Le emozioni che portano ad un buon fine  o impediscono uno scopo agiscono come regolatori interpersonali delle emozioni, perché la tendenza a mantenere o raggiungere uno stato apprezzato o ad evitarne uno avverso, deriva dalla capacità di regolare le proprie emozioni.

Un semplice metodo per poter verificare le strategie adottate  dai bambini consiste nel raccontare loro delle storie e chiedergli poi come aiutare il protagonista a cambiare emozione.

I bambini, dai quattro ai nove anni, dimostrano la capacità di saper trasformare la rabbia del protagonista con uno stato emotivo positivo; mentre i più piccoli usano mezzi indiretti che non affrontano la causa.

Indiscussa è l’importanza dell’empatia, la capacità di riconoscere le emozioni altrui, che consente di provare le emozioni di un’altra persona e interessarci agli altri. La sua mancanza nell’ambito scolastico genera intolleranza e conflitti.

Dal complesso meccanismo delle emozioni, specie quando i bambini entrano nel mondo scolastico, emergono diverse dinamiche, e assumono un certo peso nel processo di apprendimento.

È infatti provato che il successo e l’insuccesso scolastico e lo sviluppo dell’autostima dipendono dalla gestione da parte nostra e degli altri della nostra intelligenza emotiva composta da quattro livelli di abilità fondamentali:

1.    percepire ed esprimere le emozioni;

2.    usare le emozioni per facilitare il pensiero;

3.    capire le emozioni;

4.    gestire le emozioni.

In pratica, il concetto di intelligenza basato solo sulle capacità verbale e logico-matematiche è riduttivo, poiché per un quadro veramente completo è necessario accludere l’intelligenza linguistica, spaziale, musicale e l’intelligenza intra e interpersonale ; insomma “un’intelligenza multipla”. Dunque divenire autoconsapevole delle proprie emozioni vuol dire diventare individui autonomi e sicuri dei propri limiti, riuscendo a godere di una buona salute psicologica e vedere la vita in prospettiva positiva.

L’intelligenza emotiva, a differenza del QI, può essere acquisita e potenziata in qualsiasi fase della vita, anzi aumenta in proporzione alla consapevolezza degli stati d‘animo, al contenimento delle emozioni che provocano sofferenza, alla maggiore acquisizione della sensibilizzazione empatica.

    L’intelligenza emozionale può diventare uno strumento idoneo in ambito scolastico per sviluppare la comunicazione inter e intrapersonale, riuscendo a vedere l’alunno da un punto di vista affettivo-motivazionale, operando il tentativo esemplare di “educarsi insieme all’educando”; compito principale di un insegnante che può essere deviato da problematiche personali e conflitti irrisolti. Da “insegnante” si deve tentare di abbandonare la propria corazza emotiva per potersi accorgere in che modo le emozioni influiscono sulle dinamiche di apprendimento.

    Il processo di apprendimento è notevolmente influenzato dalle emozioni ed è usuale vedere che bambini cosiddetti intelligenti, non riescano ad avere risultati  scolastici soddisfacenti, a causa di scarsi incoraggiamenti.  Il processo cognitivo e quello emotivo sono dipendenti l’uno dall’altro e ciò è dimostrato dal fatto che la convinzione di essere  abile e competente (autoefficacia) può incidere negativamente o positivamente, a seconda se la possediamo o meno.

La motivazione a portare avanti un compito è legata alle nostre aspettative di autoefficacia e quindi all’autostima. Uno dei compiti dell’insegnante per comprendere il bambino che ha davanti è quello di promuovere per primo un percorso di autoconsapevolezza del Sé emozionale, poi nel bambino favorendo la motivazione ad apprendere e instaurando un tranquillo clima relazionale.

Se un alunno manifesta irrequietezza, ansia, nervosismo non sarà capace di concentrarsi sul compito da svolgere, rispetto ad uno che invece è tranquillo. Pertanto sarebbe auspicabile che un bambino per poter apprendere in modo efficace possa sviluppare:

•    controllo e padronanza sul proprio corpo, sul proprio comportamento e sul proprio mondo (fiducia);

•    la sensazione che la scoperta sia un’attività positiva e fonte di piacere (curiosità);

•    il desiderio e la capacità di essere influenti e perseveranti (intenzionalità e autoefficacia);

•    la capacità di modulare e controllare le proprie azioni in rapporto all’età (autocontrollo);

•    la capacità di impegnarsi con gli altri, consapevole di essere compreso e comprendere gli altri (sintonia);

•    desiderio e capacità di comunicare idee e sentimenti con gli altri.

•    L’abilità di equilibrare le proprie esigenze con quelle di un gruppo.

La carenza di intelligenza emotiva può portare bambini e adolescenti verso una serie di rischi: rabbia, nervosismo, impulsività, aggressività, depressioni, violenza, droga. Pertanto la scuola non rimanenendo impassibile, può maturare atteggiamenti improntati all’apertura, al dialogo e alla collaborazione contribuendo alla crescita dell’individuo nella sua totalità.

Naturalmente qui entra in gioco il ruolo dell’insegnante che porta con sé il suo bagaglio emozionale e i suoi atteggiamenti. Come ogni altro essere umano l’insegnante si può lasciare trasportare da antipatie o simpatie o peggio da pregiudizi e stereotipi proiettando sull’alunno aspettative positive o negative creando un effetto alone, inficiando il processo di apprendimento e la conseguente valutazione. L’altro pericolo è denominato effetto Pigmalione, l’insegnante ha delle aspettative sempre positive sull’alunno e lo considera sempre il “migliore” della classe.

    Le emozioni sono parte integrante dell’apprendimento e del clima affettivo relazionale che s’instaura in classe, dunque un insegnante che invece, è in grado di realizzare una comunicazione efficace, che manifesta di comprendere le emozioni e i sentimenti dell’alunno, assume il ruolo di facilitatore dell’apprendimento, di mediatore sociale e organizzatore.

Essere capaci di instaurare un clima democratico basato sul rispetto e l’autorevolezza , dà più risultati rispetto ad un’impostazione autoritaria o permissiva; così anche sostenere la personale inclinazione dell’allievo e le sue capacità, invece di conformarlo e renderlo passivo.

L’autostima e l’autoefficacia rappresentano le due variabili che non possono mancare nell’apprendimento. La gioia  e il piacere di un successo raggiunto determina un “rinforzo emozionale” incoraggiante.

L’insegnante avendo il compito di mediare l’inserimento in classe di soggetti particolari, può andare incontro a certe difficoltà.

    Esempi di casi:

1.    l’ingresso di un nuovo alunno immigrato con ovvie difficoltà linguistiche e stati d’animo conflittuali dovuti, da un lato al senso di colpa verso la propria cultura e, dall’altra la voglia di riuscire ad “integrarsi.

2.    un alunno a rischio psicosociale e avviato verso la dispersione scolastica.

Nel primo caso il processo d’integrazione può avvenire attraverso l’accettazione e l’accoglienza del “nuovo”, il decentramento culturale , l’empatia.

Nel secondo caso, le strategie da adottare sono di natura pedagogica, tendenti a favorire la motivazione ad apprendere, il reinserimento nel gruppo classe attraverso lavori di cooperazione.

ERRORI EDUCATIVI DA EVITARE

Considerato che lo scopo di una buona educazione emotiva è quello di far acquisire al bambino una maggiore capacità di autoregolazione delle emozioni e dei propri comportamenti, l’adulto dovrà agire su due dimensioni, quella interiore e quella esteriore, agendo sulle esperienze.

