INFANZIA E ADOLESCENZA

Latest Tips & Tricks About Baby Care

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Il bambino ed il gioco

 

 

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Uno degli elementi fondamentali per un'infanzia soddisfacente e ricca è la possibilità di giocare. Il gioco è forse l'elemento comune più importante e frequente tra gli animali superiori. Vi è, inoltre, un rapporto diretto tra sviluppo intellettivo e cognitivo dell'essere vivente e l'attitudine a giocare. Gli animali inferiori, che hanno istinti ereditari già prefissati, non giocano affatto. I loro piccoli si comportano come gli adulti fin dall’inizio della loro esistenza e pertanto il patrimonio della specie non ha ulteriori sviluppi. Inoltre, le capacità degli animali sono in relazione alla quantità e alla durata che essi dedicano al gioco, in quanto è attraverso di questo che essi acquisiscono sempre di più esperienze. Il piccolo agnello gioca poco, il gattino molto di più, gli scimpanzé giocano anche da adulti, ma nessuno ha la capacità di giocare con tanta continuità ed assiduità come il piccolo dell’uomo.[1]

Ma anche l'adulto, uomo o donna che sia, non riesce a fare a meno del gioco in alcuni momenti della giornata, in quanto questa attività gli permette alcuni necessari e indispensabili momenti di scambio, evasione, rilassamento, piacere e gioia. Mediante il gioco, inoltre, l'adulto cerca di tenere ben allenato sia il cervello sia il corpo.

Per il bambino il gioco rappresenta la strada maestra per la sua crescita. Pertanto il gioco è:

  • ·         Piacere. Il bambino gode di tutte le esperienze fisiche e affettive vissute durante il gioco.
  • ·         Strumento di esplorazione e conoscenza. Del proprio corpo e del corpo degli altri, degli oggetti inanimati, del mondo che lo circonda e della natura. Il gioco è anche esplorazione e conoscenza delle emozioni e dei sentimenti.
  • ·         Stimolo allo sviluppo motorio e intellettivo. Mediante il gioco il bambino stimola e sviluppa il suo pensiero, la progettualità, l’agilità, la forza, la memoria, la coordinazione occhio-mano, la spazialità.
  • ·         Veicolo privilegiato di comunicazione e socializzazione. Con il gioco il bambino allarga il contesto delle sue relazioni; apprende a comunicare più efficacemente con gli altri. Comprendendo il punto di vista di chi ha di fronte, diventa consapevole dei suoi sentimenti e dei suoi bisogni. Impara l’importanza delle regole e la loro accettazione. Il gioco allarga i primi scambi sociali del bambino con gli adulti e, fino ai tre anni, è la sua sola modalità relazionale.
  • ·         Mezzo per lo sviluppo della creatività e della fantasia. Mediante oggetti semplicissimi: qualche legnetto, poche pietre, un po’ di fango, oppure mediante una matita e qualche foglio uniti a tanta immaginazione e inventiva il bambino riesce a costruire mille favole e mille storie, nelle quali si muovono eroi e principesse, draghi e macchine volanti, robot e armi spaziali.
  • ·         Contatto e controllo delle proprie emozioni. Giocando con gli altri il bambino riconosce la gioia della vittoria, il sapore bruciante della sconfitta, il calore dell’amicizia, dell’affetto e dell’amore. Impara ad affrontare i piccoli contrasti e le tensioni che si avvertono nel rapporto con se stessi e con il prossimo. ‹‹Allorché assume la veste di gioco simbolico, drammatico, di ruolo e di finzione assolve, attraverso rituali iterativi e meccanismi di identificazione e di proiezione, ad una preziosa funzione liberatoria e terapeutica, esorcizzando paure e angosce e liquidando impulsi aggressivi, distruttivi e vissuti di ostilità››.[2] 
  • ·         Palestra per l’autonomia personale e sociale. È anche mediante il gioco che il bambino acquista fiducia in se stesso e negli altri e quindi impara a fare a meno dell’aiuto e del supporto continuo dei genitori nei suoi bisogni quotidiani.
  • ·         Occasione per la sua formazione morale e civile. Nel gioco di gruppo, governato da regole fisse e cogenti, il soggetto impara a osservare le norme, a improntare il proprio comportamento a principi di lealtà, di correttezza e di rispetto per l’avversario. Apprende a testimoniare atteggiamenti di fedeltà al proprio gruppo o banda. Riconosce l’importanza dell’avvicendamento, della cooperazione, della distribuzione dei compiti, della turnazione. Tutte queste acquisizioni confluiscono nel più ampio capitolo della formazione dell’uomo e del cittadino. 
  • ·         Occasione per rafforzare la volontà. Molti giochi di pazienza, di costruzione, competitivi, di squadra, rafforzano la volontà, plasmano il carattere, servono anche ad instaurare un progressivo controllo sulle proprie emozioni e pulsioni. 
  • ·         Opportunità per recuperare un contatto con la natura.  Il rapporto diretto con la natura è fondamentale nello sviluppo dei minori, come degli adulti. Per milioni di anni l’essere umano si è sviluppato attraverso il contatto con i fiori e i frutti delle piante, con la vivacità e l’amore degli animali, con le acque dei fiumi e dei ruscelli.

