INFANZIA E ADOLESCENZA

Latest Tips & Tricks About Baby Care

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Le ricerche semplici

 

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L’utilità delle ricerche appare scontata se si tiene conto che rispondono molto bene ai requisiti fondamentali di ogni attività educativa e culturale. Storia, geografia, scienze, matematica, italiano ecc. trovano nelle ricerche un motivo di approfondimento, di interesse e di maggiore chiarezza. Questo tipo di attività può essere effettuato  a qualunque livello e adattato ad una enorme varietà di bambini. Lo stesso schema di ricerca, variando il contenuto, può essere utilizzato in tutte le classi scolastiche: dalla materna alle superiori. Questa modalità di apprendimento è inoltre preziosa per quegli insegnanti che vogliono far partecipare il bambino disabile alle attività della classe.

A differenza del libro di testo le ricerche stimolano lo studente ad essere attivo nell’apprendimento; lo invitano alla scoperta e al ragionamento; possono essere graduate, strutturandole adeguatamente per bambini di ogni età e capacità intellettiva.

Quando poi le ricerche sono effettuate in maniera semplice e schematica come quelle da noi proposte, l’attività richiesta è molto breve e può essere effettuata rapidamente, evitando di costringere lo studente, con un’età mentale troppo bassa o con disturbi psicologici, ad una attenzione troppo lunga per le sue capacità. 

Un normale libro scolastico richiede:

•    la lettura di testi spesso molto lunghi e complessi;

•    la comprensione parziale e globale del testo;

•    la memorizzazione;

•    la concettualizzazione dei contenuti da letti.

Nelle ricerche semplici invece:

•    la lettura della domanda è molto breve;

•    la comprensione del testo, molto semplice,  richiede minime capacità mnemoniche, attentive, di analisi e sintesi;

•    l’esecuzione attiva che implica anche altre attività piacevoli per lo studente, come il cercare, il ritagliare, l’incollare, lo stimolano al rapporto con le cose, l’ambiente, la natura, le persone;

•    com’è possibile notare dagli esempi dati il numero degli elementi richiesti è minimo: quattro o cinque. In alcuni casi può essere dato un elemento di esempio per facilitare il compito.

RICERCHE PER CATEGORIE    http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO 

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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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Queste ricerche possono essere effettuate da bambini anche molto piccoli o disabili, in quanto la modalità di esecuzione è semplicissima. Si danno al bambino uno o più schemi già preparati, l’alunno da solo, o con l’aiuto dei genitori e dell’insegnante dovrà disegnare o incollare negli spazi appositi quanto richiesto. Se capace, scriverà, inoltre, sotto ogni riquadro, il nome o un breve commento corrispondente all’immagine trovata. In ogni caso avrà fatto un lavoro prezioso nel selezionare, fra tante, le immagini richieste. Nella sua mente, gradualmente si costruiranno le categorie logiche indispensabili ad una migliore concettualizzazione e ad un più efficace ragionamento.

Oggetto di ricerca potranno essere dapprima delle categorie semplici: uomini; donne, bambini, animali, piante, uccelli, macchine, fiori, giocattoli, case, navi, aerei, frutta, pesci, treni, vestiti, scuole.

Successivamente saranno effettuate ricerche di categorie più specifiche: nonni, papà, ragazzi, nonne, mamme, ragazze, bambini piccoli, animali da cortile, animali domestici, animali feroci, animali selvatici, animali da pelliccia, animali che strisciano, automobili, trattori, autobus, camion, aerei, razzi, elicotteri , astronavi, barche,  motoscafi, navi  passeggeri,  navi mercantili, aliscafi, piante che danno frutta, alberi della foresta, alberi che abbelliscono le città e le ville, alberi che abbelliscono le case.

Si possono effettuare ricerche riguardanti i luoghi.

Ad esempio: “Ricerca: mobili della stanza da letto, mobili della cucina, mobili del salotto, mobili dello studio, gli abitanti della foresta, del Polo Nord  e così via.”

Oppure si possono far ricercare i particolari: dell’interno di una chiesa, dell’interno di un bar, dell’interno di una stazione, di una palestra, di un animale, di un uomo, di un’automobile, di un aereo ecc..

E ancora si possono far ricercare gli strumenti: del falegname, del muratore, del tipografo, del meccanico, del contadino, del dottore, del parrucchiere ecc..

Potranno inoltre essere fatte delle ricerche riguardanti l’uso: oggetti per mangiare, per vestirsi, per sedersi, per scrivere, per dipingere, per cucinare, per fare sport.

ANALISI DELLE COSE http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO 

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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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Questo tipo di attività va presentato dopo che lo studente ha effettuato le ricerche del primo tipo “ per categorie”.

Lo scopo è quello di stimolare lo studente alla notazione dei particolari degli oggetti, animali, costruzioni, elementi ed eventi naturali, che vogliamo fare approfondire.

Metteremo al centro l’elemento da analizzare, mentre nei quattro angoli, dal bambino, faremo incollare o disegnare i vari componenti o particolari.

In basso all’immagine, lo studente in grado di farlo, scriverà il nome o un breve commento del particolare evidenziato.

Si possono fare analizzare oggetti come l’albero, la casa, una persona, un animale, un uccello, un pesce, una nave, un automobile, un aereo, un treno, un camion, un autobus, un elicottero, una barca, un castello, una città, un vestito ecc.


Analisi più complesse possono riguardare elementi come il fiore, la foglia, la frutta, il tronco, la radice, un vestito da uomo, un vestito da donna, l’orologio, la lampadina, il lume, il lampadario, il telefono, la lavatrice, e così via.

Analisi ancora più complesse riguarderanno i particolari anatomici dell’occhio, dell’orecchio, del naso, della bocca, del cuore, dei polmoni, dei bronchi, dell’apparato digerente, dell’apparato urinario, dell’apparato genitale, dell’apparato scheletrico e così via.

 

SCHEDE PER EVIDENZIARE LE CARATTERISTICHE http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

Ogni oggetto, animale o persona ha certe caratteristiche. Lo scopo di questo schema di ricerche è quello di mettere in luce le caratteristiche essenziali.

Per fare ciò viene proposta una scheda in cui sono presenti due immagini, mentre al centro, in modo disordinato, sono elencate le caratteristiche principali dei soggetti analizzati. Il bambino dovrà collegare ogni caratteristica alle immagini con delle frecce. Scriverà poi in basso la sintesi delle caratteristiche che appartengono a ciascuno oggetto rappresentato.

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO


 
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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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Gli oggetti esaminati possono essere i più svariati: animali, cose, personaggi storici, elementi geografici e così via.

Si raccomanda però di inserire in ogni scheda solo poche caratteristiche  essenziali.

SCHEDE PER EVIDENZIARE LE UTILIZZAZIONI   http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF


Questo tipo di ricerche permetterà al bambino di comprendere l’integrazione tra l’uomo, gli oggetti, gli animali, i vegetali e gli altri elementi della natura. Servirà inoltre a stimolare la sua attenzione verso gli elementi che lo circondano e le necessità ecologiche nell’uso del territorio in cui viviamo:  montagne, fiumi, mari ecc..

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO


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MODELLO DI RICERCA CONPLETATO

 

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Anche in questo caso l’insegnante strutturerà delle schede come da schema, nella cui parte sinistra sarà posto l’elemento preso in considerazione, ad esempio la casa, la montagna, il fiume, l’animale e sulla parte destra tutto quello che da tale elemento ne ricava l’uomo o gli altri esseri viventi.

Per i bambini che hanno maggiori capacità nella scrittura, i riquadri nella parte destra potranno servire oltre che per inserire una foto o un disegno anche per scrivere in maniera più o meno diffusa gli apporti dati dall’elemento analizzato.

Si potrà chiedere dell’uso, da parte dell’uomo, di numerosi elementi.  Ad esempio: cosa ci dà l’albero, il bue, il cavallo, la pecora; cosa ci danno i pesci, gli insetti, i microbi, i batteri, i boschi, i mari, i fiumi, i laghi, le colline, le montagne ecc.. 

RICERCHE PER L’ARRICCHIMENTO CULTURALE    http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

“Metti le denominazioni al posto giusto”

In questo caso la ricerca sarà effettuata sui nomi dei particolari riguardanti un oggetto che, come da schema, metteremo al centro dell’attenzione del bambino.


  MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO

 

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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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I vari particolari da denominare saranno evidenziati da riquadri entro i quali egli dovrà scrivere il nome corretto, ricavandolo da quelli che noi, alla rinfusa, avremo scritto nella parte sovrastante la scheda. Lo scopo è quello di arricchire il vocabolario dello studente, evidenziando nel contempo i vari particolari o componenti dell’oggetto stesso. 

Sia per quanto riguarda gli oggetti dei quali si vogliono ricercare i particolari, sia per quanto riguarda le denominazioni, l’insegnante avrà il compito di sceglierli tenendo presenti le capacità e le conoscenze linguistiche del soggetto. In particolare il bambino dovrebbe conoscere almeno quattro parole sulle sei richieste. in modo da facilitare e gratificare l’operato dello studente.

Per quanto riguarda il numero delle denominazioni è preferibile che non siano superiori a sei – sette, in modo da lasciare chiarezza all’immagine. Con questo accorgimento si eviterà, inoltre, di sovraffaticare, con un lungo e difficile compito, lo studente.

 

 

RICERCHE SEQUENZIALI     http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

La storia, la geografia, la vita stessa degli esseri viventi hanno una loro sequenzialità temporale che può essere schematizzata attraverso quattro- cinque riquadri. Nella parte bassa di ogni riquadro l’alunno potrà scrivere il nome o il suo commento all’immagine sovrastante.

Si potranno così esaminare vari elementi come: la crescita di un fiore, di una pianta, di un uomo, di un animale, di un insetto.

Ma anche il cambiamento nel tempo degli indumenti, degli attrezzi, delle armi, dei cibi, delle istituzioni politiche, delle città, dei corsi d’acqua, delle macchine che noi utilizziamo, dei mobili. In tal modo, molte materie di studio di tipo storico, potranno trovare semplici e schematiche rappresentazioni che aiuteranno l’alunno a memorizzare e comprendere gli eventi temporali.

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO
  
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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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RICERCA SULLA FUNZIONALITA’ DEI SERVIZI      http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

Con tale ricerca si può esaminare e schematizzare, mediante una sequenza di immagini o di disegni con brevi commenti scritti,  il funzionamento di vari servizi, come l’ufficio postale, la scuola, gli uffici comunali, ma anche il funzionamento di fabbriche, depuratori, centrali elettriche, macchine e così via.

Tale schema di ricerca dovrà essere strutturato in forma sequenziale. Lo scopo è quello di far comprendere al bambino i vari passaggi presenti in un determinato servizio, nella costruzione di oggetti o nel funzionamento di varie macchine.

Ogni passaggio può essere, a secondo del livello culturale ed intellettivo del bambino, evidenziato solo mediante un’immagine oppure con una più o meno lunga descrizione che accompagna l’immagine stessa.