L’obiettivo principale è diventare capaci di contenere  e modificare gli impulsi anche in assenza di un adulto, poiché i bambini devono essere messi in condizione di saper seguire regole e proibizioni. In questo modo interiorizzano le norme di controllo del comportamento, anche inibendo i propri forti impulsi, in modo da acquisire autonomia e indipendenza.

Gli errori educativi però, in cui gli insegnanti possono incorrere sono:

•    reagire in modo incoerente ai comportamenti del bambino;

•    dare troppo peso ai comportamenti indesiderabili, rimproverando o punendo frequentemente, senza valorizzare con complimenti e lodi i comportamenti desiderabili anche se rari;

•    pretendere che il bambino ubbidisca senza spiegazioni e senza una motivazione;

•    perdere il controllo;

•    fare ricorso alle minacce, fa correre il rischio che si abitui senza ottenere risultati, guastando il rapporto col bambino;

•    cerare di ottenere la collaborazione solo con la promessa di una ricompensa (potrebbe pensare di ottenere gratificazioni facendo opposizione);

•    punire il bambino senza porre l’accento sul comportamento sbagliato;

•    gratificare o punire in momenti e modi sbagliati (esagerando con l’entità del premio e della punizione o se si lascia passare del tempo. Premi e punizioni sono efficaci solo se utilizzati in modo immediato e contingente al comportamento);

•    ricorrere a punizioni eccessive (assegnare più compiti per esempio potrebbe fare nascere l’idea che i compiti sono delle punizioni odiose e non qualcosa di utile per esercitarsi),

•    non ricorrere ad etichette linguistiche, non metterlo in ridicolo o svalutarlo compromettendo la sua autostima.

Premiare i comportamenti desiderabili è positivo, poiché diventano più frequenti e si può evitare di fare continuamente ricorso ai rimproveri.

È bene ricordare che il rinforzo usato per un bambino non è detto che valga per un altro e ciò che ha funzionato in una situazione, non è detto che funzioni in altre situazioni. Inoltre un rinforzo usato troppo spesso perde la sua efficacia.

Oltretutto, alcuni stili educativi sbagliati possono agevolare l’insorgere di una visione irrazionale del mondo.

Anche se non riguardano direttamente l’insegnante, è bene conoscere questi stili educativi  per gestire meglio  il rapporto con i genitori.

Lo stile iperansioso genera nel bambino la convinzione che ovunque ci sono pericoli e che potrebbero succedere cose spiacevoli, divenendo dunque un adulto ansioso.

Lo stile iperprotettivo ostacola la capacità del bambino di tollerare la frustrazione, diventando piuttosto egocentrico e insicuro.

Lo stile ipercritico rende il bambino pieno di paure e con una scarsa autostima, assumendo comportamenti di isolamento sociale e di evitamento.

Lo stile perfezionistico infonde nel bambino la convinzione che riuscirà bene in tutto, ma non riuscirà a tollerare la disapprovazione e il rifiuto.

Lo stile incoerente determina la mancanza di punti di riferimento stabili e da adulto avrà difficoltà a riconoscere comportamenti appropriati o meno.

PROPOSTE D’INTERVENTO SULL’INTELLIGENZA EMOZIONALE A SCUOLA

Per favorire una crescita affettiva armonica nel bambino è stata studiata una procedura psicoeducativa  dallo psicologo Mario Di Pietro, il quale propone di aiutare il bambino a minimizzare l’effetto degli stati d’animo spiacevoli, favorendo l’esperienza e l’espressione di emozioni positive. La procedura denominata RET parte dal presupposto che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che accade, ma soprattutto da come valutiamo ciò che accade intorno a noi e quindi dalle considerazioni che facciamo sugli eventi.

Questa teoria viene definita anche come A-B-C , dove il punto A rappresenta l’attivazione di un qualsiasi evento esterno o interno (o anche entrambi), se prevalgono pensieri realistici e oggettivi arriviamo al punto B e la reazione emotiva sarà adeguata. Al contrario, se prevalgono distorsioni o esagerazioni con eccessiva sofferenza emotiva, ne conseguirà una reazione emotiva disturbata (punto C).http://www.cslogos.it/uploads/images/gestione%20emozioni1/Diapositiva6.jpg

 

 

Con l’educazione razionale-emotiva è possibile prevenire e superare le diffioltà emozionali migliorando la capacità di concentrazione, l’attenzione e la memoria.

Il programma di educazione razionale-emotiva è articolato in tre fasi:

1.    il primo obiettivo è aiutare il bambino a riconoscere e identificare le proprie emozioni, divenendo consapevole del disagio emotivo.

2.    il secondo passo è aiutarlo a capire il rapporto esistente fra come si sente e modo di pensare e perché è portato a pensare in un certo modo.

3.    il terzo obiettivo è l’intervento sui meccanismi mentali passando a modificare il dialogo interiore.

Il dialogo interiore è quel commento che facciamo internamente commentando ogni esperienza personale. Parliamo in continuazione a noi stessi, ma spesso non ne siamo consapevoli.

Il programma di educazione razionale-emotiva riesce a stimolare la motivazione dei bambini, poiché si incoraggiano commentando positivamente i tentativi di cambiare il proprio dialogo interiore. In classe, si possono creare esperienze di apprendimento tramite la cooperazione, capacità che si impara solo mettendola in pratica.

Cooperare vuol dire:

•    raggiungere obiettivi comuni;

•    imparare ad ascoltare gli altri;

•    coordinare con gli altri i propri sforzi;

•    spartire le cose;

•    riconoscere quando qualcuno ha bisogno di aiuto e superare le ostilità.

I contenuti di un programma di educazione razionale-emotiva, in italiano, possono riguardare:

•    saper riconoscere e dare un nome alle emozioni;

•    individuare in un testo scritto le parti che connotano l’emozione;

•    saper descrivere episodi emotivi;

•    arricchimento lessicale attinente alla descrizione di stati emotivi di diversa intensità;

•    distinguere la realtà oggettiva da quella soggettiva;

•    saper mettere alla prova la consistenza logica di un’affermazione;

•    confutare e trasformare i pensieri irrazionali;

•    allenamento al pensiero razionale.

Negli studi sociali si dovrebbero sviluppare:

•    le capacità di conversare, dialogare con gli altri all’interno di un gruppo;

•     discutere ed esprimere le proprie opinioni;

•     dare il proprio contributo nel ricercare e nell’organizzare le risorse necessarie all’attuazione di un progetto comunitario.

È altresì importante favorire nei bambini la disponibilità alla verifica di comportamenti individuali o di gruppo, che ostacolano l’armonia della convivenza.

I contenuti dell’educazione all’immagine dovrebbero essere orientati:

•    al saper riconoscere in un’immagine le emozioni;

•    al saper modificare un’immagine per modificarne il contenuto;

•    saper cogliere le emozioni partendo dai colori;

•    saper esprimere in modo creativo e personale emozioni attraverso particolari tecniche di stesura del colore.

Nell’ educazione musicale insegnare:

•    a conoscere e riconoscere suoni e rumori della natura e dell’ambiente che suscitano emozioni;

•    analizzare le emozioni suscitate dall’ascolto di brani musicali;

•    analizzare le emozioni provocate da particolari ritmi, toni, intensità;

•    produrre suoni e rumori capaci di suscitare particolari stati d’animo.