I vari tipi di giochi

 

 

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I primi giochi del bambino, che sono poi giochi di esplorazione della realtà nella quale si trova immerso, sono fatti con la madre e con il proprio corpo. Quando la mamma lo nutre egli tocca e stringe il seno di lei e, successivamente, il viso e i capelli. Più tardi egli giocherà con le proprie mani e con i propri piedi. Sono i giochi sensomotori o giochi – esercizio, mediante i quali il bambino perfeziona i movimenti, i gesti, costruisce gli schemi motori.

Il bambino, inoltre, mediante l’imitazione dei suoni, della mimica facciale, e poi delle parole, impara a riconoscere e poi ad esprimere le emozioni. Gli aspetti presenti nel gioco possono essere quindi di vario tipo. Diffusissimi i giochi nei quali i bambini sono stimolati a costruire qualcosa (giochi di costruzione) o quelli nei quali si cimentano a confrontarsi con i loro coetanei ma anche con i genitori e gli adulti, nei quali bisogna utilizzare l'attenzione, la bravura, l'agilità, le conoscenze (giochi di abilità). Se un bambino, mentre la sua mamma spolvera o lava la casa, le chiede una pezzuola per aiutarla, siamo in presenza di un gioco imitativo. Lo stesso quando due amichette si ritrovano insieme per vestire i loro “figli” e poi preparare loro un buon pranzetto e infine portarli a passeggio o a letto dopo averli cullati a lungo. Se dopo aver visto un film o un cartone animato, un bambino si arma di spada e scudo spaziale ed è pronto a lottare con il suo amichetto per salvare il mondo, siamo in presenza di un gioco rappresentativo. Quando un bambino piccolo e fragile si finge adulto forte, così da correggere la realtà modificandola in funzione dei suoi desideri, siamo in presenza di un gioco compensativo. Vi sono poi i giochi che hanno la funzione di eliminare le esperienze penose o inquietanti, di compensare le frustrazioni rivivendole per mezzo della finzione (giochi funzionali).

Nei giochi sociali il bambino sperimenta azioni, emozioni e comportamenti di persone, situazioni e ruoli. Quando gioca alla mamma e al papà assume gli stessi atteggiamenti dei genitori, e acquista una certa comprensione di quello che loro dicono e fanno. Si sviluppano in tal modo le capacità empatiche che permettono di mettersi nella prospettiva dell’altro. In quei momenti sente come propri il loro potere e le loro infinite doti. Questo tipo di giochi sviluppa le abilità sociali, il senso del sé, acquisisce e perfeziona le norme che regolano la condotta umana.

Nei giochi il bambino può attuare tutto quello che non può fare nella realtà. Ed è lo stesso mondo dei giochi che diventa una specie di rifugio dalle continue esigenze del mondo esterno, al quale potrà tornare più disteso.[3] Ma i giochi non sono soltanto imitazione. Quando copia la mamma che cucina, cuce, fa la spesa, cura i piccoli, non solo imita la propria madre o le madri in generale, ma sperimenta nuove modalità di comportamenti ed atteggiamenti filtrati dalla sua personalità e dai suoi bisogni individuali. In altri giochi è la fantasia ad essere utilizzata e messa in primo piano per costruire fortezze e castelli nei quali vivono fate, re, regine e draghi, ma anche eroi pronti a salvare i più deboli e indifesi (giochi immaginativi). Nello spazio di due ore il bambino di due anni e mezzo partecipa in media a sei - sette situazioni immaginarie. Per finire egli ama anche i giochi didattici nei quali è predominante il piacere di imparare (giochi di acquisizione).

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Giochi guidati

 Giochi liberi

Giochi liberi autogestiti

I giochi possono essere liberi o guidati dai genitori o da altri adulti.

Entrambi sono utili ma sono nettamente da preferire i giochi liberi, in quanto permettono al bambino di utilizzare questo primario strumento formativo tenendo conto dei suoi reali bisogni del momento. La capacità e la disponibilità dell'ambiente che circonda il bambino nel permettere e favorire il gioco libero è, pertanto, fondamentale non solo per lo sviluppo delle sue qualità motorie: riflessi, rapidità, gradualità e coordinazione motoria, ma anche per l'acquisizione di elementi di tipo culturale, psicoaffettivo e sociale, indispensabili per stabilire con i coetanei, con gli adulti e con l'ambiente nel quale vive, un rapporto sereno e dialogante.

 

Il Gioco Libero Autogestito


In questo particolare tipo di gioco il protagonista il bambino. Egli sceglie il gioco da effettuare, il tempo da dedicare a questo gioco, con quale altro gioco o attività sostituirlo, se fare giocare l'adulto oppure no. L'adulto, quando richiesto o accettato dal bambino collabora con lui, lo aiuta nel gioco scelto dal minore.

Questo tipo di gioco è indispensabile attuarlo quando il disturbo psicologico del bambino è particolarmente importante (bambini con sintomi di autismo, bambini con disturbi comportamentali, bambini gravemente instabili) per cui non riuscirebbe a giocare in modo costruttivo con  i propri coetanei, utilizzando il gioco libero oppure non accettano e rifuggono dal gioco guidato con gli adulti.