Gli argomenti di questo tipo di ricerca possono essere molteplici e riguardare la posta, la scuola, la fabbrica, l’ufficio postale, una nave, una macchina, una banca, la chiesa, il supermercato, l’aeroporto, il porto, la tipografia, il giornale, una cen-trale idroelettrica, una centrale nucleare, un circuito elettrico, il telefono, il corpo umano, il servizio sanitario, l’ospedale, la stazione ferroviaria e così via.

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO




  
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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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RICERCHE DI TIPO CICLICO      http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

Molti elementi della natura hanno una ciclicità, cioè si ripetono continuamente. Tale ciclicità può essere schematizzata  collegando con delle frecce quattro o cinque riquadri su uno schema circolare. Sotto ogni riquadro si potrà  scrivere l’evento corrispondente.

Si potranno effettuare ricerche sul ciclo dell’acqua, delle stagioni, della luna, dell’ossigeno, del giorno, degli alimenti ecc..

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO

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MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

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CHE COSA SERVE PER…      http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

Con queste ricerche faremo scoprire al bambino tutto ciò che è indispensabile per la produzione di un oggetto, un alimento, una macchina e così via.

 La scheda può essere strutturata mettendo al centro l’oggetto che vogliamo ottenere, ad esempio una torta, e intorno tutti gli elementi necessari per la confezione di questo dolce.

MODELLO DI RICERCA DATO AL BAMBINO

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 MODELLO DI RICERCA COMPLETATO

 

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Lo scopo è quello di far notare al bambino come, per oggetti anche semplici ed elementari sia necessario il concorso di diversi componenti. Spesso infatti il bambino oggi che è sempre più lontano dai luoghi dove vengono fabbricati gli oggetti, vede questi ultimi deprivati da tutti gli elementi d’ingegno, di cultura, di lavoro, di fatica, di sacrificio che sono insiti anche nelle cose più semplici. Egli infatti tende a collegare l’oggetto al suo costo senza considerare i valori sopraddetti. Ciò non accadeva nei bambini di qualche decennio fa i quali non solo vedevano, ma partecipavano e collaboravano di persona alla nascita di numerosi prodotti, quindi non solo conoscevano meglio i vari passaggi e componenti, ma potevano apprezzarne il contenuto umano e sociale.

Per tale motivo è bene sottolineare in questo tipo di ricerche non solo l’elemento materiale ma soprattutto l’ingegno umano e il lavoro necessario.

Si possono proporre vari temi. Che cosa serve per fare un nido, il pane, una sedia, un mobile, una casa, un’auto, un oggetto di vetro, un abito, una borsa, la carta, un giornale, un farmaco, una strada, un ponte, una ferrovia, una bottiglia ecc..

Anche questo tipo di ricerche può essere effettuato in modo semplice, come da esempio allegato  oppure ogni elemento può essere ampliato e arricchito, tenendo conto delle possibilità degli alunni, con un commento scritto più o meno ampio e approfondito.

 

LE RICERCHE TEMATICHE       http://www.cslogos.it/uploads/images/ALTRE%20IMMAGINI/ANI008.GIF

Utilizzando vari schemi di ricerche semplici e collegandoli insieme si possono approfondire ed esaminare a tutto tondo dei temi anche molto vasti e complessi come : le piante, il mare, la montagna, la nutrizione, la casa, la vita dell’uomo, ecc. Ciò può essere effettuato mediante una serie di domande che mettono a fuoco di volta in volta le varie componenti del tema prescelto e gli argomenti che si vogliono approfondire. Tali ricerche, se hanno il pregio di fare conoscere in modo globale una determinata tematica, pongono però il problema della gradualità che non potrà essere così perfetta come nelle ricerche semplici.

   

 

Partecipazione alle attività didattiche della classe

 

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Si può aiutare il bambino disabile ad inserirsi proficuamente nelle attività della classe, programmando in anticipo ed in perfetta intesa tra gli insegnanti curriculari e quelli di sostegno, numerose, anche se brevi, attività da effettuare insieme alla classe.

I momenti dovrebbero essere preceduti dalla scelta dell'attività che dovrebbe essere di breve durata e facilmente attuabile dal bambino. Inoltre bisognerebbe accertarsi che sia vissuta non in un clima di tensione ma di festa per tutti.

La preparazione dell'attività dovrebbe avvenire con la collaborazione tra gli insegnanti curriculari e quelli di sostegno.

I bambini dovrebbero vivere questi momenti non come un disturbo delle attività scolastiche, ma come una parentesi gioiosa da vivere insieme. Pertanto, è bene prepararli a questo vissuto di accoglienza.

Nel caso di bambini con patologie particolarmente gravi, l’organizzazione delle attività in ambito scolastico per un bambino è possibile anche se difficile, in quanto si devono contemperare le sue necessità con quelle dei compagni. La limitazione di tempo comporta problemi nell'organizzazione dell'apprendimento individualizzato. Inoltre, a volte, gli stessi bambini in difficoltà rifiutano compiti e attività particolari o materiale didattico diverso da quello usato dagli altri compagni. Si pone, quindi, la necessità di utilizzare esperienze, metodologie e materiali didattici nuovi, diversi da quelli usati normalmente. Noi consigliamo: le ricerche semplici,  i sistemi a scelta multipla e le schede programmate.

 I sistemi a scelta multipla sottraggono poco tempo alla didattica della classe poiché il loro utilizzo richiede un numero esiguo di spiegazioni. Con questa metodologia, poiché ad ogni domanda sono possibili solo due o tre risposte, il bambino disabile può, anche senza alcuna spiegazione, collegare la domanda alla risposta corrispondente, con un segno di matita e, successivamente, presentare il lavoro svolto all'insegnante.

Le schede programmate,  proprio per le loro intrinseche caratteristiche, facilitano molto un rapido e precoce apprendimento delle materie curriculari.

Queste schede, strutturate in maniera molto semplice ed efficace, graduando moltissimo le difficoltà, sono viste dal bambino come un simpatico gioco da fare insieme all’insegnante e stimolano il suo interesse e la sua curiosità. Inoltre, queste sono strutturate in modo tale che egli può essere aiutato nello svolgimento del suo compito anche dal compagno di banco.

Queste attività possono essere svolte durante l'ora di lezione, previa una precedente preparazione del materiale da utilizzare con l’aiuto dell’insegnante di sostegno e dei genitori.

Integrazione scolastica del bambino disabile

 

 

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L’inserimento di bambini che presentano un qualche problema psicologico, organico o genetico nella scuola si è rivelato fin dall’inizio un progetto ambizioso. Ambizioso a causa delle enormi difficoltà che le diverse tipologie di handicap procurano a tutti gli operatori, anche ai più specializzati e preparati.

Ambizioso in quanto, un buon inserimento, per i complessi contenuti umani e civili che comporta, presuppone una crescita educativa ed una maturazione di tutte le componenti scolastiche: dirigenti, personale ausiliario, insegnanti e alunni "normali".

Ciò presuppone un impegno totale e massiccio, competenze specifiche, dedizione, studio e aggiornamento da parte dei vari operatori del settore. Pertanto, questo lavoro non può essere delegato alla sola figura dell’insegnante di sostegno la quale, sebbene abbia una sua preparazione specifica, deve potersi inserire in un gruppo operativo di cui fanno parte il dirigente scolastico (con le sue capacità e possibilità gestionali e di coordinamento degli interventi), gli insegnanti curriculari, l’équipe medico-psico-pedagogica della scuola, i genitori, ma anche gli altri servizi sociali e di volontariato presenti nel territorio.

É da questo gruppo operativo che deve scaturire un progetto educativo realistico ed incisivo, verificabile ed aggiornabile continuamente. Tale progetto, partendo da un’attenta e minuziosa osservazione della realtà familiare e sociale del bambino, deve contenere le linee operative, gli strumenti ed i tempi di attuazione.

Quale collaborazione fra gli operatori?

 

Quando si parla di un problema difficile da risolvere, come in realtà  è l’inserimento di un bambino disabile nella scuola, si parla molto spesso di collaborazione. Collaborazione tra insegnante di sostegno e insegnante curriculare; tra insegnanti ed équipe; tra operatori e genitori.

Ma che significa collaborare?  Come e quando è possibile tale collaborazione?

Sappiamo che questa disponibilità a lavorare insieme aiutandosi e sostenendosi a vicenda, in  realtà nasce non dall’esterno, ma dentro di noi.

É dentro di noi, infatti, che sboccia e a volte diventa reale e concreta,  mentre altre volte abortisce o viene soffocata dalla gelosia, dall’invidia o dall’aggressività nascosta o palese.

La capacità alla collaborazione è, infatti, legata alle esperienze fondamentali della nostra vita affettiva e relazionale. Le esperienze positive che nascono da momenti di amore, di gioia, di disponibilità all’interno dei primi affetti familiari,  modellano la nostra personalità di base, così che questa è disponibile ad aprirsi, sostenere, aiutare e capire l’altro.

Oppure, al contrario, sono i modelli genitoriali improntati ad assenza, freddezza e chiusura, le carenze affettive e i grandi, ma anche i piccoli e ripetuti traumi infantili che accentuano le ansie, le paure e le difese e quindi ci spingono a chiuderci all’altro, a difenderci in maniera eccessiva o ad aggredire chi ci sta accanto.

Nonostante ciò, conosciamo la possibilità di sviluppare  dentro di noi e accanto a noi la disponibilità alla collaborazione e quindi conosciamo la strada per renderla concreta e operante mediante modalità di rapporto che prima che esternamente devono essere vissute interiormente.

Dinamiche dell’insegnante di classe e di sostegno.

 

Per quanto riguarda le dinamiche degli insegnanti di classe, il rifiuto conscio o inconscio di occuparsi del bambino disabile nasce, a volte, dalla sensazione che far effettuare delle attività molto semplici e limitate sia degradante: “Io che mi sono laureata in matematica con ottimi voti e che ho insegnato per anni teoremi complessi ed equazioni, non posso mettermi a giocare con questa bambina con trenini e aeroplanini per far capire la corrispondenza delle quantità come farebbe un’insegnante di scuola materna”. “Io che sono uno studioso di Dante, io che ho scritto un saggio sulla sua vita non posso mettermi ad insegnare le vocali a questo bambino: sarebbe stupido, inutile e degradante.”

In altri insegnanti prevale invece la paura di non potersi occupare bene del problema reputandolo al di sopra delle proprie possibilità: “Io sono solo un’insegnante di lettere; non conosco nulla delle patologie e dei problemi dei bambini con handicap; non so, pertanto, cosa fare e come fare”.

Altre volte prevalgono sulla ragione i moti istintivi e le paure irrazionali. Si cede in questo modo alla istintiva ancestrale sensazione di rifiuto che ci coglie davanti a persone disabili. “Non posso farci niente ma quando vedo quel bambino mi sento male.”

Le conseguenze di tutto ciò sono estremamente negative: a quel bambino mancherà l’apporto di uno o più insegnanti curriculari e sarà molto limitata la collaborazione di questi sia con l’insegnante di sostegno che con i genitori. In realtà a quel bambino disabile, che dovrebbe avere di più, viene concesso meno che agli altri suoi coetanei.