Le lezioni di scienze potrebbero contenere argomenti che riguardano:

•    riconoscimento di segnali del corpo che preannunciano l’insorgere di una reazione emotiva;

•    imparare ad individuare i correlati neurovegetativi delle emozioni;

•    sviluppare abilità metaemotive .

Alcuni di questi contenuti sono presenti nei libri di testo, quindi il punto sta nello svolgerli aprendo discussioni collettive in classe e non assegnarli come compiti per casa lasciando il bambino da solo.

BIBLIOGRAFIA

Anolli L., Ciceri R. (1997), La voce delle emozioni. Verso una semiosi della comunicazione vocale non-verbale delle emozioni, Franco Angeli, Milano.

Anolli L. (2002) Le emozioni, Edizioni Unicopli, Milano.

Bandura A. (2000), Autoefficacia, Erickson, Trento.

Battacchi M, W. (2004), Lo sviluppo emotivo, Laterza, Roma- Bari.

Craig G. J. (1995), Lo sviluppo umano, Il Mulino, Bologna.

Di Pietro M. (1992), L’educazione razionale-emotiva, Erickson, Trento.

Di Pietro M. (1999), L’ABC delle mie emozioni, Erickson, Trento.

Di Pietro M., Dacomo M. (2007), Giochi e attività sulle emozioni, Erickson, Trento.

Galati D. (1993), Le emozioni primarie, Bollati Boringhieri, Torino.

Gardner H. (1993), Intelligenze multiple, Anabasi, Milano.

Tribulato E. (2005), L’educazione negata, EDAS - Edizioni Antonino Sfameni, Messina.

Versace A. (2004), L’insegnante emozionale. Un viaggio nelle emozioni. Grafiche Scuderi, Messina.

Winnicott D. W. (1992), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma.

 

Le violenze sui minori

 

Non è difficile avere l’immagine mentale dell’aggressività. Essa è fatta di occhi iniettati di sangue a cui segue il bisogno di colpire e fare del male a qualcuno, come può essere una persona o un animale, ma anche a qualcosa, come può essere un oggetto da rompere o distruggere. Essa è fatta di parole che bruciano e scottano più del fuoco, mentre riescono a sconvolgere e atterrire chi le ascolta, più delle azioni. Essa è fatta di gesti che arrecano sofferenza e dolore o che mimano la sofferenza e il dolore che si vorrebbe infliggere all’altro.

Sono occhi e gesti capaci di ferire, lacerare, rompere, distruggere. L’aggressività è fatta, quindi, di comportamenti, che tendono da una parte a far aumentare nell’altro la paura, l’ansia, la frustrazione ed il disgusto, dall’altra servono a scaricare un bisogno interiore di cui a volte ci si vergogna e ci si pente, mentre altre volte si gode degli atti compiuti. Essa è fatta di pensieri e desideri distruttivi che possono arrivare fino ad agognare la morte della persona odiata.

L’aggressività fa parte delle componenti umane e accompagna gli animali e gli uomini fin dalla loro nascita. Dobbiamo, allora, distinguere un’aggressività fisiologica, come quella presente nella collera usata soltanto per difendere il proprio corpo, la propria vita, i propri diritti, i propri bisogni e le persone amate, da un’aggressività patologica, che si mette in moto in occasioni ed in situazioni nelle quali non vi è alcuna minaccia diretta o indiretta verso la persona o verso gli oggetti da questa amati.

 

Non è difficile che un ambiente irritabile e collerico diventi anche un ambiente aggressivo e violento nel quale un minore possa subire maltrattamenti di ogni tipo.

Vi sono fondamentalmente due tipi di maltrattamento:

 

Intanto vi è un maltrattamento psicologico fatto di reiterate violenze verbali o di un’eccessiva pressione psicologica sul minore mediante un’elevata presenza di critiche e rimproveri per ogni suo gesto e per ogni suo comportamento (stile ipercritico). In questi casi il bambino psicologicamente maltrattato è spesso svalutato, schernito, deriso, umiliato e terrorizzato con minacce e punizioni eccessive, prolungate ed ingiuste. Questi genitori e adulti difficilmente notano i comportamenti positivi ed adeguati del bambino, mentre sono sempre pronti a sottolineare ed evidenziare ogni suo errore o difetto. Il minore avverte di essere affettivamente respinto dai genitori e familiari che usano dei comportamenti e dei modelli relazionali che portano la vittima a pensare che valga poco, o che non sia amata e desiderata.

 

Nel maltrattamento fisico, che spesso si associa a quello psicologico, la vittima presenta le conseguenze delle percosse sotto forma di lividi, ematomi, lesioni cutanee, fratture e bruciature, in varie parti del corpo. Queste lesionipossono essere dal punto di vista fisico lievi, quando non necessitano di ricovero; di grado medio, quando è necessario il ricovero ma non vi è pericolo di vita per il bambino; gravi quando il bambino è in serio pericolo di vita o lamenta delle conseguenze importanti sul piano dell’integrità fisica.

Sono più frequentemente maltrattati i minori disabili i quali sono 1,7 volte più a rischio dei bambini normali. E tra questi sono maggiormente abusati i maschi.

Le conseguenze psicologiche del maltrattamento sono numerose e spesso gravi, in quanto è una grave frustrazione e trauma non essere amato e accettato. Per tali motivi si può avere un blocco nell’evoluzione psicoaffettiva del minore, con alterata organizzazione del sé. Frequente è la presenza di un pianto costante, la sfiducia in se stesso ma anche la difficoltà a fidarsi degli altri e, conseguentemente, il rifiuto di contatti fisici o di approcci relazionali. Non mancano le paure e quindi l’eccessiva attenzione ai pericoli dell’ambiente circostante. I bambini oggetti di abuso è come se stessero sempre in guardia contro gli altri. Sono presenti, inoltre, crisi di panico, disturbi dell’apprendimento, dello sviluppo intellettivo, del linguaggio. In questi bambini si può evidenziare una maggiore vulnerabilità alle malattie e la presenza di legami di attaccamento insicuri. Per un certo periodo i minori maltrattati possono presentarsi timidi e remissivi, ma in seguito, soprattutto nella fase adolescenziale, vi è il rischio che diventino, a loro volta, aggressivi e arroganti verso i più piccoli e deboli: “Gli adolescenti che hanno subito abusi da piccoli hanno più del 50% di probabilità di commettere reati violenti rispetto ai loro coetanei, cosa che dipende anche dalla loro frequenza in ambienti degradati”.[1]  Inoltre i bambini maltrattati diventati adulti è facile che, a sua volta, maltrattino i loro figli, per cui il maltrattamento è un fenomeno ripetitivo, che viene trasmesso da una generazione all’altra. Secondo lo stesso autore si potrebbe pensare ad un effetto epigenetico.