Per quanto riguarda i compagni di gioco questi possono essere della stessa età (giochi con i pari) o di età diverse. Anche in questo caso le modalità e gli scopi del gioco sono differenti. Quando i compagni di gioco hanno la stessa età o sono di età vicina alla sua, il bambino può attivarsi in modo più libero, sviluppando la fantasia e, durante la rappresentazione del gioco, può effettuare delle esperienze di relazioni sociali.[4] In tutte le società dov’è possibile il gioco libero con i coetanei, si forma una spontanea cultura dei giochi che si tramanda da una generazione all’altra. Ciò purtroppo non avviene quando il gioco è organizzato dagli adulti o ancor peggio, è imposto dagli strumenti elettronici o dalle mode del momento.

Bisogna, inoltre, valorizzare anche il gioco solitario. Se il bambino ha bisogno del contatto con gli altri ha anche bisogno di solitudine, di tranquillità, di attività autonome durante le quali, pasticciando nel suo angolino, con i suoi tesori personali, egli fa importanti scoperte e impara ad agire senza essere motivato o guidato dagli altri.[5]

Il gioco dei bambini oggi

Nelle cosiddette “società avanzate” le possibilità di gioco dei bambini sono drasticamente diminuite. Tutto sembra concorrere a limitare i giochi liberi con il gruppo dei pari.

Intanto sono diminuiti notevolmente i cortili e gli spazi attorno alle case e vicino alle case dove i bambini potevano, in passato, organizzandosi per conto proprio, giocare liberamente con materiali scelti da loro stessi sul posto.

Anche l’utilizzo degli spazi verdi predisposti dai Comuni richiede ai genitori una disponibilità che spesso non hanno, in quanto è necessario che almeno uno dei genitori sia libero. Ciò è sempre più difficile in una società nella quale il lavoro ha invaso, con Internet, anche il tempo libero e le domeniche. Inoltre, a causa delle aumentate ansie dei genitori per la salute fisica dei bambini, per uscire di casa non vi deve essere troppo freddo ma neanche troppo caldo ed è necessario avere la macchina a disposizione. Ma anche quando il bambino viene portato presso la villetta del paese o della città, non riesce ad organizzare dei giochi liberi e spontanei, a causa della presenza di coetanei sempre diversi. Il più delle volte, non avendo alcuna possibilità di vera socializzazione e reale scambio comunicativo, il bambino è costretto, in modo anonimo, a servirsi dei soli giochi messi a disposizione dal Comune.

In compenso, è aumentato il traffico di auto che rendono pericolose le strade e di moto le quali riescono a entrare rombando anche nei luoghi più difficili e delimitati.

A causa del calo delle nascite, dei compiti scolastici sempre più numerosi e delle varie attività sportive, musicali o sociali che il bambino deve effettuare in quanto programmate dai genitori o dalle scuole, scarseggiano i bambini della stessa età e dello stesso sesso con i quali poter giocare.

Sono notevolmente aumentate le paure dei genitori e familiari a causa di trasmissioni televisive che amano ripercorrere per mesi i più truci fatti di cronaca, specie quando a questi fatti sono interessati dei minori. Per non parlare del pericolo dei pedofili che, in base a quanto viene riferito in certi periodi dalla TV e dai giornali, sembrano nascondersi dietro ogni angolo di casa. Ciò comporta un’amplificazione notevole di ansie e paure che impediscono a molti genitori di lasciare giocare liberamente i propri figli vicino o attorno alla propria casa o nel proprio quartiere.

È notevolmente aumentato il tempo trascorso dai bambini davanti alla TV, alla consolle dei videogiochi, o alla tastiera del computer, del telefonino e degli altri strumenti elettronici.

È diminuita la presenza dei genitori in casa, sia a causa del lavoro, sia per le sempre più numerose separazioni e divorzi che comportano spesso, per la gestione del minore, la presenza di un solo genitore.

Anche a voler giocare all’interno delle case queste, proprio perché più ricche di ninnoli e oggetti di pregio come tappeti, quadri, mobili costosi, mal si adattano all’impeto infantile e accentuano nei genitori il timore che il piccolo possa danneggiare questi pregiati oggetti. Ciò spinge i genitori a limitare notevolmente il gioco libero, preferendo che i bambini stiano “buoni e tranquilli” davanti ad uno schermo, non importa quale.

 Le conseguenze.

La notevole diminuzione se non la scomparsa, del gioco libero tra pari ha una notevole ripercussione sia sulle capacità motorie dei bambini sia soprattutto sul loro sviluppo sociale, relazionale ed affettivo.

Poiché sempre più spesso essi sono lasciati a casa, liberi di utilizzare anche per ore solo i vari strumenti elettronici, o sono lasciati a scuola per il tempo pieno, il tempo prolungato o presso insegnanti di doposcuola, si evidenziano sempre più frequentemente numerosi segnali di stress o chiari disturbi psicoaffettivi con ansia, irritabilità, instabilità motoria, disturbo delle capacità di attenzione, scarso rendimento scolastico.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 21.

[2]  A. NOBILE, “Gioco e famiglia” In La famiglia, anno XXVIII, luglio – agosto, 1994, p. 52.