Per quanto riguarda l’insegnante di sostegno, le dinamiche negative nascono quando l’amore e la passione per il bambino in difficoltà lo coinvolgono eccessivamente.

In questi casi egli avverte il bambino disabile che gli è stato affidato come una cosa propria o come un figlio con problemi da difendere con le unghie e con i denti, da chi non sente e pensa come lui; un figlio da tutelare da chi non se ne occupa con la stessa passione e dedizione;  un figlio da preservare da chi non ha le stesse capacità.

Ogni atteggiamento di rifiuto, di indifferenza o di disimpegno da parte della scuola o degli altri insegnanti viene vissuto in modo eccessivo ed abnorme. Tutto ciò impedisce di capire i problemi e le ragioni degli altri e spinge ad una lotta senza quartiere o ad una chiusura, in quanto gli altri “non capiscono, non amano, non vogliono.”

É più rara, ma è presente, la situazione opposta e cioè l’alleanza con gli altri insegnanti curriculari contro il bambino visto come troppo disturbato, troppo grave, con troppi problemi per potersene occupare in maniera proficua.

Frequente è inoltre la gelosia nei confronti dei genitori “che non capiscono, non collaborano, non si attivano sufficientemente.”  “ Io mi impegno e lotto fino allo spasimo per vostro figlio, ma voi non fate nulla per lui, anzi distruggete il mio lavoro.”

Quali gli atteggiamenti più utili?

Il primo atteggiamento interiore è, o dovrebbe essere, comune a tutti gli operatori: psicologici, medici, insegnanti ecc.. Per tutti dovrebbe valere la regola fondamentale che è giusto e sacrosanto capire, aiutare, sostenere, proteggere, la persona che ci è stata affidata o che si è affidata a noi ma mai identificarsi con essa; mai coinvolgersi e vivere come propri i suoi problemi; mai assumere un ruolo non proprio: di padre, madre, fratello, sorella, amico. É indispensabile, infatti, restare  sereni, equilibrati e liberi, nel rapporto con ogni persona a cui diamo il nostro apporto professionale.

Nei confronti di tutte le forze che identifichiamo attorno a noi e che potrebbero essere utili per i nostri obiettivi, come gli altri insegnanti e operatori, è bene assumere un atteggiamento intelligentemente affettuoso.

 

 In tal modo potremo identificare, scoprire e poi stimolare, valorizzare e aiutare a crescere,  tutti quegli elementi positivi che si trovano nell’animo, nella cultura e nell’intelligenza di ogni persona con cui ci saremo trovati a collaborare.

Possiamo imparare a porci nei confronti di chi dovrebbe o potrebbe aiutarci, non come chi giudica, chiede e pretende, ma come colui che comprende e dirime le altrui difficoltà, scopre e valorizza le altrui capacità. E quindi non io che giudico te, non io che chiedo a te, non io che pretendo da te, ma io che aiuto te a capire e valorizzare le tue capacità. Io che aiuto te a scoprire gli strumenti più idonei ed i mezzi più opportuni per fare bene il tuo e nostro lavoro.

Il primo ostacolo  che gli insegnanti sono costretti a  superare è certamente dovuto alla diversa formazione. Per un grave errore del nostro Ministero della Pubblica Istruzione, che solo con le nuove leggi si sta cercando di correggere, solo gli insegnanti di sostegno avevano l’obbligo di effettuare un corso di specializzazione che li avrebbe dovuto rendere non solo più idonei ad affrontare i problemi dell’handicap, ma anche più sensibili verso questa realtà.

Questa scelta operativa ha reso molto difficile non solo la collaborazione ma anche un proficuo dialogo tra le due categorie di insegnanti, per cui è facile trovare, nonostante la legge dica il contrario, una netta divisione di ruoli: “ Io mi occupo dei miei bambini normali“, dicono gli insegnanti curriculari, “tu occupati del tuo bambino handicappato” .

E a nulla valgono leggi, circolari o reprimenda dei superiori.

A questo grave peccato originale di impostazione bisogna che siano gli insegnanti stessi, coordinati dai dirigenti scolastici, a  porre rimedio mediante una serie di attività comuni come la ricerca e l’aggiornamento; come l’osservazione, la programmazione e la valutazione di ogni bambino  con problemi. Infine ancora insieme, con entusiasmo, creatività e fantasia nel momento dell’attuazione del programma educativo concordato e nella verifica e valutazione dei risultati ottenuti.

Disabilità e famiglia

 

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La famiglia in cui è presente  un bambino con problemi, molto spesso, al momento in cui viene coinvolta da questo evento, non è diversa dalle altre.

Certamente il vivere quotidianamente questa realtà così difficile e a volte drammatica, sottopone questa famiglia a prove e difficoltà non indifferenti, sia di carattere psicologico, che economico e di vita pratica.

Le modalità  del vissuto e le conseguenze che ne hanno i singoli componenti: genitori, altri figli e  familiari, dipendono da molti fattori:

•    le caratteristiche psicologiche di ognuno dei coniugi e degli altri familiari;

•    le dinamiche relazionali tra loro, con gli altri figli e con i parenti;

•    le possibilità economiche;

•    le caratteristiche del tessuto sociale;

•    la presenza di una rete di operatori e servizi efficienti ed efficaci.

Non è infatti uguale il modo in cui viene affrontato un evento stressante: vi sono caratteristiche di personalità che possono portare l’individuo a viverlo con serenità, coraggio e determinazione oppure a struggersi dal dolore fino a fuggire con disperazione da esso, ignorandolo o facendo finta che non sia mai successo.

Ciò dipende in parte dall’ottimismo o dal pessimismo di base, che ognuno di noi si porta dentro, ma soprattutto dipende dal substrato culturale in cui siamo stati educati: substrato emarginante o accogliente rispetto alla malattia e alla diversità.

É inoltre determinante l’esistenza o non di problemi personali di tipo nevrotico, e quindi la presenza di conflitti interiori non risolti che possono portare ad ansie eccessive, a paure o a modi incongrui nelle modalità di approccio al problema.

Il dialogo esistente nella vita familiare, la presenza di un amore profondo, l’aiuto e l’assistenza reciproca, un rispettoso e caldo rapporto tra i vari membri della rete affettiva, fanno da presupposto positivo all’accoglienza e alla gestione positiva del bambino disabile.

Al contrario la scarsità di dialogo, il distacco o la conflittualità coniugale, la mancanza di una rete familiare efficace renderanno difficili e più problematiche l’accoglienza e la gestione.

In questi casi sono frequenti  le accuse reciproche: “É colpa tua, non sei stata attenta; hai fatto delle cose che non dovevi fare.” E viceversa : “Non hai fatto ciò che dovevi fare…Hai una tara ereditaria di cui dovevi tenere conto, sei un incosciente!”

Le accuse possono essere rivolte dai genitori a se stessi: ”É colpa nostra dovevamo comportarci in altro modo e non l’abbiamo fatto… Non dovevamo avere questo figlio data la nostra età e invece l’abbiamo voluto.” E così via.

Sono frequenti, inoltre, le riflessioni e le accuse agli altri o al destino, del tipo: “É qualcosa che meritavamo... Qualcuno voleva il nostro male… Qualcuno era invidioso di quello che abbiamo, della felicità della nostra famiglia.”

O alla divinità: “Dio ci ha voluto punire... Ci vuole mettere alla prova... Ci ha abbandonato.”

In questi casi sono facili le depressioni e le ansie individuali, l’accentuarsi dei dissapori coniugali, con conseguente talora abbandono da parte di uno dei due, della famiglia e quindi del problema.

    Fondamentali sono, inoltre, i rapporti parentali e sociali che questa famiglia  ha: se adeguati e positivi possono aiutare ad affrontare con serenità e ottimismo questo vissuto; se negativi, scarsi o assenti possono accentuare e aggravare il problema con i loro errati comportamenti, interventi ed atteggiamenti. La conflittualità tra i coniugi, le separazioni, i divorzi, così frequenti nella nostra società occidentale, complicano di molto la gestione di un bambino che, per le sue caratteristiche, avrebbe bisogno di un ambiente sereno, equilibrato e stabile.

Influenza sugli altri fratelli.

L’influenza che può avere un bambino con disabilità sugli altri fratelli, dipende da come viene vissuta questa realtà dai genitori, ma anche da come viene fatta vivere ai figli.

Se la presenza di un bambino con difficoltà viene avvertita con serenità e ottimismo e se l’impegno maggiore per la sua educazione non preclude, ma anzi rafforza, il legame della coppia e della famiglia, nessuna paura, il bambino disabile non potrà che avere un effetto positivo sia sui genitori sia sugli altri figli.

L’apporto degli operatori.

 

Il modo con cui un bambino disabile sarà accolto, aiutato, integrato nella sua famiglia e il modo con cui questa saprà trovare delle strategie di cambiamento per vivere serenamente e con grande impegno questo evento difficile, certamente dipende da fattori individuali, relazionali, sociali ed economici, ma dipende anche molto dagli operatori che questa famiglia incontrerà nella sua strada. Affrontare nel modo più opportuno questa realtà, che non é certamente lieta, questo avvenimento che non è certamente facile, dipende in gran parte dal modo in cui gli operatori: medici, psicologi, pedagogisti, infermieri, assistenti sociali, insegnanti, amministrativi si porranno nei confronti di questa famiglia.

La loro preparazione e capacità nel dare risposte adeguate e psicologicamente valide, la loro sensibilità e disponibilità sono fondamentali per il benessere psicologico, relazionale e sociale dei genitori e della famiglia del disabile nel suo insieme.

É fondamentale infatti il modo di porsi nei loro confronti  fin dal momento in cui il problema viene evidenziato, anzi soprattutto nel momento in cui viene evidenziato.

Sarà sicuramente più traumatizzante l’impatto psicologico se, ad esempio, un pediatra, un’ostetrica o il medico di famiglia,  si saranno limitati soltanto a sottolineare le  difficoltà che avrà quel bambino invece di  indicare il modo migliore per affrontare il problema, una strada da percorrere con il loro aiuto, un programma di recupero, una speranza reale e concreta.

A questo riguardo ricordo ciò che mi riferì la mamma di un bambino Down: “Dopo qualche ora dalla nascita del mio bambino, mentre ancora stavo cercando di riprendermi da questo evento così difficile, mi si avvicinò un’ostetrica in compagnia di un dottore. Mi dissero che quello che era nato era un bambino Down. Io allora ero molto giovane e non sapevo neanche che cosa significasse questo termine. Mi spiegarono che mio figlio sarebbe stato un deficiente e poi, forse per consolarmi, aggiunsero che sarebbe stato così deficiente che non si sarebbe neanche accorto del suo handicap. E per finire mi spiegarono che sarebbe stato e sarebbe vissuto come un vegetale.

 

Quando ritornai a casa non sapevo cosa fare, pertanto non facevo niente; lo guardavo soltanto, mentre stava sdraiato nel suo lettino.”

 A questo punto del racconto, spinto dal mio viziaccio di sdrammatizzare con qualche battuta di spirito, la interruppi chiedendo: “Signora, ma cosa aspettava? Aspettava forse che al suo bambino spuntassero le foglioline dalle braccia, per darsi da fare?”