“Finora le conseguenze dell’abuso venivano assimilate a quelle legate ad altre forme di grave stress, le quali comportano un’attivazione dell’ipotalamo e dei surreni che producono in forte quantità il cortisolo, l’ormone che caratterizza, insieme ad altre molecole, la reazione a fattori stressanti. Ora però, i risultati di una recente ricerca indicano che gli effetti dell’abuso fisico e sessuale infantile, possono essere ben più gravi di altre forme di traumi o stress e lasciare una vera e propria “impronta genica” che può alterare il funzionamento del cervello, in particolare della corteccia frontale, attraverso dinamiche di tipo “epigenetico”. Il termine “epigenesi” sta ad indicare che i fattori ambientali possono far sì che i geni si comportino (o meglio si esprimano) in modo diverso, senza che i geni stessi si modifichino”.[2]

Le cause delle violenze fisiche da parte degli adulti verso i bambini possono essere diverse. Vi sono:

  1. 1.      Cause educative
  2. 2.      Cause sociali
  3. Cause personali
1.      Cause educative

Queste nascono da una risposta educativa eccessiva e sproporzionata da parte degli adulti a situazioni che possono essere presenti in tutte le famiglie e in tutti i luoghi dove sono presenti dei minori i quali, proprio per la loro età e per lo scarso controllo motorio ed emotivo, possono essere fastidiosi, pasticcioni, rumorosi ecc. Pertanto i maltrattamenti sui bambini possono esercitarsi sia in famiglia sia presso le istituzioni cosiddette “educative” e di “cura e sostegno alle famiglie”, soprattutto quando, come negli asili nido e nei centri per bambini disabili, gli ospiti di queste istituzioni non sono in grado di denunciare le violenze subite, a causa dell’età o degli handicap presenti.

In alcuni di questi ambienti i maltrattamenti fisici e psicologici possono essere utilizzati in maniera sistematica allo scopo di adeguare o correggere i comportamenti dei minori ritenuti pericolosi o non opportuni e adeguati al vivere sociale. Per fortuna, mentre in passato l’uso dei maltrattamenti fisici era frequente e sistematico, attualmente tali comportamenti sono nettamente diminuiti, in quando si è compreso che la violenza fisica stimola delle reazioni emotive che impediscono al bambino la interiorizzazione delle norme. In definitiva il bambino esegue quanto richiesto non perché ne sia convinto ma solo per evitare la punizione ed il dolore fisico. Pertanto, nel momento in cui pensa che può evitare la punizione, ritorna ad utilizzare il comportamento primitivo.

2.      Cause sociali

 Spesso i maltrattamenti fisici e psicologici si attuano per altri motivi che nulla hanno a che fare con le necessità educative. Possono provocare comportamenti aggressivi e violenti lo stress e l’eccessiva tensione nervosa, causati da rapporti coniugali o familiari conflittuali; da sovrabbondanti impegni lavorativi; da difficoltà economiche; da isolamento ed emarginazione dal contesto sociale; da condizioni abitative inadeguate; da presenza di famiglie monoparentali (ragazze madri, genitori single, divorziati, vedovi). Inoltre, oggi che i rapporti sentimentali sono spesso allargati ad amanti e “amici particolari”, la tensione interiore e l’eccessivo stress possono essere causati dalle difficoltà e dalle frustrazioni nel gestire questi legami alternativi, che presentano notevoli caratteristiche di variabilità e fluidità, ma che, sul piano emotivo, possono essere altrettanto coinvolgenti dei legami duraturi e stabili.

3.      Cause personali

In alcuni casi l’aggressività sui minori può essere provocata da adulti che presentano problematiche psicologiche, esistenziali e sociali. Questi adulti gestiscono con notevoli difficoltà le normali attività di cura necessarie per un bambino. Queste difficoltà si ampliano notevolmente quando il minore presenta delle problematiche, come patologie neonatali, malattie croniche, disabilità fisiche e psichiche, gravi problemi dell’apprendimento, pianto continuo, disturbi delle condotte alimentari, eccessiva irrequietezza, comportamenti distruttivi e violenti. Non vi è dubbio che la difficile gestione di queste ed altre problematiche comporti, nei genitori o nelle persone più immature e psicologicamente fragili che hanno in cura il bambino, uno stato di stress il quale, travalicando facilmente le loro capacità di autocontrollo, si trasforma in atteggiamenti o comportamenti aggressivi e rabbiosi. Questi atteggiamenti, è bene dirlo, spesso non sono né voluti né desiderati, tanto che lasciano nell’animo di questi adulti notevoli sensi di colpa che aggravano la loro precaria ed instabile condizione psichica.

Gli adulti che nel loro rapporto educativo più facilmente tendono ad effettuare violenza sui minori, in quanto non sono in grado di gestire le proprie emozioni ed i propri impulsi aggressivi e distruttivi, presentano spesso problematiche psicologiche e sociali di vario tipo: carenze affettive e relazionali, disturbi notevoli della personalità, tossicodipendenza, malattie nevrotiche o psicotiche, disadattamento sociale. Nella loro storia personale ritroviamo frequentemente conflitti e crisi coniugali, separazioni, condizioni socio-economiche scadenti, emigrazione, coinvolgimenti giudiziari, assenza di valori di riferimento.

La stessa difficoltà nel controllo delle pulsioni aggressive è stata evidenziata nei genitori o familiari troppo giovani o, al contrario, troppo avanti negli anni e nelle famiglie monoparentali.

I racconti di Marcello

 I racconti di Marcello, un bambino di sei anni, sono un vivido ritratto dell’ambiente familiare e scolastico nel quale viveva e con il quale era costretto a relazionarsi giornalmente.

 

Primo racconto

C’era una volta un deficiente che si chiamava Gianmarco. Un giorno la madre gli ha detto: “non buttare quella pianta se no ti ammazzo”, lui che era un deficiente è andato in balcone e butta la pianta sotto, e pensa: “Ora mia mamma mi ammazza”. C’era un aeroplano e disse: “Ancora peggio perché la pianta può rompere l’aeroplano”. L’aeroplano si è schiantato nel palazzo sono morte duemila persone. La madre disse: “È andata la casa a fuoco?”, e il bambino disse di sì. La madre l’ha buttato dalla finestra.

Secondo racconto

C’era una volta il mio compagno Stello. Una volta aveva fatto una scemenza stupida -stupida. Noi abbiamo un balcone a scuola. Lui ha fatto uscire la maestra, ha preso le piante e le ha buttate fuori. E la maestra lo ha rimproverato e mandato dal direttore. Una volta ha fatto lo stupido e la maestra ha chiamato la madre che lo stava ‘miscando” (picchiando). Lui è entrato come un cagnolino. Il direttore ha chiamato la mamma, che gli ha alzato le mani e lui è morto. Lo hanno sepolto a scuola e ai funerali hanno chiamato anche le autorità degli Stati Uniti.

Terzo racconto

C’era una volta Cristiano Bestia. Un giorno è voluto andare dalla maestra e gli ha chiesto: “Posso andare in bagno?” E la maestra gli dice: “No! Te lo scordi!” E poi Cristiano si fa la pipì addosso. Hanno dovuto chiamare i pompieri e gli hanno dato una mutanda dei pompieri. Stava scrivendo un compito di matematica e doveva fare 1+1, lui pensa quanto fa e scrive 1000. Così la maestra di matematica lo ha sbattuto fuori e gli ha rotto la testa. La maestra ha chiamato sua mamma e gli ha detto: ”Lo scriva in un’altra scuola!” Sua mamma è grossa e a Cristiano gli ha dato una botta facendolo sbattere (fuori) dalla finestra. Sotto c’era un’autombulanza, l’hanno messo lì e ricoverato al pronto soccorso. Era tutto rotto tranne il cuore. L’hanno dimesso sulla sedia a rotelle. È tornato a scuola e gli ha chiesto di nuovo alla maestra se poteva uscire e la maestra gli ha dato un altro schiaffo e l’hanno ricoverato di nuovo. Ritornato di nuovo a scuola con la sedia a rotelle, ha chiesto di nuovo di uscire, l’hanno sbattuto al muro e alla fine muore.