[3]  Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 71.

[4]  Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 104.

[5]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 136-137.

 

 

Il bambino durante l'età scolare

 

Quando il bambino passa dalla scuola dell'infanzia alla scuola elementare, sperimenta un'ulteriore trasformazione della sua vita sociale. Le sue energie si distolgono dai rapporti intimi con la sua famiglia e sono investite in due attività principali: i rapporti tra pari e l’istruzione. Questo periodo, che va dai sei –sette anni, ai dodici anni, si chiama periodo di latenza in quanto i desideri erotici, le gelosie e le paure della prima infanzia ad esse collegate non si evidenzieranno più, finché i mutamenti psicologici e sociali della pubertà li faranno di nuovo rivivere.

Nell’età scolare il bambino è costretto ad adattarsi a persone diverse dai suoi genitori, la cui immagine si riduce progressivamente. In questo periodo, inoltre, egli perde l'egocentrismo, l'animismo, la logica precausale e la morale autoritaria. Nei suoi rapporti sociali può manifestare un atteggiamento democratico e cooperativo.[1] Diventano possibili le discussioni, per cui il bambino dà valore non solo alle idee proprie ma anche a quelle degli altri bambini. Nei suoi ragionamenti tiene conto di ciò che osserva. Comincia a capire che le parole, le regole e i pensieri, sono distinti dagli oggetti e dalle attività concrete del mondo. Nelle spiegazioni dei fenomeni fisici usa i concetti di tempo, forze e utilizza la logica reale. [2] Scopre la vita sociale ed il rispetto reciproco,[3] in quanto è costretto ad adattarsi ad un contesto ampio e variegato con delle persone diverse. Fa l’esperienza di un ambiente che si presenta, dal punto di vista affettivo, molto più indifferente verso di lui rispetto a quello vissuto in famiglia con i suoi genitori. Nella classe e nella scuola egli è solo uno dei tanti, fa parte di un gruppo, è alla pari con gli altri e non è più, com’era prima in famiglia, l’oggetto preferito di tenere premure. Deve adattarsi a inevitabili costrizioni cui non è abituato. Questo svezzamento affettivo, se non è eccessivo e se il bambino è abbastanza forte per sostenerlo, lo rende più vigoroso ed autonomo. A questa età la competizione diventa intensa. I paragoni con i suoi compagni riguardano l'intelligenza, la simpatia e la bravura. [4]

 Le amicizie.

Questa è anche l’età nella quale entrano in gioco dei forti legami affettivi e di intimità con l’amico o l’amica del cuore con i quali è bello parlare, sedere accanto nello stesso banco, ritrovarsi dopo la scuola a casa dell’uno o dell’altro, vivere insieme le feste di compleanno. In tal modo viene ad essere rafforzato il senso di sicurezza: ‹‹Oltre la mamma e il papà vi è anche Giulio che mi può aiutare e sostenere perché è mio amico .›› A ciò si aggiunge una chiara e netta identità e ruolo sessuale. Noi siamo maschi e quindi…ci comportiamo da maschi.

La preadolescenza.

Nella preadolescenza, che inizia verso gli otto anni e mezzo, gli amici assumono sempre più importanza. Essi non sono solo utili per giocare, ma diventano affettive realtà, preziose per il dialogo ed il confronto. Gli amici ci permettono di vederci con gli occhi di un altro coetaneo. Con loro è possibile parlare di tutto: ci si può confidare della propria vita intima, dei rapporti con i genitori e con gli insegnanti. Con loro è anche possibile discutere delle difficoltà che si possono incontrare con il gruppo dei pari. Agli amici si vuole bene e, pertanto, vi è da parte del preadolescente lo sforzo di venire incontro ai loro bisogni e alle loro necessità. Il legame che li unisce a loro è saldo, forte e intenso di emozioni. Quando essi si allontanano, per percorrere altre strade con altri coetanei, il preadolescente avverte gelosia e dolore. Invece quando preferiscono loro ad altri compagni di gioco, si sentono orgogliosi e sicuri. Con gli amici collaborano per risolvere i problemi che possono farli soffrire. Con essi riescono a trovare dei compromessi anche perdendo qualcosa di proprio. Soprattutto nel gruppo dei maschi, con gli amici si organizzano dei giochi o si formulano dei piani per raggiungere determinati obiettivi, nei quali si mette a confronto forza, agilità, coraggio, intraprendenza.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1]  Cfr. J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 47.

[2] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando Armando Editore, 1970, p. 21

[3] Cfr. J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 63.

[4] S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Roma, Armando Armando Editore, 1970, p. 28.

 

 

 

 

Il bambino dai tre ai cinque anni

 

Durante tutta l’età evolutiva vi è fame affettiva.

Questa sarà soddisfatta fino ai diciotto venti mesi prevalentemente dalla madre; successivamente le richieste affettive del bambino coinvolgono tutto il nucleo familiare: padre, zii, fratelli, cugini. A questa età egli non è più membro di una coppia, ma membro di un gruppo. Soddisfare questa sua fame affettiva è condizione necessaria ed indispensabile per una normale crescita psicologica. Quando ciò non avviene la carenza affettiva si manifesterà con i sintomi caratteristici dell’età. Ad esempio, con atteggiamenti di opposizione, ansia, insicurezza, comportamenti aggressivi, enuresi, encopresi, crisi di pavor nocturnus, isolamento ecc..