“Infatti, continuò la mamma, per diversi mesi non feci nulla, aspettavo non so che cosa. Ad un certo punto mi accorsi con mia grande meraviglia che quello che mi era stato descritto come un bambino - vegetale, si muoveva come gli altri bambini, mi sorrideva come ogni bambino sorride alla sua mamma, mi accarezzava il viso quando lo cambiavo come fanno i bambini veri. Solo allora, ma già erano passati diversi mesi, mi diedi da fare e cominciai a stimolarlo e a parlargli come fanno tutte le mamme con i loro piccoli.”

Questo bambino a cui era stata prospettata una vita da vegetale, stimolato adeguatamente, andò a scuola a sette anni che già sapeva leggere e scrivere. A nove anni effettuava moltiplicazioni e divisioni. Attualmente frequenta le scuole superiori.

Pensando a questo argomento non potrò mai dimenticare il volto di una maestra che timidamente mi si era avvicinata mentre visitavo un altro bambino, affinché dessi un’occhiata alla bambina più grave che si trovava proprio nella sua classe. Era una bambina con tetraparesi spastica. Il suo corpo non rispondeva alla sua mente se non con movimenti scomposti e sgraziati. Non parlava, si sbavava, non era in grado di deambulare ed i movimenti delle mani erano notevolmente compromessi dalla spasticità e dai riflessi patologici. Mi riferì con le lacrime agli occhi la storia di questa bambina la quale, l’anno prima, era stata bocciata in quanto non era in grado, non solo di leggere o scrivere ma neanche di parlare. “Io- mi riferì la maestra – l’ho avuta quest’anno nella mia classe e rappresenta il mio quotidiano cruccio in quanto non so come poterla aiutare. Spesso la notte piango pensando a questa mia incapacità.”

Il successivo incontro lo dedicammo a questa bambina. Fu subito chiaro che aveva un’intelligenza normale se non superiore agli altri bambini. Ai test di performance dava delle risposte inequivocabili. Quando riferimmo il risultato dei test alla maestra questa aggiunse: “Mi deve scusare dottore, forse è una mia impressione ma, mentre spiego e scrivo alla lavagna, dai suoi movimenti scomposti e dai mugolii che emette ho come l’impressione che capisca quello che scrivo. È come se reagisse per cercare di comunicare, a modo suo, la sua approvazione o disapprovazione.”

Non fu difficile con un piccolo espediente (domande a scelta multipla) capire che la bambina sapeva leggere perfettamente. Quando per l’ultima volta vedemmo la bambina per un controllo, stava per completare la scuola media. Durante l’ultima verifica la bambina, ormai ragazza, seguiva regolarmente il programma della classe e ci stupì per le sue capacità nella matematica, tanto che noi, per i nostri scarsi, lontani ricordi di questa materia non riuscivamo più a seguirla nelle complesse operazioni che effettuava.

I motivi per cui ho voluto riportare questo episodio sono diversi:

1.    spesso le persone comuni ma purtroppo anche gli operatori, rimangono come paralizzati  ed incapaci di agire con intelligenza ed acume, bloccati dalle prime impressioni o da quanto letto o studiato in vecchi libri di scuola. “Se io ho letto, ho saputo, ho studiato che è così deve essere così.”  Vengono così a tramandarsi per generazioni antichi pregiudizi. Inoltre, il che è peggio, questi operatori tendono anche a trasmettere e a trasferire agli altri i loro limiti, le loro incapacità, i loro pregiudizi, le loro false idee;

2.    spesso l’apparenza inganna. Molti bambini apparentemente gravi hanno notevoli capacità che non si riesce a far emergere a causa dei nostri limiti o per le scarse o limitate conoscenze;

3.    molte volte viene riferito al bambino un problema che è invece nostro e che non riusciamo a risolvere adeguatamente.

Da quanto abbiamo detto è evidente che l’intelligenza degli operatori, il loro intuito, la loro sensibilità, la loro capacità professionale, ma anche la loro apertura mentale saranno determinanti per il minore ma anche per la sua famiglia e per la società.

É necessario, infatti, che noi operatori sappiamo coniugare  il realismo alla speranza, l’obiettività all’ottimismo, la programmazione più precisa ad una grande  duttilità.

Gli operatori che la famiglia incontra sono numerosi: si inizia molto spesso con gli infermieri e medici di un  reparto di ostetricia. Si continua poi con il pediatra e il personale dei reparti di neuropsichiatria infantile e quindi con gli operatori addetti alla  riabilitazione. Quando il bambino sarà più grande, entrerà in scena anche il personale scolastico o quello dei centri di assistenza. Per non parlare degli impiegati ai vari sportelli degli uffici che gradualmente saranno contattati e quindi coinvolti nel bene e nel male da questa famiglia.

Questo personale, quindi, deve sviluppare e dimostrare notevoli capacità se vuole essere di valido aiuto.

 

 Ad esempio esso deve saper vedere il problema in modo globale: non soltanto l’organo o la funzione interessata ma tutto il bambino. Non soltanto il bambino ma anche la sua famiglia. Non soltanto la sua famiglia ma anche l’ambiente sociale di provenienza. Questa che potremmo chiamare “visione orizzontale del problema” è necessaria quanto la “visione verticale” che  vede lo sviluppo nel tempo del bambino: com’era, com’è, come probabilmente sarà, attraverso gli interventi più opportuni, in modo da preparare la strada migliore per lui e la sua famiglia.

Oltre a saper effettuare una diagnosi precisa evidenziando le cause  del problema, gli operatori dovranno saper proporre un valido programma di recupero e di stimolazione in cui siano evidenziate le tecniche, le metodologie e gli  strumenti  più opportuni. Questo programma, a sua volta, dovrà essere inserito in un progetto realistico a breve, medio e lungo termine che contempli non solo tutti gli aspetti della vita del minore ma anche tutti gli aspetti della vita relazionale della famiglia in cui questo bambino vive e cresce.

Infine, gli operatori devono saper coinvolgere altri specialisti del settore e altre forze sociali, attraverso un lavoro di rete nel territorio, collegando forze e realtà diverse per un grande o-biettivo comune.

Il training familiare.

Per lungo tempo la nostra società si è illusa di risolvere i problemi dell’handicap mediante  l’utilizzazione di tecnici (psicologi, insegnanti, pedagogisti, assistenti sociali, medici, terapisti della riabilitazione) trascurando l’apporto insostituibile della famiglia. Ciò ha provocato gravi conseguenze sia sul piano teorico: riguardo al significato dell’educazione o riabilitazione del bambino disabile; che pratico.

 

Dal punto di vista teorico ha portato ad una proliferazione di centri specializzati che hanno dato molti apporti scientifici su alcune specifiche tecniche riabilitative, ma pochi studi sull’attività educativa globale di questi bambini. Dall’altro la sottovalutazione degli apporti affettivo-relazionali dell’ambiente familiare e sociale ha vanificato e vanifica molto spesso la stessa attività educativa e riabilitativa.

É necessario pertanto che gli operatori prendano in carico non soltanto il bambino disabile, ma anche la sua famiglia inserita nell’ambiente sociale. Portatori di bisogni sono infatti non solo i minori ma anche i loro familiari che vivono questa realtà spesso con ansie, insicurezze, paure. É  fondamentale quindi, che gli operatori attuino nei confronti dei genitori un vero e proprio cammino in modo tale da costruire insieme a loro un progetto globale, realistico, ampio, sia a breve che a lungo termine con varie finalità.

•    Comprensione dei limiti ma anche delle possibilità del bambino.

     Ciò sarà possibile evidenziando le sue difficoltà attuali, ma anche le capacità e potenzialità; le sue necessità di base, comuni agli altri bambini ma anche i bisogni specifici.

•    Conoscenza dei servizi.

È importante che i genitori siano messi a conoscenza delle possibilità offerte da centri e istituti specialistici e dai tecnici e personale che si occupano di questi problemi; quindi di che cosa e chi possa essere utile, di che cosa e chi possa essere indifferente e di chi o di che cosa possa essere dannoso per il bambino.

•    Conoscenza delle tecniche.

Quali le tecniche e le metodologie  speciali su cui dovrebbe basarsi l’attività educativa o riabilitativa. Quali le basi su cui si fondano, quali sono i limiti e le possibilità di ognuna.

Quali gli strumenti utilizzabili, con i loro pregi, difetti, limiti, possibilità e difficoltà.

•    Conoscenza del percorso educativo.

Quale percorso educativo o riabilitativo si intende intraprendere. Evidenziando quali ostacoli si potrebbero presentare e come si pensa di poterli affrontare e superare.

•    Quali le prospettive future.

Ai genitori bisogna inoltre saper prospettare con realismo, ma anche con sano ottimismo, quali sono gli scenari presenti e quali quelli di un possibile futuro del figlio.

Gli obbiettivi di fondo del training familiare sono quindi numerosi:

•    si vuole da parte dei genitori una migliore accettazione del bambino e del suo handicap;

•    si cerca di suscitare nei genitori una maggiore fiducia in se stessi, nel loro figlio, nella rete familiare e sociale, negli organi istituzionali;

•    ci si propone di ottenere, nei genitori, una maggiore sicurezza nelle proprie capacità e un’acquisizione di atteggiamenti e comportamenti educativi più validi, equilibrati e sani;

•    ci si propone di instaurare una maggiore e più stabile intesa tra genitori e figlio, genitore e altro coniuge, genitori e altri familiari, genitori e operatori, genitori  e società. Lo scopo, in definitiva, è quello di migliorare i rapporti all’interno della famiglia del bambino, ma anche i rapporti tra questa, gli specialisti e l’ambiente sociale nel suo complesso. Ciò al fine di riuscire ad intraprendere rapporti non di lotta, ma di dialogo e collaborazione reciproca.

 

L’operatore dovrebbe cercare di proporre ai genitori, per il loro figlio, innanzitutto l’inserimento in un ambiente normale, in quanto ogni bambino ha bisogno di normali relazioni affettive ed amicali. Per tale motivo farà in modo che la sua famiglia si occupi di lui senza ansie eccessive, senza paure, ma in maniera serena, intelligente e continua. Le eccessive preoccupazioni comportano infatti stress, confusione, stanchezza, depressione con conseguenti atteggiamenti educativi errati.

 Un figlio disabile necessita inoltre di due genitori realistici che non sottovalutino i problemi ma neanche li accentuino; pertanto necessita di due genitori gioiosi, in quanto la gioia è fondamentale nello sviluppo di ogni essere umano. Egli ha bisogno di due genitori dialoganti e affettuosi tra loro che sappiano e possano vivere con serenità l'amore all'interno della coppia e con tutti gli altri figli.

I bambini disabili infatti, così come tutti i bambini, hanno bisogno di essere circondati da persone che si vogliano bene e che non riversino il loro bene soltanto su di loro; quindi necessitano di genitori che vogliano bene al loro figlio in modo fisiologico, senza morbosità, senza eccessi, senza una deleteria  iperprotettività.  É importante, infatti, che anche gli altri fratelli e familiari godano dell’apporto continuo e intenso di papà e mamma.