Quarto racconto

C’era una volta Stello e sua madre, che erano andati al mare e poi Stello ha chiesto alla madre se poteva fare il bagno ed è annegato, perché non sapeva nuotare. Sua mamma lo ha chiamato: “Vieni qui cretino!” E gli ha dato una timpulata (uno schiaffo), e così lui è morto nel mare. C’era il suo fantasma, sua mamma si è spaventata e gli ha dato un calcio. Lui è morto di nuovo e la cosa si è ripetuta tante volte.

Quinto racconto

C’era un ragazzo di nome Giacomo di un anno. La mamma esce a fare la spesa il bambino accende il fornello e incendia tutta la casa. Poi si arrampica al balcone e si butta giù, facendosi malissimo al cervello. Il pompiere arriva e dice: “Ma che cavolo fai?” Muore. Lo portano in chiesa e al cimitero. Poi il suo fantasma ripercorre la stessa storia per duecento volte e poi muore per sempre.

Sesto racconto: Desiderio di adozione

“C’era una volta un bambino che si chiamava Marco e si era perso. Un giorno ha trovato una casa e ha pensato di entrarci. C’erano tante cose vecchie e poi è uscito a giocare. Poi si è annoiato e se ne andato nel bosco. Nel bosco c’erano un maschio e una femmina grandi. Hanno trovato questo bambino ed hanno pensato di adottarlo. Sono tornati a casa e il bambino non era più solo”.

I racconti di Marcello non hanno bisogno di molti commenti, in quanto la quotidiana realtà di un certo tipo di scuola e di famiglia ne esce vivida e realistica: le botte, gli schiaffi, le aggressioni fisiche e verbali descrivono un ambiente e dei comportamenti educativi sicuramente poco consoni allo sviluppo di un bambino di sei anni. Come si può notare dai racconti, gli adulti: la madre, l’insegnante, il direttore, non sono mai sotto accusa. Sotto accusa sono gli stessi bambini, cioè le vittime. Come dice Giancarlo Tirendi: “L’odio provato per il genitore maltrattante verrà spostato su altri oggetti, consentendo così di conservare una buona relazione con il padre (o la madre) a livello cosciente”.[3]

L’ultimo racconto è però molto diverso dagli altri. In questo il protagonista: Marco, sente prepotentemente il bisogno di allontanarsi dalla sua famiglia nella quale vi era un clima violento. Tanto che inizialmente si accontenta di restare da solo. Solo successivamente emerge il desiderio di cercare una coppia di genitori diversi dai suoi che possano adottarlo.  

Lupi travestiti d’agnelli

“C’era una volta un lupo che passeggiava e in giro c’era un agnellino. Questo lupo si nascondeva e diceva all’agnellino: “Sei carino e bellino e da mangiare!” L’agnellino impaurito, va dai genitori che poi vanno a chiedere spiegazioni al lupo: lui risponde che non è vero che voleva mangiarlo.

Il lupo esce dalla tana, va dall’agnellino e gli dice: “Hai detto ai tuoi genitori che ti voglio mangiare?” “Sì dice l’agnellino”. Poi arriva il cucciolo del lupo e dice al padre che non può mangiare l’agnellino perché sennò i genitori dell’agnellino lo cercheranno. Così il lupo grande non lo mangia. Così gli dice il lupo piccolo: “L’agnellino è mio amico, se voglio te lo faccio mangiare”. Una sera spunta il lupo, l’agnellino era con i genitori. Il lupo saluta i genitori e loro ricambiano. I genitori volevano sapere come mai lui non avesse mangiato l’agnellino, perché i genitori erano anch’essi dei lupi travestiti da agnelli. Alla fine si sono tolti i travestimenti e hanno mangiato tutti l’agnellino.

Da notare intanto in questo racconto di un altro bambino, Tonino, come le parole più frequenti siano: “lupi, mangiare ed agnellino”. Queste tre parole colorano di notevole, incredibile violenza e angoscia tutto il racconto. La seconda cosa da evidenziare è che i personaggi hanno continuamente degli atteggiamenti ambivalenti: a volte sembra vogliano proteggere la piccola, fragile vittima, mentre in altri momenti la tradiscono o sono ansiosi di aggredirla e sbranarla o farla sbranare. Pertanto, insieme alla paura della violenza estrema nel bambino: l’essere mangiato, pur essendo buono, piccolo e docile come un agnellino, vi è l’assenza di ogni speranza e di ogni fiducia negli altri, anche nei cosiddetti “amici” che sono pronti in ogni momento a tradirti. Il lupacchiotto che sembra proteggere in un primo momento l’agnellino (Poi arriva il cucciolo del lupo e dice al padre che non può mangiare l’agnellino perché sennò i genitori dell’agnellino lo cercheranno) un momento dopoè pronto a darlo in pasto alle sue fauci (L’agnellino è mio amico, se voglio te lo faccio mangiare). Questa sfiducia si allarga, in un terribile crescendo, anche ai propri genitori! (perché i genitori erano anch’essi dei lupi travestiti da agnelli. Alla fine si sono tolti i travestimenti e hanno mangiato tutti l’agnellino).

Tutto ciò rispecchia le realtà interiori di questi bambini i quali, in seguito ai comportamenti dei genitori e degli adulti aggressivi, perdono ogni punto di riferimento affettivo e ogni sicurezza nell’ambiente che li circonda. Quali certezze avere, su chi e su che cosa poter contare e avere fiducia, quando le persone che lo picchiano frequentemente nei momenti di irritazione ed insofferenza sono le stesse che in altri momenti lo hanno abbracciato, baciato e consolato?

Un cuore stanco di essere picchiato.

Le violenze subite da Daniela prima dell’adozione si riflettono in questa storia:

“C’era una volta un cuore che era stanco di essere picchiato dai suoi genitori. Lo picchiavano perché combinava guai. Il cuore è andato via e si è sposato, ha avuto dei figli: una si chiamava Emanuela e l’altro si chiamava Marco. Dopo ha avuto una famiglia tanto bella perché andavano d’accordo e non picchiavano mai i figli, ( a me non piace quando picchiano i figli!) E vissero tutti felici e contenti.”

 

Innanzi tutto è da notare come la bambina metta in evidenza non il dolore del corpo che subisce le botte dei suoi genitori ma il cuore (c’era una volta un cuore che era stanco di essere picchiato dai suoi genitori), come a voler sottolineare che la cosa che soffre di più, in seguito alle violenze subite è soprattutto l’animo del bambino. Anche questa bambina, almeno in parte giustifica queste violenze (lo picchiavano perché combinava guai). La bambina cerca di sfuggire a questo ambiente violento, sognando di sposarsi ed avere dei figli e quindi avere una famiglia propria nella quale non si picchiano i bambini ed i genitori vanno d’accordo. Famiglia che rispecchia, in realtà, quella adottiva dove la bambina ormai viveva (Dopo ha avuto una famiglia tanto bella perché andavano d’accordo e non picchiavano mai i figli).