Mentre fino ai tre anni, come abbiamo detto, il rapporto con i coetanei è modesto e poco produttivo, dal terzo anno in poi il bambino inizia a prenderli in considerazione in modo positivo e riesce a scambiare e comunicare con loro in modo efficace e sereno. Con i suoi compagni, che prima vedeva come elementi di disturbo, adesso riesce ad organizzare qualche gioco semplice. Ad essi può, ora, spiegare i suoi bisogni ed i suoi svaghi. Può raccontare quanto avviene attorno a lui, nella sua casa e nella sua famiglia. Può proficuamente attirare la loro attenzione.

L’età dei perché.

È sempre a questa età che il bambino non cerca soltanto il nome degli oggetti ma la loro funzione ed il loro uso. È l’età dei perché. Con le domande il bambino acquisisce una miriade di informazioni, ma nel contempo ha la possibilità di attirare l’attenzione degli adulti e di dialogare con loro, così da trovare mediante il contatto affettivo serenità e sicurezza. [1]

In questo periodo la madre cerca di insegnare al figlio il controllo delle feci, così da rimanere pulito. Il bambino, pertanto, capisce che le feci possono essere trattenute e lasciate andare. Se la madre è buona con lui e se vi è un buon rapporto tra i due, è bello soddisfare i suoi desideri e ciò dà soddisfazione e orgoglio al bambino in quanto, se non si sporca, la madre lo approva ed elogia e lui si sente fiero.  Ma se ciò non avviene, se la cacca gli scappa ancora nel pannolino e la madre è costretta a pulirlo prova vergogna e umiliazione in quanto avverte la disapprovazione della madre e degli altri familiari. [2]

In questo periodo il bambino è in grado di ricordare i divieti dei genitori ogni qualvolta sorge nella sua mente un impulso proibito. I suoi genitori e le norme e regole ad essi collegati, diventano, gradualmente, la voce della sua coscienza. Pertanto il senso di colpa diventa grande quando le norme, le direttive ed i divieti, sono eccessivi e gli atteggiamenti autoritari sono frequenti. Poiché, inoltre, per il bambino di questa età, ogni misfatto presuppone una giusta punizione, in quanto per lui vige la legge del taglione, egli si aspetta la giusta sanzione e quando questa non viene dall’esterno si autopunisce.[3]  

A questa età il suo mondo interiore comprende ora anche il futuro. Il bambino impara, pertanto, a rimandare la immediata soddisfazione dei suoi desideri. Egli è capace di attendere: ‹‹dopo››, ‹‹domani››, ‹‹quando sarò cresciuto››, ‹‹quando sarò grande.››

I confronti.

Sempre a questa età i bambini cominciano a confrontarsi e a confrontare. Confrontano, rispetto a quella degli altri compagnetti, la propria statura, i propri muscoli, l’età, il sesso, la composizione della propria famiglia: ‹‹Io sono più forte.›› ‹‹Io sono più grande di te.›› ‹‹Mio padre è più forte del tuo.›› ‹‹Io ho tre fratelli, tu ne hai uno solo.›› Nel contempo acquistano consapevolezza della propria identità sessuale: ‹‹Sono maschietto››, ‹‹Sono una femminuccia.›› Questa consapevolezza li spinge ad esplorare il proprio corpo e quello degli altri. Ad imitare il genitore dello stesso sesso e a provare verso il genitore del sesso opposto un vivo desiderio di avere con lui un rapporto esclusivo: inizia la fase edipica.

Fase edipica.

In questa fase dello sviluppo psicologico il bambino per Freud sviluppa un intenso amore nei confronti del genitore di sesso opposto. Nel caso del bambino maschietto questi, amando la madre, è geloso del padre del quale vorrebbe la morte. Ma poiché questo suo amore è impossibile, in quanto la madre ama e continua ad amare il padre e poiché da quest’ultimo egli teme la violenza sul suo corpo (minaccia di castrazione), il bambino si trova costretto a rivolgere altrove i suoi desideri amorosi mentre nel contempo è stimolato a recepire tutte le caratteristiche paterne (identificazione con il padre), per poi proporre con successo le profferte amorose al di fuori della sua famiglia.

Il processo di identificazione è importante in quanto mediante l’identificazione il bambino prende su di sé le caratteristiche della persona adulta del suo stesso sesso e quindi assimila la dolcezza, le capacità di cura, la tenerezza materna oppure la forza, la determinazione, la sicurezza, paterna. In ogni caso egli si sente più adulto e quindi più adeguato e capace.[4]

La fase edipica, che ha importanti risvolti positivi in quanto migliora e definisce meglio sia l’identità sia il ruolo sessuale, mancherà delle sue funzioni se tra i genitori non vi è l’armonia e la stima dovuta e se il genitore dello stesso sesso non ha una buona accettazione della sua mascolinità o femminilità. Per OSTERRIETH ‹‹Esistono pochi altri momenti nella vita del bambino in cui è ugualmente importante per lui avere dei genitori affettivamente equilibrati, che formino una coppia unita: il padre veramente virile, la madre veramente femminile; entrambi sufficientemente sicuri di se stessi da accogliere, con la stessa calda serenità la espressione dei sentimenti, a volta a volta teneri o ostili del bambino, e capaci di non fissare malaccortamente il bambino nel suo complesso edipico, accrescendo sia la sua aggressività sia il suo attaccamento e, in ogni modo, il suo sentimento di colpa.››[5]

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Cfr. P. A. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 91.