Il loro bambino, come tutti i bambini ha bisogno, inoltre, di vere amicizie, in cui vi sia scambio, affetto, dialogo, intesa, legame. Non sono amicizie vere quelle basate soltanto su sentimenti pietistici o per necessità di assistenza.

Anche per quanto riguarda la difficile prospettiva di una futura attività lavorativa, necessità di lavoro vero. Un lavoro è tale quando vi è scambio tra prestazione e compenso, possibilità di integrazione, utilità per i singoli e per la società del servizio offerto. Un lavoro è vero, inoltre, quando riesce a sviluppare tra i vari addetti e tra il lavoratore e il suo datore, dinamiche e scambi positivi per tutti.

 

Educazione del bambino disabile

 

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Quali sono i bisogni educativi di un bambino disabile?

A questa domanda chiara dobbiamo dare una risposta altrettanto chiara: i suoi bisogni fondamentali non sono per nulla diversi da quelli di un bambino con normali capacità.

Anche lui ha bisogno, infatti, di due genitori  che siano capaci di amarlo, ascoltarlo, confortarlo, rassicurarlo, incoraggiarlo ma anche, quando necessario,  sappiano dire di “no” o rimproverarlo, così come dovrebbe fare ogni adulto che si vuole porre come  guida sicura e autorevole per i suoi piccoli.

Anche lui, oltre che di genitori sereni ed equilibrati, ha bisogno per la sua normale crescita di altre figure parentali come i fratelli, i nonni, gli zii, i cuginetti e, successivamente, h

necessità di incontrare e di aprirsi ai coetanei e agli amici.

 

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Inoltre, come tutti i bambini, necessita di persone, con cui instaurare un legame affettivo, che sappiano stimolare il suo sviluppo globale mediante l’educazione di tutte le potenzialità umane: le capacità motorie insieme a quelle sociali; l’intelligenza e la sessualità; la libertà e la volontà insieme alle capacità di critica, di giudizio e di autocontrollo.

Per tale motivo è importante che anche l’ambiente  in cui vive sia aperto e ricco di stimoli, in modo tale che egli possa in esso muoversi liberamente operando delle scelte affettivamente valide. Capite che quanto abbiamo descritto è lontano mille miglia da quello che potrebbe essere il migliore degli istituti specializzati.

Perché qualunque istituto, anche il più ricco di personale altamente qualificato non può offrire che pallidi surrogati rispetto a quello che una normale, semplice famiglia, spontaneamente riesce a dare ai propri componenti.

Purtroppo ciò è stato compreso molto tardi sia dagli operatori che dalla società.

Ci sono volute infatti migliaia di tristi e spesso tragiche esperienze di bambini precocemente allontanati dal normale ambiente familiare e sociale, per capire che il danno da istituzionalizzazione rendeva praticamente nullo ogni miglioramento sul versante dell’handicap. I motivi sono diversi. Nelle istituzioni totalizzanti, per loro natura, e non per colpa degli operatori che spesso, pur lottando, non riescono a contrastarne la tendenza, si viene a stabilire un clima particolare.

 Rispetto a quello familiare spesso si evidenzia:

•    scarso rapporto individualizzato;

•    gravi carenze affettive e relazionali;

•    scarsa libertà;

•    scarso dialogo vero e profondo;

•    scarsi spazi personali;

•    scarsa attenzione ai bisogni e alle necessità individuali;

•    scarso rispetto per gli oggetti personali;

•    presenza di numerose e poco elastiche regole;

•    norme troppo rigidamente e ossessivamente applicate;

•    sfruttamento degli spazi tenendo conto delle esigenze del gruppo o dell’istituzione e non del singolo;

•    scarsa e variabile assunzione di un ruolo specifico di ogni singolo ospite all’interno dell’istituto;

•    frequente rischio che il paziente o il bambino diventino og-getti e non soggetti di diritto.

Oggi,  per fortuna,  buona parte degli istituti sono chiusi. Rimane però ancora  in noi operatori, la tendenza a sottovalutare le capacità  educative dei genitori dei bambini disabili  sopravvalutando le nostre; pertanto è come se trasmettessimo loro, un messaggio fuorviante, che è poi anche un messaggio fondamentalmente falso: “il vostro bambino è giusto che stia con voi, ma  egli ha problemi particolari che solo noi specialisti  possiamo comprendere. Per tale motivo la sua riabilitazione o stimolazione speciale deve essere affidata esclusivamente a noi che abbiamo  tecniche, metodologie e strumenti per fare questo.”

Come educare.

 

É necessario che l’adulto si ponga nei confronti del bambino disabile con un atteggiamento non apprensivo, ansioso o limitante ma in modo gioioso, dialogante, affettuoso, rispettoso delle sue esigenze psicologiche. É indispensabile, infatti, rispettare la fisiologia del bambino: la sua età mentale, la sua vita affettiva, i tempi di attenzione, la  faticabilità, il bisogno di  giochi di movimento e di gruppo da effettuare da solo o con i coetanei. Per quanto riguarda le tecniche e i materiali da utilizzare questi devono essere studiati, sperimentati e approntati dai tecnici (medici, pedagogisti, psicologi, riabilitatori),  l’attuazione può invece essere fatta dagli insegnanti, dai pedagogisti e dai riabilitatori, ma sarebbe augurabile che fosse affidata anche ai genitori, i quali, più di ogni altro, hanno potenzialità e caratteristiche indispensabili nel favorire un migliore apprendimento in quanto:

  • sono i soggetti che hanno maggiore interesse nei confronti del bambino, per cui garantiscono, se ben seguiti, una maggiore continuità e attenzione al programma da noi stabilito;

  • sono le persone che riescono ad avere, più di ogni altra, nei con-fronti del minore, quel legame affettivo che stimola la gratificazione,  l’apprendimento e la memorizzazione;

  • sono quelli che possono, meglio di altri, capire le esigenze del bambino e saperle soddisfare.

É necessario, però, che questi genitori siano costantemente seguiti mediante controlli periodici, ravvicinati nel tempo, in modo tale da verificare sistematicamente gli apprendimenti del minore, sostenendo e correggendo, quando occorre, la loro modalità di proporre tali apprendimenti. Il rapporto sistematico coi genitori servirà inoltre ad effettuare un training efficace che li aiuterà a capire il loro bambino così da potere intervenire nel modo più opportuno ed utile durante le fasi della sua crescita.

Affettività e sessualità nei disabili

 

 Dott. Emidio Tribulato

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Le difficoltà sono il pane quotidiano e sembrano accompagnare tutta la vita di questi bambini.

Si capisce benissimo lo scoraggiamento a cui queste difficoltà possono portare, come si comprende  il desiderio, a volte, di  gettare la spugna non solo da parte della persona e della famiglia interessata ma anche, e questo è molto più grave, da parte degli operatori e della  società.

    Tuttavia queste stesse difficoltà possono e devono essere lette anche come una sfida alla persona colpita, alla sua famiglia e anche a tutti noi. Sfida alla  nostra capacità di accettazione, alla nostra apertura mentale, alla nostra duttilità e intelligenza; sfida inoltre, io credo, tanto più interessante quanto più difficile da affrontare e risolvere.

    Ebbene, anche la sua vita affettiva e sessuale è una sfida: al nostro buon senso, al nostro perbenismo e al nostro moralismo che si può e si deve combattere e vincere.

    Per affrontare questo problema dobbiamo prima comprendere che cosa spinge l’essere umano a un rapporto affettivo e sessuale di coppia.

Un ragazzo si avvicina a una ragazza, un uomo a una donna spinto da varie pulsioni interiori: una di queste è la  paura della solitudine.

    Nessun essere vivente è fatto per essere solo. La solitudine intristisce e fa rinsecchire e morire lentamente un uomo o una donna, così come un qualunque altro essere vivente, che ha bisogno dell’altro per iniziare a vivere, per aprirsi al mondo, ma anche per camminare nel mondo.

    Accanto a questo elemento c’è il bisogno di protezione, di aiuto, di conforto, di sicurezza. C’è il bisogno di un dialogo intimo con un altro essere umano a cui aprire il nostro cuore quando capiamo che quello saprà accoglierlo e accettarlo.

    Ma ancora più importante ci appare il bisogno del piacere e della gioia che caratterizzano e sono così abbondanti nello scambio affettivo e sessuale; pulsioni che sono fondamentali per la crescita fisica e della personalità.

    Da non dimenticare, poi, il desiderio di far fiorire altre vite umane, il desiderio di costruire una nuova famiglia e di esprimere se stessi, abbandonando il ruolo filiale, per diventare  marito o  moglie, padre o madre.

    Ma anche fattori inconsci ci spingono l’uno nelle braccia dell’altro. Ritroviamo questi fattori inconsci nella ricerca di quella parte di noi che non abbiamo o non conosciamo, perché di un altro sesso, perché assente nella nostra personalità o perché non accettata o rifiutata da una parte del nostro io.

Questa perdita di una parte di sé e questo bisogno di unione con quella parte inconscia e nascosta della propria anima, è stata ben simbolizzata nella Bibbia con la perdita della costola di Adamo e con il suo bisogno di unirsi a Eva.

    Da quanto abbiamo detto ci appare difficile pensare che una persona, solo perché deficitaria in una o più funzioni possa fare a meno, rinunciare o cancellare da sé questi bisogni umani fondamentali.

    Dobbiamo quindi, e questa è la sfida, annotare le difficoltà allo stesso modo con cui dobbiamo studiare le possibilità, in modo tale da diminuire le prime e rendere sempre più concrete le seconde, fino a far diventare attuale e concreta anche per queste persone una vita relazionale, affettiva e sessuale la più ricca e umana possibile.

Vi sono sicuramente dei limiti. Molti di essi derivano dalla disabilità stessa che rende difficile un impegno così pieno  di responsabilità, di implicazioni e coinvolgimenti emotivi.

Altri limiti nascono dalle ridotte possibilità di scelta che ha il disabile rispetto al giovane normale, quando sboccia in lui e si manifesta impetuoso il bisogno di amare e di essere amato.

Ma ci sono limitazioni che nascono dal legame particolare che spesso si stabilisce tra i genitori e il figlio con problemi. Molti di questi genitori, infatti,  vedono il figlio come qualcuno che chiede e ha continuamente bisogno degli altri e non come qualcuno che è capace di dare e di staccarsi pienamente dal legame affettivo con i propri genitori e la famiglia di origine per intraprendere una vita affettivo - relazionale autonoma.

    Questa possibilità, da parte dei genitori, ma anche degli operatori, non solo non viene vista come obiettivo possibile, ma anzi viene negata o rifiutata quando nasce o si manifesta.

Molte altre restrizioni provengono sicuramente dall’ambiente sociale. In questo, specie nelle persone cosiddette “benpensanti”, è spesso presente e serpeggia un immotivato o eccessivo senso di sfiducia,  ogni volta che un giovane disabile parla, sogna, si avvicina o intraprende un cammino affettivo sentimentale o peggio sessuale con un’altra persona normale o no.