 

Possibili conseguenze  sui minori

 

  1. Qualsiasi forma di violenza può comportare nella personalità in formazione, delle conseguenze psicologiche e relazionali a breve, medio e lungo termine, sul processo di crescita e, conseguentemente, dei disturbi psicopatologici o devianze nell'età adulta. I bambini sottoposti a frequenti episodi di aggressività e/o violenza, evidenziano spesso paure, tristezza, irrequietezza, scarso rendimento scolastico, disturbi dell'attenzione, perdita di fiducia in se stessi ma anche negli altri, senso d’impotenza, disperazione, tendenza all’isolamento, difficoltà nelle relazioni intime. I sintomi più gravi possono presentarsi sotto forma di amnesie, alterazioni dello stato di coscienza, disforie, autolesionismo, rabbia esplosiva o inibizione.
  2. Per quanto riguarda la gravità del danno causato da un ambiente violento, questa è tanto maggiore quanto più piccolo è il bambino e quanto più duratura è l’esposizione all’ambiente traumatico. L’esperienza ci dimostra però che se si riescono a modificare, mediante interventi opportuni, le condizioni nelle quali vive il bambino, i disturbi presentati dal minore recedono rapidamente anche se non completamente.
  3. Per quanto riguarda le dinamiche che si realizzano in seguito ai comportamenti aggressivi da parte dei genitori o da parte degli altri educatori ed adulti con i quali è in contatto il bambino, si possono configurare varie situazioni:

 

  • Intanto vi può essere un’accettazione del giudizio negativo dato dagli adulti: “Se i miei genitori, la mia insegnante o i miei nonni, mi puniscono così frequentemente e così severamente, devo essere veramente molto cattivo”. Si può avere pertanto, da parte del bambino, una notevole perdita dell’autostima ed un’accettazione dell’immagine negativa che proviene dal suo alterato ambiente di vita.
  • In alcuni casi, viceversa, il bambino può pensare di essere lui “buono”, mentre invece ha dei genitori o dei familiari e altri educatori “cattivi”. In queste situazioni si può instaurare un problema di perdita. Un genitore, un padre o una madre sono per definizione buoni. Un genitore cattivo è un falso genitore, un finto genitore che non esiste o che, se esiste, è meglio che gli succeda qualcosa di grave, è meglio che muoia, così da non poter più nuocere. Ma poiché è difficile che questo tipo di desideri così punitivi e distruttivi, sia accettato dal super Io del bambino, è facile che per evitare gravi sensi di colpa, il suo Io cerchi in tutti i modi di rimuovere questi pensieri e desideri nell’inconscio. Pertanto, l’ansia consequenziale a questi pensieri negativi continuerà a persistere e si potrà manifestare mediante comportamenti e sintomi esattamente opposti al desiderio iniziale. Ad esempio, il bambino potrà evidenziare un’intensa paura che il papà, che è stato aggressivo con lui, muoia o si faccia del male. Questo timore lo potrà portare ad avere un’attenzione eccessiva e patologica nei confronti di questo genitore.
  • In altri casi questi desideri negativi e distruttivi possono condurre ad una grave disistima ma anche a comportamenti autopunitivi: “Se io ho pensieri di questo genere sono un pessimo bambino e quindi è giusto che soffra e che gli altri mi puniscano”.
  • Un’altra modalità utilizzata dai bambini quando avvertono che un genitore è “cattivo”, è quella di far coppia con l’altro genitore. “Se papà è cattivo, la mamma che è buona, ha bisogno di un uomo affettuoso e comprensivo accanto a sé: io voglio essere quest’uomo buono che vuole bene alla mamma senza mai farla soffrire o abbandonarla”. In questi casi il legame con la madre viene rafforzato e rischia di perpetuarsi anche nell’età adulta, quando dovrebbe essere sostituito da legami amorosi e affettivi vissuti all’esterno del nucleo familiare.
  • Vi è poi un’ulteriore modalità di vivere l’aggressività genitoriale che è quella di far propri i comportamenti educativi dei genitori e degli adulti pensando, erroneamente, che essere genitori ed adulti significa far soffrire i figli e i bambini a loro affidati. In questo caso viene ad essere compromesso nel bambino il suo futuro ruolo di genitore e di educatore. Pertanto, il danno ricevuto si trasferirà nel tempo ad altri esseri umani.
  • Inoltre, come nel racconto del lupo e dell’agnellino, il bambino osservando nei genitori e negli adulti dei comportamenti notevolmente contrastanti rischia di perdere ogni punto di riferimento affettivo e ogni sicurezza nei riguardi dell’ambiente che lo circonda.

 

 Le violenze esercitate da altri minori: il bullismo

Le violenze sui minori possono essere causate dagli adulti ma anche da altri minori.

Le violenze fisiche esercitate da altri minori possono essere causate da scontri fisici personali; da scontri tra gruppi e bande o da manifestazioni di bullismo.

Quest’ultimo tipo di violenza è stato sempre presente in ogni comunità: scuola, collegio o convitto, dove sono costretti a convivere molti bambini. In questi ambienti è facile che un altro ragazzo, o più spesso un gruppo di ragazzi, prenda di mira un coetaneo o un bambino più piccolo, immaturo e debole o con problemi fisici e/o psichici, mediante una serie di prepotenze e attacchi aggressivi, sia fisici sia verbali. Caratterizza, quindi, questo tipo di violenza, l’intenzionalità nel fare del male e il persistere nel tempo di queste azioni offensive da parte di uno o più minori della stessa età o più grandi, su uno o più minori.

La violenza viene esercitata mediante scherzi, beffe, esclusioni dal gruppo amicale, appropriazione e distruzione degli oggetti del bambino o dei bambini vittima dei compagni, ma anche da spintoni, minacce, insulti, ricatti e, a volte, violenze sessuali. La povera vittima è costretta a subire in silenzio tutto ciò, per timore di rappresaglie ancora più pesanti e dolorose. Non v’è dubbio che questo comportamento sia odioso ma, purtroppo, è molto frequente nelle scuole e in tutte le comunità dove bambini, ragazzi e giovani si ritrovano costantemente insieme.

Questi comportamenti a volte sono considerati degli scherzi innocenti, ma non sono affatto tali, in quanto possono causare, nel bambino o nel ragazzo che li subisce sofferenze notevoli fatte da frustrazione, senso di solitudine e di esclusione, disturbi psicosomatici, alterazioni del sonno, ansia generalizzata, attacchi di panico, difficoltà di concentrazione sulle materie scolastiche con conseguente calo nel rendimento scolastico, e, a volte, timori talmente intensi nel dover affrontare giorno dopo giorno i molestatori da spingere la vittima a rifiutare di andare a scuola. Queste odiose persecuzioni possono condurre ad uno scarso livello di autostima, concomitante ad una visione negativa di se stessi e delle proprie capacità, a depressione, insicurezza, a comportamenti autolesivi, al ritiro in se stessi, ma anche, per fortuna in rari casi, al suicidio.

Chi subisce prevaricazioni può, a sua volta, reagire in modo aggressivo nei confronti di altri coetanei sia per scaricare l’aggressività repressa a causa delle angherie subite, sia per recuperare prestigio all’interno del gruppo. Questi atteggiamenti persecutori possono essere già attuati nelle prime classi della scuola elementare ad un’età di sette-otto anni, ma possono essere presenti durante tutto il ciclo scolastico.

Il bullismo è appannaggio di entrambi i sessi, anche se i maschi tendono a perseguitare le loro vittime utilizzando soprattutto attacchi fisici: pugni, spintoni, schiaffi, pizzicotti, mentre le femmine, più frequentemente, tendono ad usare prevalentemente armi verbali e comportamenti di esclusione.

Purtroppo questo fenomeno non è legato a particolari ceti sociali, ed è particolarmente frequente in Italia. Come nota Fonzi[4]:

“Ciò che in primo luogo emerge è che il bullismo risulta in Italia molto più elevato che altrove, sia per quanto riguarda la percentuale dei prepotenti che quella delle vittime […,] In definitiva, l’alta incidenza del bullismo in Italia, se messa a confronto con quella degli altri paesi, sembra essere un fatto reale, che almeno in parte può essere ricondotto a differenze culturali. Noi riteniamo che nella nostra cultura le manifestazioni di conflitto siano più tollerate e che meno frequentemente portino alla rottura dei rapporti”.