[2] Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970, p. 24

[3] Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970, p. 27.

[4]  R MILITERNI, Neuropsichiatria infantile, Editore Idelson Gnocchi, Napoli, 2004, p. 98.

[5]  P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 120.

 

 

 

Il secondo anno di vita del bambino

La conquista del linguaggio.

Nel secondo anno di vita, che coincide con l'inizio della fanciullezza, si fa strada il linguaggio verbale infantile. Già nei primi mesi, ancor prima di emettere parole che abbiano un senso compiuto anche per gli adulti, il bambino per giocare si serve della sua voce, ripetendo continuamente dei suoni che impara imitando i suoni della voce emessi dalle persone del suo ambiente.

Si accorge del valore sociale dei suoni che emette quando, ad esempio, si mette a piangere e a strillare e la mamma accorre verso di lui; o quando vagisce e gorgoglia e lei ride contenta. Dalle reazioni delle persone ai suoi versi egli comincia a collegare determinati suoni con determinati effetti. Impara anche a riconoscere questi stessi suoni quando sono emessi dagli altri. Apprende a distinguere se una voce è ansiosa, arrabbiata, triste o carezzevole. Riesce a discriminare un sorriso od un volto rabbuiato da uno giocoso e sereno. Cosicché ad ogni tipo di comunicazione verbale, gestuale o mimica, reagisce in maniera adeguata. Ben presto comincia a servirsi di suoni abbastanza determinati per esprimere sensazioni e desideri precisi. In una fase successiva è pronto ad usare un vero e proprio linguaggio.[1]

Il bambino è stimolato ad apprendere i suoni e a parlare, spinto dal bisogno di comunicare meglio con gli altri così da poter chiedere, cercare, raccontare. Egli, essendo un essere umano, non si accontenta di conoscere il sapore, l'odore, la consistenza o il peso, egli ha fame di sapere e di conoscere anche il nome degli oggetti, delle persone, degli animali e degli elementi della natura che sono attorno a lui e che con lui interagiscono. Il poterli denominare sazia il suo bisogno di conoscenza, ma ha anche lo scopo di avere un controllo e un potere su di loro. Se conosce i loro nomi è come se potesse direttamente o indirettamente gestirli.

Accanto al linguaggio verbale e mimico i genitori, ma soprattutto la madre, costruiscono anche il linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Questo tipo di comunicazione è indispensabile per entrare in contatto vero e profondo con gli altri, così da capirli, amarli, ed essere loro vicini. Da questo tipo di comunicazione più intima e profonda si sviluppa il mondo del cuore, dal quale scaturiscono i sentimenti di amicizia, di amore, ma anche la futura disponibilità, generosità, sensibilità, accoglienza, fiducia e tenerezza. Il linguaggio serve quindi anche a costruire e sviluppare nel bambino il mondo dei sentimenti e delle emozioni, il mondo degli affetti e delle relazioni, il mondo delle cure e delle attenzioni.

Anche se il bambino non è mai totalmente passivo, è con lo sviluppo del linguaggio verbale che la sua azione sul mondo diventa più decisa ed incisiva. Non è solo la madre o gli altri che lo curano che ha il potere di scegliere cosa è bene per il suo bambino, ma è lui che comincia a selezionare ciò che gli piace e ciò che non gli piace, ciò che lo rende felice e ciò che lo intristisce, ciò che lo entusiasma e ciò che lo annoia.

Quando allontana deciso la tazza nella quale la madre ha messo il latte e chiede “Tazza zia”, dà agli altri, alle persone che gli vogliono bene e che sono a lui vicine, una indicazione ben precisa, non solo di ciò che non desidera ma anche su cosa è caduta la sua scelta: ‹‹Io voglio il latte nella tazza che mi ha regalato la zia.››

In un momento successivo, poiché ha bisogno di capire il mondo che lo circonda e come meglio rapportarsi con esso, non gli interessa soltanto il nome degli oggetti ma anche il loro uso ed il loro scopo. ‹‹A che serve? ›› ‹‹Come funziona? ›› ‹‹Com’è fatto?›› ‹‹Cosa c'è dentro?›› Egli si interessa anche dei rapporti che esistono tra gli oggetti, le persone e gli animali che lo circondano o suscitano il suo interesse: ‹‹Chi è più grande? Chi è più piccolo? ›› ‹‹Chi è più buono? Chi è più cattivo?.›› ‹‹Chi è più forte, chi è più debole?›› In tal modo scopre i legami che esistono tra le persone, gli animali e le cose. E’ interessato, inoltre, a capire il rapporto che hanno tutti gli oggetti nei suoi confronti o nei confronti della sua famiglia. E se noi siamo disponibili all’ascolto, per lui non vi è niente di più bello che farci partecipi delle sue scoperte, delle sue conoscenze e dei suoi trionfi.