C’è in questa sfiducia la paura ancestrale di tutto ciò che è diverso o che esce dai classici canoni di “normalità”. Tale distruttivo e castrante atteggiamento viene giustificato con la possibilità, che è sicuramente reale in alcuni casi, ma non in molti altri, di conseguenze  genetiche negative per la prole, oppure con la difficoltà che questi giovani riescano a gestire un rapporto così complesso come quello sentimentale, coniugale o familiare.

Pur tenendo conto di queste e altre limitazioni che sicuramente esistono e che non devono essere sottovalutate, i genitori, i familiari e gli educatori, devono riuscire però a porsi come obiettivo il graduale superamento dei reali problemi presenti e la conquista da parte del minore di relazioni affettive sempre più valide, complete e coinvolgenti.

Essi devono inoltre impegnarsi, giorno dopo giorno, fin dall’infanzia ad educare il giovane disabile in questi aspetti così importanti della realtà umana, in modo da renderlo pronto ad affrontarli e viverli con pienezza nel momento in cui si presenteranno o saranno richiesti. 

Nasceranno infatti sicuramente, e molto presto, sentimenti d’amicizia che hanno bisogno, per essere vissuti pienamente, di  buone capacità di dialogo e di ascolto, ma anche di disponibilità al sostegno, alla comprensione e all’aiuto della persona che ci è vicina.

A questi seguiranno i rapporti sentimentali veri e propri, per i quali è necessario aver sviluppato nel giovane o nella ragazza disabile una grande capacità di amare e di donare. Dovrà essere inoltre maturo in questi giovani, come in tutti, il rispetto per la vita, accanto alla capacità di sacrificio.

Infine, dovrà essere ben sviluppato il giusto senso di responsabilità.

Responsabilità verso se stessi e gli altri, tanto più grande quando si manifestano i primi impulsi sessuali, che non vanno sicuramente repressi ma educati ed indirizzati in modo tale che diventino non solo fonte di gioia e di piacere, ma anche strumento di dialogo, unione e crescita reciproca.

Per tale motivo, educare al senso di responsabilità significa anche saper accettare dei limiti, se ci sono, oppure riuscire ad affrontarli e superarli insieme, mano nella mano, se possibile.

 

Emarginazione ed integrazione



L’immagine che vi presentiamo evidenzia bene il concetto di emarginazione. Una donna con probabile handicap motorio, osserva tristemente un quadro, mentre al di là di un muro, che può essere visibile e concreto come le mura di un istituto o di una casa in cui il soggetto disabile resta segregato, oppure soltanto psicologico, altri, “i normali”, vivono la loro vita relazionale e sociale: cantano, ballano, leggono e giocano.

 

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L’INTEGRAZIONE

Quando pensiamo, invece, all’integrazione del soggetto disabile, ognuno di noi ha una sua immagine mentale.

Sono immagini molto spesso contrastanti; sono immagini, purtroppo, molto spesso negative.

Alcuni collegano questa realtà alle difficoltà, ai problemi che, ad esempio, un bambino diverso crea alla classe dei bambini “normali.” Altri, sempre nel caso di bambini inseriti nell’ambiente scolastico sottolineano pietisticamente la sua sofferenza, nel ritrovarsi in un ambiente “normale”, lui che normale non è; con le sue difficoltà nel capire, nel partecipare a ciò che avviene nella classe, a ciò che si svolge nella scuola, che si è aperta anche a lui, ma che ha difficoltà a integrare anche lui.

I genitori del bambino disabile, invece la pensano sicuramente in maniera diversa. Per molti di loro la scuola é sicuramente un punto fondamentale di riferimento per la crescita del figlio e spesso lottano per questa integrazione e cercano, in maniera spasmodica, di attuarla quanto prima possibile, quanto meglio possibile.

Ma di quale integrazione ognuno pensa e parla? Perché vi sono almeno tre livelli d’integrazione. Quindi, come società, dobbiamo deciderci a scegliere quale di questi livelli noi vogliamo raggiungere e rendere attuale. Perché non capiti di ingannare genitori e famiglie che già si sentono sviliti nei loro sogni e nelle loro aspirazioni, dal momento in cui si rendono conto delle difficoltà del figlio.

Primo livello: “ Stare insieme con gli altri.”

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C’è un primo livello che potremmo chiamare dello ”stare insieme con gli altri.”

Perché ciò avvenga il bambino o la persona normale e il disabile frequentano la stessa casa, la stessa palestra e scuola, vivono nella stessa classe, sono seduti nello stesso banco. Con la legge sull’integrazione scolastica la nostra società ha raggiunto quasi pienamente questo primo livello.

Buona parte dei bambini con difficoltà, spesso anche gravi, di tipo motorio, psichico e sensoriale, non affollano più gli istituti specializzati e neanche sono reclusi in una stanzetta della loro casa, come avveniva precedentemente, ma utilizzano la scuola del proprio quartiere, vanno nella stessa palestra, frequentano la stessa parrocchia. Questa non è una conquista così grande e importante come sembra. Per secoli, prima che l’illuminismo ed il razionalismo spingessero le società più evolute a segregare, pensando di curare ed aiutare meglio, le persone con disabilità negli istituti, queste vivevano nella società con gli altri, accanto agli altri.

Il disabile non era affatto segregato, come oggi si pensa, ma, a modo suo e con tutti i suoi limiti, partecipava alla vita della comunità e spesso, anche se era canzonato dai bambini più monelli, era protetto e coccolato da tutta la comunità degli adulti.

Secondo livello: ”Socializzare con gli altri”

 

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Il secondo livello d'integrazione si propone, oltre allo stare insieme, anche la socializzazione con gli altri.

In questo caso i genitori, gli insegnanti, gli educatori e gli adulti in genere si pongono come obiettivo non solo la presenza fisica del bambino disabile accanto ai normali ma anche la sua integrazione e comunione fatta di scambi, di amicizia, di dialogo e dono reciproco. Non accetteranno soltanto che il bambino disabile stia in classe, nei cortili o in palestra accanto agli altri bambini, ma lavoreranno attivamente affinché l’obiettivo della socializzazione si attui pienamente, cosicché la vicinanza e la presenza siano occasione di conoscenza, dialogo, dono e collaborazione. Cercheranno, ad esempio, di attuare un buon inserimento in gruppi giovanili così importanti per la crescita del bambino, sia per la maturazione che consegue la relazione con coetanei durante varie attività, (sportive, spirituali, sociali e civili), che per la possibilità di instaurare ed introiettare valide figure di adulti oltre quelle dei genitori.

Gli insegnanti, dal canto loro, approfitteranno di ogni sua conoscenza per farne partecipe gli altri. Quindi l’aiuteranno ad avere un’immagine positiva sia verso se stesso, che nei confronti dei suoi genitori, degli altri adulti e dei coetanei.

Di questa modalità d’approccio ne trarranno vantaggio tutti i bambini, sia quelli normali che disabili, in quanto lo scambio sarà prezioso per tutti. Ognuno però resterà al proprio livello di sviluppo, rimanendo quindi il bambino in situazione di handicap con i suoi limiti e quello normale con le sue  normali capacità.

 

Terzo livello: "Essere come gli altri."

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Il terzo livello d’integrazione possibile, che è certamente molto più difficile da raggiungere, lo potremmo chiamare dell’”essere come gli altri.”

In questo caso, ogni sforzo della società, della scuola, della famiglia dovrà tendere ad eliminare o ridurre in maniera significativa il deficit.

Che significa superare o limitare il deficit?

Significa diminuire, o se possibile annullare, gli effetti che la limitazione crea.

Ad esempio, un cieco ha mille difficoltà che nascono proprio dalla mancanza di apporti sensoriali fondamentali nel riconoscere, gestire e muoversi nella realtà che lo circonda.

Ha difficoltà di movimento. Ha difficoltà nella lettura, nella scrittura, nella relazione autonoma con gli altri; ma se, come abbiamo rappresentato nell’immagine, studiamo, sperimentiamo e poi forniamo a questa persona che ha tale grave deficit sensoriale una serie di ausili: un bastone con particolari caratteristiche tecnologiche con cui poter “sentire” gli ostacoli mediante un radar; dei marciapiedi in cui sia presente una striscia lievemente più rilevata su cui poter camminare sicura; dei semafori che l’avvisino quando può tranquillamente attraversare la strada; un cane guida che l’aiuti negli spostamenti; questa persona sarà in grado di muoversi agevolmente sia nella sua casa sia nella città; pertanto il suo handicap sarà notevolmente ridotto.

Se poi al cieco insegniamo a scrivere, con delle metodiche particolari ad esempio con il metodo Braille o con l’uso di computer che riconoscano la sua voce, il suo handicap sarà ancora più ridotto il bambino, infatti, potrà arricchire più facilmente la sua cultura e potrà esprimere i propri pensieri non soltanto a voce ma anche per iscritto.

Lo stesso può e dovrebbe avvenire per un bambino con ritardo mentale. Se facilitiamo gli apprendimenti o offriamo una serie notevole di stimoli in grado di sviluppare o utilizzare al meglio le sue ridotte capacità intellettive, il miglioramento che avrà nel comprendere, collegare e capire la realtà che lo circonda farà nettamente diminuire il suo handicap in quanto potrà relazionarsi con se stesso, con gli altri e con la cultura dell’umanità in modo più valido ed efficace.

Le condizioni indispensabili per una buona integrazione sono numerose:

1.    La prima condizione di cui dovremmo disporre è certamente il nostro cuore.

 

La nostra sensibilità e disponibilità dovrebbe riuscire a sentire vicino a noi, chi è diverso o ha più limiti di noi; ma anche a riconoscere “come noi” chi partecipa della nostra stessa umanità. Il nostro cuore e la nostra sensibilità ci fanno capire inoltre che il bambino disabile, i suoi genitori, la sua famiglia, non hanno bisogno delle nostre lacrime ma del nostro sorriso; non hanno bisogno, attraverso i tanti sussidi statali delle nostre elemosine, ma di impegno intelligente e costante. Non hanno bisogno di pacche sulle spalle, ma di interventi specifici ed appropriati.

2.    La seconda condizione è sicuramente la cultura e l’intelligenza dei normali.

Quindi, accanto alla disponibilità del nostro cuore, vi deve essere l’impegno delle nostre menti, perché quanto più grave è la disabilità, tanto più perfetti e adeguati devono essere gli interventi e gli strumenti per affrontarla e superarla. L’intelligenza e la cultura portano alla conoscenza dei problemi, delle difficoltà, ma anche alle possibili soluzioni. Se io so, se io conosco, posso meglio capire, posso meglio scegliere e operare.

Se io non conosco, se io non so, avrò grandi difficoltà nel proporre ed attuare dei percorsi integrativi validi e realistici. È nemica dell’integrazione, quindi, l’ignoranza, intesa come non perfetta conoscenza dei problemi e delle necessità dei soggetti con disabilità. L’ignoranza porta allo sperpero di denaro, tempo, energie e risorse umane. L’ignoranza porta al sospetto e alla paura. Stimola ad interventi errati, inutili o addirittura controproducenti.