Vi sono diversi tipi di bulli, così come vi sono diversi tipi di vittime.

Oliverio Ferraris e Olweus[5] distinguono:

  • il bullo aggressivo. È il più diffuso. Si presenta come un bambino fisicamente forte, impulsivo, sicuro di sé, con un forte desiderio di dominare gli altri. Appare come insensibile ai sentimenti altrui e considera la violenza come una cosa positiva. Questo tipo di bullo gode di grande popolarità tra i compagni e spesso si accompagna a dei gregari che gli danno man forte, in quanto, almeno inizialmente, suscita timore e ammirazione presso gli altri coetanei;
  • il bullo passivo o gregario . Questi non prende l’iniziativa di far del male alla vittima, ma appoggia e si aggrega ai bulli. Partecipa parzialmente e, qualche volta, si limita ad assistere. Non è particolarmente aggressivo, è sensibile ai sentimenti altrui e si sente in colpa dopo aver agito, cosicché è disponibile a confessare il deprecabile comportamento del gruppo dei bulli aggressivi;
  • il bullo ansioso. Èil meno sicuro e il più problematico. Può attaccare bambini e ragazzi più forti di lui, facendosi aiutare dai gregari, pur di poter esprimere, in qualunque modo, la sua aggressività.

Gli stessi autori distinguono due tipi di vittime:

  • le vittime passive. Queste sono rappresentate da bambini riservati, facili al pianto, senza amici, insicuri, ansiosi, fisicamente poco forti. Se si tratta di femminucce queste sono meno abili nel difendersi con le parole agli insulti, ai pettegolezzi e al vocio denigratorio delle compagne. Per cui tra il bullo e la vittima vi è sempre asimmetria per prestigio e per potere.
  • le vittime provocatrici. Queste vittime sono composte da bambini ansiosi, che si comportano in modo irritante e provocatorio. Questi minori appaiono più deboli dei bulli, sono impulsivi e sono anche capaci di attaccare, ma reagiscono in modi poco efficaci, diventando vittime dei compagni più prepotenti e più determinati di loro.

I minori che tendono a prevaricare sono descritti dai vari autori che hanno studiato questo fenomeno come bambini estremamente ansiosi e insicuri, che presentano indifferenza, scarsa empatia e mancanza di coinvolgimento emotivo nei confronti delle vittime. Bambini carenti di autorealizzazione e autostima, frustrati da esperienze scolastiche negative, con disordini cognitivi e socialmente incompetenti. Sono descritti, inoltre, come bambini alla ricerca di un rinforzo compensativo a causa di inadeguato soddisfacimento di uno o più bisogni interiori. Questi minori hanno genitori che, pur usando e abusando nell’imporre la disciplina di punizioni fisiche, non riescono in alcun modo a contenere i comportamenti aggressivi dei figli. Censi[6]  nota che nel bullismo “il venir meno di finalità socialmente apprezzate e di un sistema forte di obiettivi può condurre a forme di apatia emotiva. Un analfabetismo dei sentimenti che può condurre ad azioni deprivate di principi: l’indifferenza programmata, la violenza immotivata, la sopraffazione insensata”.

Le vittime sono descritte da Giorgi e altri[7] come “prudenti”, piuttosto “sensibili” e genericamente “tranquille”. Quando gli alunni-vittime sono di sesso maschile tendono ad essere fisicamente meno prestanti e più deboli, a livello di forza fisica, dei loro aggressori.

Interventi

 Sappiamo che gli interventi da parte dei docenti e delle autorità scolastiche sono difficili, in quanto i ragazzi vittima di bullismo, non avendo molta fiducia nell’aiuto degli adulti non sempre sono disposti a denunciare gli abusi subiti. Ma anche quando questo avviene i docenti si trovano in difficoltà in quanto poco o nulla ottengono punendo con maggiore severità gli aggressori, mentre non riescono a coinvolgere i loro genitori, per definire un’azione educativa concordata, in quanto questi tendono spesso a difendere e proteggere i comportamenti dei loro figli in ogni caso e con tutti i mezzi, per evitare di sentirsi in colpa loro stessi.

Gli interventi da predisporre per affrontare questa problematica devono necessariamente tener conto di alcuni elementi:

  1. Le manifestazioni aggressive hanno quasi sempre un substrato fatto di errori nello stile educativo ma anche e soprattutto nascono da ambienti familiari scarsamente idonei allo sviluppo di un minore. Il piacere di far del male ad una persona più debole, l’apparente insensibilità verso la sua sofferenza presuppongono, quindi, molto spesso, la presenza di disturbi psicoaffettivi capaci di minare la normale sensibilità del bambino. È allora necessario innanzitutto affrontare, con l’aiuto di esperti neuropsichiatri e psicologi, la patologia che sottostà a questo tipo di comportamenti.
  2. Quando questi bambini aggressivi avvertono che gli altri non li considerano bambini “cattivi” ma bambini che per vari motivi manifestano in questo modo la loro sofferenza, il loro atteggiamento cambia sostanzialmente in quanto sentono che qualcuno è interessato finalmente al loro malessere e non soltanto a quello che essi procurano agli altri, con i loro comportamenti.
  3. Il rapporto con la famiglia del bullo non dovrebbe consistere nel raccontare ai loro genitori le malefatte del figlio, in quanto ciò contribuirebbe a metterli ancora più in crisi, peggiorando il loro già difficile rapporto con il figlio. Sarebbe importante, invece, aiutarli a meglio capire e aiutare il loro figlio mediante dei colloqui di supporto e di sostegno.
La violenza sessuale

Nell’ambito delle violenze sui minori bisogna includere le violenze sessuali

La sessualità, come tutte le altre funzioni umane, può essere vissuta con piacere e gioia, per cui può contribuire allo sviluppo del minore, oppure può essere avvertita con frustrazione, dolore, vergogna e delusione, tanto da rendere squallida e triste l’esistenza della persona.

L’essere umano è sessuato sin dalla sua origine. Egli già porta nei suoi geni, nei suoi ormoni, nella struttura anatomica del suo corpo, nel suo cervello, le caratteristiche specifiche di un sesso. Inoltre, il bambino, fin dalla nascita, vive in un mondo nel quale la sessualità sua e degli altri è sempre attiva e presente. Pertanto fin dalla nascita egli si relaziona costantemente con la sua sessualità o con quella degli altri. Fin dalla nascita la usa per provare piacere, per dare piacere, per incontrarsi, dialogare e relazionarsi con le persone che incontra come maschietto o come femminuccia. La sessualità, pertanto, condiziona notevolmente il rapporto che il bambino ha con se stesso e l’insieme di relazioni che egli ha con il prossimo. Il compito dei genitori e degli adulti, quindi non è quello di evitare o di concedere che il bambino si accosti alla sessualità, ma quello di permettere che il bambino sviluppi e utilizzi nella maniera più opportuna, le potenzialità insite in questa preziosa funzione.

Affinché si raggiungano questi obiettivi è necessario rispettare la sua normale evoluzione fisiologica, senza eccessivi controlli e limiti, ma anche senza eccessivi stimoli o atteggiamenti semplicistici e falsamente liberali, che ne svierebbero gli scopi e le funzioni. Il sano sviluppo della sessualità viene rispettato quando si permette al bambino di conoscerla, viverla ed esprimerla nei modi e nei tempi opportuni e caratteristici per l’età.