In definitiva, nell'uomo, sono i vari tipi di comunicazione: verbale, mimica e gestuale gli strumenti indispensabili per la crescita e per la formazione del nuovo essere vivente.

Il suo mondo interiore

Nel momento in cui il bambino inizia a parlare e a comunicare i suoi pensieri, si evidenzia il suo mondo interiore in cui prevale l'animismo, l'egocentrismo e la logica precausale.

Nella fase dell’ animismo[2]ai suoi occhi le cose non solo sono viventi ma possiedono anche intenzionalità, sentimenti e pensieri propri. Il mondo psicologico ed il mondo fisico sono tutt’uno. Non vi sono cause naturali. Il vento soffia perché lo desidera. Il tavolo contro cui il piccolo ha battuto la testa è cattivo perché gli ha fatto male e quindi merita una giusta punizione.

Nella fase dell’egocentrismo che per Piaget si prolunga fino ai sette anni, vi è la tendenza da parte del bambino a ricondurre tutto alla propria persona e alle proprie esperienze. In questa fase i piccoli credono che ciò che li riguarda occupi un posto privilegiato nella mente degli altri. A questa regola non si sottraggono neanche le cose inanimate: ‹‹Perché, papà, quando cammino la Luna mi segue?›› ‹‹E' vero! la Luna è gentile ad illuminarci durante la notte se no dovremmo restare al buio, e lei sa che io ho paura del buio! .›› ‹‹Perché, mamma, la palla non vuole rotolare verso di me?.›› ‹‹Sai papà la sedia, poverina, si è rotta e soffre: tu che sei medico la puoi sicuramente aggiustare, vero?››

La sua logica è di tipo precausale, e quindi non scientifica in quanto il bambino non ragiona a partire dalle sue osservazioni, ma in base a un modello interiore del mondo. Egli accetta spiegazioni false, sia che provengano dai genitori sia che nascano dai suoi personali desideri o dalle sue aspirazioni. Fino ai tre anni il bambino vive come in un mondo di fiaba in cui gli animali, le piante ma anche gli oggetti possono parlare, avere una loro volontà, essere buoni o cattivi. Inoltre, poiché i bambini di questa età credono nella magia delle parole, queste hanno lo stesso potere delle azioni. Se il bambino pensa che la madre muoia o che al padre succeda qualcosa di male, ne avrà un senso di colpa in quanto i suoi pensieri potrebbero tradursi in realtà.

 La comunicazione

La comunicazione con se stesso e con i coetanei ha caratteristiche particolari: monologo, monologo intellettivo e monologo collettivo.

Per PIAGET ‹‹Il bambino piccolo non parla soltanto agli altri, parla in continuazione anche con se stesso, con monologhi variati che accompagnano i suoi giochi e le sue azioni. Questi monologhi sono paragonabili a quello che sarà più tardi il continuo linguaggio interiore dell’adulto e dell’adolescente, questi soliloqui ne differiscono tuttavia per il fatto che sono pronunciati ad alta voce e per il loro carattere rafforzativo dell’azione immediata.››[3]

Nella fanciullezza il bambino può utilizzare la sua fantasia per calmare la sua ansia, per lenire le sue frustrazioni, per soddisfare i suoi bisogni. Si vedrà allora il bambino lottare e distruggere immaginari nemici utilizzando un giocattolo o un oggetto qualsiasi. Allo stesso modo lo si vedrà costruire, con materiali assolutamente informi, castelli e reami dove si muovono dame e cavalieri, principi e regine, draghi e supereroi.

Nei confronti dei compagni parla solo delle sue esperienze (monologo intellettivo). Gli argomenti di discussione sono pochissimi. Inoltre in compagnia dei coetanei, per PIAGET, ciascun bambino parla soltanto di ciò che lo concerne personalmente (monologo collettivo). È infatti facile constatare quanto restino rudimentali le conversazioni fra bambini, legate come sono all’azione concreta in sé.

Le regole e la moralità autoritaria.

Le regole sono per i bambini di quest’età sacrosante e non possono essere cambiate. Fonte delle regole sono i loro genitori, i quali hanno sempre ragione (moralità autoritaria).

Soltanto in un’età successiva i bambini riescono a concepire una cooperazione democratica e una reciproca modificazione delle regole nelle quali anch’essi hanno un ruolo attivo da svolgere. Sempre in questa fase ogni misfatto, per essere perdonato o cancellato, ha bisogno di una punizione che estingua il reato. E poiché il bambino vive in un mondo egocentrico si tratta di una punizione per qualcosa di sbagliato che ha fatto lui.[4] Se un bambino correndo disubbidisce a sua madre e cade, egli è caduto perché è stato monello.[5] Gli atteggiamenti appresi attraverso le reazioni dei genitori sono fondamentali per l’idea che il bambino ha di sé: quando egli è rifiutato ‹‹è perché non vale molto.›› In questo periodo le minacce che i genitori possono fare verso di lui possono essere prese alla lettera.[6]

Soltanto ad un’età successiva i bambini riescono a concepire una cooperazione democratica e una reciproca modificazione delle regole nelle quali anch’essi hanno un ruolo attivo da svolgere.