 

 

Un esempio di ciò lo ritroviamo in quei “scuolabus per handicappati”, che scorrazzano fin dal mattino presto in città per raccogliere i bambini disabili e portarli a scuola. Cosa c’è di più nobile e generoso di questa iniziativa, caldeggiata dalle associazioni benefiche e portata avanti dagli assessori comunali più illuminati e sensibili? Come non magnificare gli amministratori che organizzano questo servizio in favore dei più bisognosi? Peccato che in questa gara di solidarietà e di bontà non siano stati evidenziati e soddisfatti alcuni bisogni fondamentali del bambino disabile. Un bambino con problemi è spesso un bambino più fragile degli altri, più immaturo, più bisognoso di coccole, attenzioni e rassicurazioni degli altri. Egli vorrebbe alzarsi, circondato dalle tenere attenzioni dei suoi, quanto più tardi è possibile.

Egli vorrebbe essere accompagnato a scuola dalla mano della mamma, del papà o al massimo dei nonni, perché queste sono le persone con cui ha voglia di dialogare lungo il tragitto casa - scuola, sono queste le persone che lo rassicurano, sono queste le persone che lo fanno stare bene.

Ed è da loro che vorrebbe l’ultimo bacio e saluto prima di entrare in classe, sono i loro occhi attenti e sorridenti che vorrebbe ricordare nelle ore scolastiche. Per tali motivi non è molto piacevole per lui alzarsi prima degli altri studenti, vestirsi e prepararsi in fretta per aspettare sotto casa il pulmino che lo porterà, dopo un lungo giro per la città, a scuola. Come non è assolutamente piacevole per lui essere scorrazzato in lungo ed in largo per la città, insieme ad altri bambini con problemi a volte più gravi dei suoi, in compagnia di un’anonima accompagnatrice che sgrida i soggetti più monelli o pericolosi, per poi essere scaricato in fretta e furia davanti alla scuola.

3.    La terza condizione è l’impegno personale, il personale sacrificio. 

Sono, pertanto, nemici dell’integrazione l’ignavia, l’indifferenza, la noia, il disimpegno. L’ignavia e l’indifferenza non sono odio, non sono acredine, non sono violenza. L’ignavia e l’indifferenza spingono a non porsi i problemi o costringono a porseli ed affrontarli in modo sbrigativo e superficiale, evitando ogni riflessione, ogni coinvolgimento profondo, operando spesso senza credere neanche in quello che si fa. Anche l’indifferenza, come l’ignoranza, porta allo sperpero di denaro, di tempo ed energie preziose.

4.    La quarta condizione che favorisce l’integrazione è l’ottimismo. 

Sicuramente, nella vita di ogni giorno, sono numerosi i motivi del pessimismo: lo scarso valore dato alla vita umana nonostante gli impegni di facciata; le tante morti per guerra, terrorismo, incuria; la constatazione che è il mondo della politica più deteriore, dell’economia e della finanza più aggressiva a prevalere sul mondo dei servizi, dei sentimenti, degli affetti e della ragione. Nonostante ciò abbiamo lo stesso il dovere dell’ottimismo ragionato. Abbiamo il dovere di credere in noi stessi, nei bambini che ci sono affidati, nelle loro famiglie e nei colleghi, nei superiori, nelle istituzioni. Abbiamo il dovere di mettere accanto ad ogni pianta che muore il seme nuovo della speranza. Leggevo che in Inghilterra vi è un grande parco dedicato non a un Lord della Corona, né a un nobile come ce ne sono tanti in quell’isola ma a un uomo qualunque. Un uomo amante delle passeggiate e della natura il quale, inerpicandosi tra le brulle colline che sovrastano il suo paese, ogni tanto si fermava per riposarsi. Mentre era intento a contemplare il brullo panorama, con un legnetto era solito fare un piccolo buco nel terreno nel quale inseriva il seme di una pianta d’alto fusto. Con il tempo quei semi germogliarono. Con il tempo e con la pioggia quelle piantine crebbero. E quando formarono un bosco e nel bosco si volle creare un parco affinché i compaesani e gli stranieri potessero godere di quello splendido polmone verde, si dovette dargli un nome. Al solito, vi fu chi lo voleva chiamare con il nome di un re o di un principe del passato o ancora abitante i palazzi del potere, ma prevalse l’idea di chiamarlo, e non potevano fare una scelta migliore, con il nome di quell’ometto, apparentemente insignificante che, con il suo ottimismo e fiducia nella vita, aveva messo sotto terra tanti tanti semi sperando che un giorno germogliassero e diventassero alberi grandi e maestosi.

Anche per quanto riguarda l’obiettivo di un alto livello d’integrazione che abbiamo chiamato dell’ “essere come gli altri”, le condizioni affinché lo si raggiunga sono numerose.

1.    La prima è che si abbia come obiettivo proprio questo livello d’integrazione e quindi si creda nella possibilità di raggiungerlo operando in questa direzione con passione e determinazione. Questa condizione non è così scontata come si potrebbe credere. Molti operatori: medici, pedagogisti, psicologici, non credono affatto che l’handicap possa diminuire o migliorare. Essi sono convinti, almeno in cuor loro, dell’inutilità di tutti gli sforzi. Spesso accettano con poca voglia di effettuare degli interventi considerandoli solo come pietosi tentativi, buoni a far tacitare la propria coscienza, oltre che le proteste e le pretese dei genitori.

2.    La seconda è che si creda nelle proprie capacità. Nelle capacità quindi degli operatori e dei genitori di migliorare le potenzialità del bambino diminuendo il suo handicap.

3.    La terza è che si creda anche nelle possibilità del bambino. Che si creda cioè che il bambino, ogni bambino, anche il più grave, abbia la possibilità di migliorare la sua condizione, e di superare gradualmente le limitazioni che la malattia gli ha provocato.

4.    La quarta é che la scuola diventi un luogo di studio, non soltanto un luogo in cui si studia. Luogo quindi in cui tutti gli insegnanti, coordinati dai dirigenti e con il supporto di esperti nel settore, facciano sistematicamente ricerca. Ricerca di strumenti, metodologie, tecniche e materiali sempre più perfetti e sofisticati, indispensabili allo scopo riabilitativo ed educativo.

5.    Altra condizione é che venga effettuata un’osservazione attenta del bambino e dopo, e soltanto dopo, nasca un progetto individuale a breve, medio e lungo termine, efficace, realistico, attuabile.

6.    È, inoltre, indispensabile che si superino le dinamiche negative e distruttive che vengono spesso a crearsi tra gli operatori e le componenti della scuola. È indispensabile che venga a stabilirsi un’alleanza, un’intesa e una sinergia fra tutte le forze non solo scolastiche ma anche extrascolastiche: tra la famiglia, gli operatori della sanità, il medico di base, le associazioni di volontariato; per raggiungere insieme questo mirabile scopo comune.

 

Quali gli svantaggi e quali i vantaggi dell’integrazione?

L’integrazione del bambino disabile, spesso, almeno nella fase iniziale dell’attuazione della legge, è stata vista come una violenza legislativa. Ricordo il nostro primo intervento come équipe psicopedagogica, con i genitori dei bambini “normali” schierati davanti alla scuola per ostacolare l’invasione di alcuni bambini disabili che, con la loro presenza, per la prima volta, venivano a turbare le normali attività didattiche. In seguito, pur accettando i bambini “diversi” per un senso di giustizia e uguaglianza, molti genitori, ma anche alcuni insegnanti, hanno continuato a sentire questa legge come una violenza, in quanto il bambino con handicap per un verso veniva visto come l’elemento estraneo e diverso che creava disagio al gruppo classe e alla scuola nel suo complesso, mentre, nel contempo, richiedeva molto impegno umano ed economico da parte dello stato e della comunità.

Si sottovalutavano allora e si sottovalutano ancora oggi, molto spesso, gli apporti positivi del bambino, pur portatore di handicap che sono notevoli, molto più di quanto si possa immaginare.

Si sottovaluta, ad esempio, il fatto che il bambino disabile, proprio in quanto essere umano bisognoso di cure e attenzioni particolari, accresce nell’animo degli adulti e dei minori il senso ed il valore della solidarietà, dell’altruismo, della fratellanza, mentre nel contempo dà ai suoi coetanei, stimoli formativi essenziali alla vita sociale: come il senso dell’accettazione, della donazione e dello scambio con chi è diverso da noi.

Valori questi indispensabili per capire e accettare anche le altre diversità e non soltanto quelle legate all’handicap: la diversità del luogo di nascita, la diversità del colore della pelle, la diversità di un’altra lingua o di un’altra religione.

Il bambino disabile fa comprendere, in definitiva, che la diversità è la norma e non l’eccezione nei rapporti umani. Pertanto non solo è da accettare, ma è da valorizzare in quanto fornisce alla società quella ricchezza di apporti diversi che la completano e la rendono più ricca e viva. Questo argomento mi fa pensare ad un’insegnante particolarmente intelligente e capace incontrata in una scuola elementare la quale, avendo nella stessa classe una bambina particolarmente bella e un’altra con una grave disabilità motoria che le dava un aspetto estremamente sgradevole, aveva accettato con gioia che la prima, la più bella della classe, desse all’altra, la più bruttina, l’assistenza e le cure necessarie durante la sua permanenza a scuola. Tra queste due bambine, infatti, era nata un’amicizia ed un’intesa particolare che le aveva unite profondamente nella diversità.

Quando incontrai quest’insegnante, per la prima volta, in occasione della visita alla bambina cerebropatica, ella mi disse che aveva in questo modo risolto due problemi: quello della bambina sgradevole e bisognosa di assistenza, ma anche il problema dell’altra bambina, la quale, sia a casa che a scuola, veniva continuamente vezzeggiata e valorizzata soprattutto per la sua bellezza esteriore, mentre nel contempo veniva trascurata la sua crescita spirituale ed umana.

L’esperienza con questi bambini ci permette quindi di capire che la nostra società, la società dell’effimero, dell’apparenza e del consumismo, commette un grosso errore quando vede come fonte primaria di soddisfazione soltanto la bellezza, il fascino, la forza e l’intelligenza. Sbaglia, quando vede come valori primari la ricchezza, gli oggetti che ne rappresentano i sintomi o il potere.

Queste esperienze ci fanno, inoltre, riflettere sul fatto che le gioie più preziose sono quelle dell’essere e non quelle dell’avere o del possedere, ci fanno intendere ancora che la relazione interumana non dovrebbe avvalersi soltanto di oggetti da dare e da ricevere in mille occasioni, come spesso avviene oggi: onomastici, compleanni, promozioni, Natale, prime comunioni ecc. ma dovrebbe basarsi sullo scambio di caldi sentimenti di dialogo, attenzione, affetto, gratitudine e amore. Ci insegnano che gli oggetti quando facciamo un regalo, dovrebbero essere solo un tramite, un espediente per far comprendere all’altro che noi gli vogliamo bene, gli siamo vicini e che il nostro cuore è accanto al suo.

Il bambino disabile riesce quindi ad inserire, con la sua presenza, nuovi e più maturi parametri nella nostra vita, aiutandoci a diventare più ricchi nell’animo, più responsabili, più maturi, più forti.