Si parla di abuso sessuale quando la vittima, alla quale manca la consapevolezza delle proprie azioni e la possibilità di scegliere, viene coinvolta in attività sessuali o assiste ad atti sessuali effettuati da altri. Gli abusi sessuali sul bambino possono essere attuati da genitori o altri adulti ma anche da fratelli e sorelle. Non sempre questi abusi sono manifesti, a volte sono mascherati da pratiche genitali come pulizie eccessive, visite ecc. Dovremmo, pertanto, essere consapevoli che la mancanza di rispetto per le possibilità e le capacità del bambino di gestire al meglio gli stimoli sessuali che lo circondano, può provocare dei gravi danni alla sua vita affettivo-relazionale e sociale. Inoltre, proprio perché l’uso o l’abuso della sessualità può condizionare la vita emotiva e sociale dell’essere umano, compito di tutti gli adulti responsabili, e non solo dei genitori, dovrebbe essere quello di aiutare il bambino a viverla nel modo più autentico e ricco possibile, evitando di involgarire e banalizzare una funzione così importante e basilare.

L’abuso sessuale comporta problemi legati alla sessualità, sintomi post-traumatici, riduzione della socialità, tendenza all’isolamento, scarse relazioni tra pari, mancanza di fiducia negli adulti, percezione di sé come diverso e così via.

Per quanto riguarda le persone che abusano non si tratta di “mostri” come spesso sono descritti ma di normali esseri umani che per situazioni di miseria morale e spirituale, svantaggio sociale, frustrazioni o inibizioni, carenza o mancanza di codici etici o per situazioni economiche particolarmente svantaggiate che costringono alla promiscuità in spazi ristretti, non riescono a controllare i propri impulsi sessuali. In altri casi si tratta di persone che ritengono, erroneamente, che non sia dannoso compiere atti e gesti di tipo sessuale nei confronti dei minori.

D’altra parte, così come sono da condannare i rapporti sessuali precoci con i coetanei e gli adulti, non importa se pedofili o no, si dovrebbero allo stesso modo condannare i contatti con immagini, parole, argomenti e scene nei quali il bambino viene posto di fronte a delle realtà, verso le quali non ha ancora la necessaria maturità per una corretta comprensione e gestione emotiva e sociale. Tra l’altro, questo continuo afflusso di scene, immagini e contenuti osceni o a chiaro sfondo sessuale, provenienti dai mass media, impedisce l’instaurarsi del periodo di latenza descritto da Freud, nel quale il bambino dovrebbe essere maggiormente assorbito dai compiti evolutivi associati all’apprendimento e alla scoperta del mondo

Per quanto riguarda gli aspetti legali degli abusi sessuali non è mai troppa la prudenza che si dovrebbe avere nell’accusare qualcuno di questi crimini, in quanto il danno che si può procurare ai singoli presunti colpevoli e alle loro famiglie è notevole, mentre d’altra parte non sempre la testimonianza dei minori è probante in quanto la memoria infantile può essere inquinata facilmente da conflitti inconsci, da esperienze pregresse, da fantasie, e dagli interventi degli adulti che lo interrogano, in quanto i piccoli accettano facilmente che il punto di vista dell’adulto sia più veritiero del loro e d’altra parte preferiscono non contraddire gli adulti, specie se queste sono delle figure di attaccamento.[8] Come dicono De Ajuriaguerra e Marcelli[9]: “…non vi è nulla di più difficile in questo campo del distinguere tra aggressione e fantasma di aggressione”.

Il primo caso che abbiamo dovuto affrontare di presunto abuso sessuale ne è un esempio:

Quando la nostra équipe fu chiamata d’urgenza dalla direttrice di una scuola elementare pensavamo si trattasse di uno dei soliti problemi di difficile gestione riguardanti qualche bambino particolarmente aggressivo e turbolento. Nel momento in cui l’inquieta direttrice ci espose il problema: una bambina di seconda elementare accusava il suo maestro di carezze intime, restammo per qualche momento sgomenti. Queste carezze venivano praticate, a detta della bambina, quando il maestro, per proiettare delle diapositive, oscurava l’aula abbassando le tapparelle.

Il primo dubbio su quanto raccontato dalla bambina l’avemmo conoscendo il nome del maestro. Questi aveva frequentato per qualche tempo la nostra équipe come volontario e quindi conoscevamo bene la sua serietà ed affidabilità. Il secondo e più importante dubbio nacque invece proprio dalle caratteristiche psicologiche della bambina, che avevamo seguito precedentemente per problemi relazionali e comportamentali. Inoltre conoscevamo anche la madre di questa, che era in cura presso il nostro servizio di salute mentale. Madre che aveva una vita turbolenta tanto che spesso si accompagnava a pagamento con amici generosi. Riuscimmo però a scagionare il maestro in modo definitivo solo quando potemmo appurare che mai il maestro aveva fatto vedere delle diapositive alla sua classe, mentre, d’altra parte le serrande da anni non potevano essere abbassate in quanto, essendo guaste, erano bloccate in alto.

Il maestro era stato, in questo caso, particolarmente fortunato perché vi erano tutta una serie di elementi che lo scagionavano subito e completamente. Ma quanti problemi legali avrebbe avuto e per quanto tempo se questo non fosse successo? In questo caso anche i motivi che avevano portato la bambina ad accusare il maestro erano facili da capire. Come può una figlia considerare in maniera serena e positiva gli uomini quando ogni giorno vedeva con i propri occhi come questi utilizzassero la madre solo per il proprio piacere?

L’incesto

Le relazioni incestuose possono coinvolgere il padre con la figlia, la madre con il figlio, il fratello con la sorella, ma esistono anche, sebbene più rare, relazioni incestuose di tipo omosessuale.

Le relazione incestuose, se da una parte possono provocare un danno genetico nella specie in quanto con l’aumentare della consanguineità tra i genitori aumentano le probabilità della comparsa di malattie ereditarie rare e recessive, dall’altra instaurano nel minore problematiche psicologiche che frequentemente si manifestano con l’instaurarsi di una personalità nevrotica, mentre nel contempo limitano la sua autonomia affettiva, sessuale e sociale.

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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A

[1] Oliverio A., (2008), “Abusi e DNA”,  Mente e cervello, , psicologia contemporanea, settembre-ottobre, p. 69.

[2] Oliverio A., (2008), “Abusi e DNA”,  Mente e cervello, , psicologia contemporanea, settembre-ottobre, p. 70.

[3] Tirendi Giancarlo, “Il maltrattamento infantile: semplice violenza o patologia?”, Solidarietà, anno IX N° 24, p. 96.

[4] Fonzi,  A., (1997-1998), “Il bullismo in Italia”, Psicologia e scuola,  n°89, Anno diciottesimo, dicembre –gennaio, pp. 4-5.

[5] Oliverio Ferraris A., (2005), Non solo Amore, Firenze, Giunti Demetra, p. 57.

[6] Censi, A., (2010), “Bambini. Dalla violenza alla cura”, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza,  vol. 77, p. 225.

[7] Giorgi, R., et al., “Bullismo: analisi e prevenzione del fenomeno”, Attualità in psicologia, Volume 15, n. 2, p. 174.

[8] Oliverio A., (2007), “Testimoni fragili”, Mente e cervello, n° 31, luglio, p. 16.

[9] De Ajuriaguerra J.,  Marcelli D., (1986), Psicopatologia del bambino, Milano, Masson Italia  Editori, p. 203.

 

 

 

 
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