E quanto abbiamo bisogno oggi di stimoli ad una maggio-re maturità e responsabilità! Oggi che i nostri ragazzi non riescono a diventare grandi, non riescono a diventare responsabili e maturi a causa delle mille cose futili di cui li circondiamo e copriamo: il vestito firmato, le scarpe griffate o all’ultima moda, gli oggetti con cui riempiamo la loro stanza mentre impoveriamo il loro cuore. Sono questi comportamenti, stimolati dalla società dei consumi, che impediscono loro di crescere attraverso le difficoltà e le conquiste.

 

Ma che vuol dire diventare più maturi, più forti, più grandi?

Significa riuscire a non soccombere alle prime difficoltà, alle prime sofferenze. Significa riuscire a resistere ai nuovi flagelli dell’umanità: come l’indifferenza, l’apatia, la droga, il suicidio, l’alienazione.

Da ciò possiamo capire come la presenza di un bambino disabile nella scuola, sia preziosa per la maturazione delle future generazioni.

Senza dimenticare che questa presenza è fondamentale per la ricerca psicopedagogica più avanzata. Questa presenza spinge gli specialisti del settore ad effettuare nuove e più incisive esperienze. Essa incoraggia a scoprire nuovi strumenti che facilitino l’apprendimento e la comprensione; stimola la messa a punto di nuove tecniche, preziose non soltanto per i bambini con disabilità, ma anche per i bambini normali. Ricordiamoci, infatti, che mentre gli strumenti e le tecniche utilizzate normalmente per i bambini normali non sempre sono valide per i bambini handicappati, tutto ciò che va bene per un bambino disabile va benissimo, a fortiori, per i soggetti normali.

È superfluo sottolineare, infatti, che molti dei nuovi materiali didattici e giochi educativi, con cui i nostri figli “normali” giocano e studiano, sono stati creati per i bambini in difficoltà e poi, come preziosa ricaduta della ricerca nell’ambito speciale, sono utilizzati da tutti i bambini.

Allora benvenuti. Benvenuti nelle nostre classi, nella nostra società, insieme a noi, a quelli che sentono, amano e sono come noi.

LA SOCIALIZZAZIONE

La socializzazione con i coetanei crea numerose problematiche che non sempre vengono affrontate correttamente.

Ad esempio spesso non si tiene conto che la socializzazione nasce dall’interno del bambino e non dall’esterno. É nel suo animo, è nella sua mente che stanno i presupposti affinché l’Io del bambino accolga gli altri, li accetti, li cerchi e desideri, con loro instauri un dialogo efficace.

Nei processi di socializzazione entrano in gioco varie componenti: l’età, la maturità affettiva, la situazione psicologica.

 

L’età

La socializzazione avviene attraverso varie tappe. La prima è quella che permette al bambino di stare bene con se stesso e con la propria madre. Il rapporto con la madre è il primo basilare pilastro dal quale possono partire gli altri momenti di socializzazione. Solo se il rapporto e la comunicazione con la figura materna è stato positivo e creativo, il bambino si aprirà al padre e poi, successivamente ma gradualmente, alle altre figure: fratelli, nonni, zii, amici, compagni di scuola, insegnanti, estranei.

Se il rapporto con la madre ed il padre presuppone un’età mentale di pochi giorni, il rapporto con i nonni, i fratelli e gli zii presuppone un’età mentale di qualche mese. Quello con i cugini o amici con i quali vi è una frequentazione molto intensa, necessita di circa due – tre anni. Quello con i compagni di una scuola materna almeno tre - quattro anni. Quello con i compagni di scuola elementare almeno cinque – sei anni di età mentale.

Non sempre questi limiti riguardanti l’età vengono rispettati. Spesso viene consigliato l’inserimento in scuola materna a bambini che ancora avrebbero bisogno del caldo nido delle braccia materne o della protezione della loro casa. Spesso si inseriscono bambini ritardati nella scuola elementare quando ancora avrebbero bisogno di spazi liberi e gioiosi come quelli presenti nelle scuole materne. In tal modo, non solo non viene conquistato nulla sul piano della socializzazione, ma il disagio psicologico che queste situazioni comportano limita di molto anche la possibilità di acquisire elementi cognitivi (linguaggio, autonomia, sviluppo logico e della percezione, pregrafismo ecc.), rendendo vano ogni tentativo volto all’apprendimento.

La serenità interiore.

Se l’età mentale è adeguata e l’io del bambino è maturo e sereno, egli coglierà ogni occasione per dialogare, giocare, collaborare, scambiare e legarsi affettivamente agli altri. Se l’io del bambino è immaturo, spaventato o fragile,  gli altri coetanei e gli ambienti sconosciuti spesso rappresentano per lui solo minaccia, limitazione, disturbo, inquietudine ed ansia. 

È indispensabile in questi casi un attento esame del minore teso a valutare l’impatto con una realtà nuova e diversa,  come può essere un’aula scolastica, con figure di adulti e coetanei con cui non si è instaurato né un legame affettivo, né un rapporto di fiducia.

Bisogna valutare pertanto:

1.    il grado di serenità del bambino in tutte le occasioni della vita quotidiana;

2.    l’avere o no conquistato lo spazio fisico e psicologico attorno a lui. Segnali positivi si hanno quando il bambino non ha paura di spostarsi non solo nella sua stanza ma da una stanza all’altra della casa, e non teme di  restare nella casa dei nonni, degli zii, e degli amici o compagni di gioco, con i quali si intrattiene piacevolmente senza problemi;

3.    altri segnali positivi sono dati dal superamento del legame con gli oggetti con i quali vi è un particolare attaccamento. La sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto, non sono più cose di cui non può fare a meno. Può accettare e accetta con piacere, per qualche ora altri oggetti per giocare, altri oggetti con cui alimentarsi o adempiere alle funzioni fisiologiche.

Se questi segnali non sono evidenti, l’inserire il bambino disabile in un ambito istituzionale: asilo nido, scuola materna o scuola elementare diventa un trauma ed una forzatura che potrebbe portarlo a regredire a stadi precedenti in alcuni o in tutti i settori evolutivi, impedendogli una normale crescita affettiva e relazionale.

I campanelli d’allarme che, in queste situazioni di disagio, i bambini lanciano sono abbastanza precisi: il pianto, la chiusura, la tristezza, la malinconia, il rifiuto di andare a scuola, i sintomi somatici (cefalea, vomito, disturbi gastrointestinali). Ebbene questi campanelli d’allarme devono essere prontamente riconosciuti e accolti.

Purtroppo, non sempre questo avviene, in quanto è ampiamente sopravvalutato l’apporto scolastico nei bambini disabili rispetto alla sofferenza subita. Conseguentemente si ottiene poco o nulla sul piano della crescita didattica ed intellettiva, mentre nel contempo si aggiunge all’handicap organico anche quello psicologico che fa peggiorare di molto il futuro relazionale e sociale di questi minori.

 

Handicap ed integrazione

 

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È una cosa rara la patologia?

Il fatto che la patologia non sia una cosa rara lo tocchiamo con mano ogni volta che andiamo dal nostro medico di famiglia e siamo costretti a fare la coda solo per ottenere una ricetta o peggio, quando dobbiamo affrontare un esame clinico particolare e vi è una lista d’attesa di qualche mese. In queste ed in molte altre occasioni ci accorgiamo di come la malattia non sia l’eccezione ma spesso, purtroppo, la regola.

E per quanto riguarda l’handicap? È una cosa rara l’handicap?

Sicuramente la disabilità prima o poi nella vita colpisce un po’ tutti. Tutti infatti prima o poi subiamo una malattia o un trauma che ci rende, per un periodo più o meno lungo, disabili. La disabilità ci colpisce da anziani, quando, per camminare ci facciamo sostenere da un bastone o da un figlio compiacente, o quando, per salire al nostro piano, non possiamo fare a meno dell’ascensore. Ci colpisce dopo i quaranta anni, ad un’età in cui dallo schermo TV tutti ci vogliono convincere che siamo ancora giovanissimi, mentre ci accorgiamo che per leggere abbiamo bisogno di inforcare gli occhiali o allungare le braccia a più non posso.

Ma anche da ragazzi l’handicap e la disabilità sono pronti a ghermirci. Penso, ad esempio, a quando, dopo essere saliti baldanzosi con la seggiovia sulle cime innevate ci lanciamo dall’alto con gli sci appena comprati, vestiti all’ultima moda, sicuri di fare bella figura ed invece roviniamo a valle nelle pose più scomposte e con qualche osso rotto.

A parte le malattie ed i traumi, spesso l’handicap si manifesta in forme più sottili ma altrettanto pesanti: come quando ad esempio non riusciamo a relazionarci efficacemente con i nostri genitori; o quando non riusciamo a trovare le parole giuste nei confronti dei figli ribelli per far capire loro i bisogni educativi; oppure quando con i colleghi o l’altro coniuge, l’accordo e la pace sembrano un miraggio irraggiungibile.  Abbiamo usato vari termini: malattia, disabilità, handicap ma questi termini sono sinonimi? No, non sono sinonimi.

La malattia è l’evento morboso che ci può colpire (virus, batterio, trauma ecc).

La disabilità indica la lesione oggettiva che possiamo avere a causa di un evento morboso, ad esempio la frattura del femore, un’ulcera gastrica o il ritardo mentale.

L’handicap è invece relativo all’ambiente sociale e culturale e quindi all’organizzazione della società in cui viviamo, che può strutturarsi esaltando le differenze ed emarginando la persona colpita da disabilità, come invece può organizzarsi e strutturarsi lottando con ogni mezzo per ridurre al minimo il divario tra noi e gli altri, tra la persona disabile ed i “normali”. Per tale motivo vi può essere una grave disabilità ma un piccolo handicap, oppure, all’opposto, una lieve o nessuna disabilità può comportare lo stesso un grave handicap. Può capitare, ad esempio, di ritrovarsi in un paese straniero senza conoscere la lingua e di non sapere come farsi ricondurre nell’albergo che si è scioccamente lasciato, sicuri di sapersi orientare.

Oggi si tende ad usare il termine diversamente abile o diversabile, per sottolineare la presenza di altre abilità che è giusto ed importante far emergere e valorizzare. Qualsiasi denominazione ha i suoi pregi e i suoi rischi. L’uso di quest’ultimo termine, che ha il pregio di sottolineare gli elementi positivi presenti in ogni persona, potrebbe comportare, ad esempio, un’accettazione incondizionata della disabilità e dell’handicap e quindi una limitazione nelle prospettive e nell’impegno nell’affrontarli e superarli.

 

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In questa sezione troverai molti articoli riguardanti questa patologia.

 

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Il più importante programma di stimolazione logica e cognitiva: oltre 9.000 schede, per un totale di 27.000 prove-stimolo, distribuite in undici livelli, uno per ogni età mentale o cronologica.

 

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Tanti idee e suggerimenti per i bambini disabili.

 

 

 

Conosciamo meglio i nostri bambini.http://www.cslogos.it/uploads/images/BAMBINI/Diapositiva32.JPG

 

 

 

 

http://www.cslogos.it/uploads/images/ADULTI/Diapositiva3.JPGIn questa sezione sono raccolte le esperienze più significative effettuate dagli operatori e dai genitori, che sono state fatte pervenire al Centro Studi Logos di Messina

 

 

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