Nei primi anni di vita il bambino raccoglie una quantità impressionante di informazioni e ogni esperienza e conoscenza nuova che egli assimila, non va soltanto ad aggiungersi alle altre ma le modifica e ne è a sua volta modificata. Per cui vi è continuamente una riorganizzazione e una modificazione dei rapporti e delle prospettive.[7]

 Il rapporto con i genitori.

 Nel momento in cui comincia a parlare e a camminare, il bambino riesce a riconoscere il padre e la madre come delle persone con una propria vita e una propria volontà ed è in grado di amarli come individui diversi e distinti da sé. Ma il suo non è un affetto tranquillo e sereno. Mentre accetta mal volentieri che la madre si allontani da lui anche per poche ore, acconsente a che il padre rimanga lontano anche per tutta la giornata o anche per qualche giorno. Ma non di più! Quando egli manca per molti giorni, quell’attaccamento che sembrava focalizzato solo sulla madre, si rende evidente anche verso il padre con tutto il suo corollario di sofferenze, paure, inquietudini, ma anche rabbia quando il comportamento di questi non è adeguato alle sue aspettative.

Anche durante il secondo anno di vita, nonostante apprezzi i giochi molto più vivaci e impetuosi con il padre, la madre continua ad avere una valenza prioritaria. E’ certamente a lei che il bambino rivolge le sue richieste ed è a lei che dà maggiormente il suo amore ed il suo attaccamento. Nonostante egli abbia imparato a considerarla quale persona esterna a lui e differente, ha sempre più bisogno di rassicurarsi del suo affetto e della sua presenza.[8]

La fase esplorativa.

 

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E' sempre nel secondo anno di vita che il bambino acquista la deambulazione e, con la deambulazione, acquisisce la possibilità di muoversi indipendentemente e liberamente nel suo ambiente. Il suo spazio fisico si allarga. Inizia la fase esplorativa. E non vi è esploratore più intraprendente, furbo, coraggioso, veloce, ma anche minuzioso, scrupoloso e purtroppo anche temerario, di un bambino a questa età. Ogni oggetto presente nella casa attira la sua attenzione ed è sottoposto ad una indagine minuziosa: viene valutato il suo peso, la sua consistenza, il suo sapore e odore, ma anche la sua più o meno grande possibilità di fare rumore, di rimbalzare, di rompersi, di colpire.

Il suo campo si allarga dalla stanza a tutta la casa. Nella scoperta del mondo nulla viene sottovalutato o trascurato. Ogni cosa acquista valore. I cassetti sono scrigni da svuotare per carpirne i tesori nascosti. Gli sportelli della cucina sono porte segrete che lo conducono a scovare e far propri i giocattoli più interessanti. Dentro questi sportelli vi sono le pentole da far rotolare o da riempire con carta, tubetti, cubi e ogni ben di Dio. Vi sono i coperchi da sbattere l'uno contro l'altro. Le padelle da brandire come armi segrete ma anche da sbattere a terra per avvertirne il rumore assordante. Vi sono gli imbuti, ottimi per metterli in bocca e soffiarci dentro e scoprire le alterazioni che provocano alla propria voce. E poi vi sono i portauovo con i quali giocare a provare a metterli uno dentro l'altro.

L'esplorazione della casa non si ferma alla cucina. Da questa si passa al bagno, dove la carta igienica sembra messa apposta per essere tirata fino in camera da letto! La tazza del bidè riempita d'acqua è un'ottima vasca nella quale far nuotare le barchette di carta costruite dal papà. Aprendo il rubinetto dello spruzzo si forma una splendida fontana che può far concorrenza a quelle di Roma. Più affascinanti ma anche più rischiose sono le camere dei fratelli e delle sorelle maggiori. Queste stanze, non essendo affatto ordinate, mettono a disposizione mille oggetti proibiti da rubare correndo, per poi nasconderli prima che il germano infuriato si accorga del furto.

È a questa età che il rapporto con gli altri diventa più interessante, ma anche più traumatico per il bambino, in quanto egli non capisce bene perché, in un mondo così ricco e così interessante, fatto di mille oggetti pronti per esser ghermiti e utilizzati per i suoi giochi e per le sue scoperte, vi siano altrettanti limiti, pericoli, impedimenti e consequenziali sgridate e punizioni.

Egli si aggira per la casa come un ladro che, per la prima volta, entra in un supermercato. Non riesce proprio a comprendere il motivo per il quale non è possibile appropriarsi di tutta quella mercanzia che si trova esposta ed è là, invitante, quasi a chiedere di essere presa e portata via. E invece... E invece vi è sempre qualche bruto che te lo impedisce, che ti dice di no e che ti punisce per averlo fatto. Pertanto le occasioni di conflitto tra i desideri dei piccoli e quelli dei genitori e dei fratelli e sorelle maggiori aumentano sensibilmente.[9]

Il periodo di opposizione.

L’estendersi dei contatti con il mondo, durante i quali sono registrati successi e insuccessi, soddisfazioni e frustrazioni, conducono il bambino a scoprire il proprio potere sulle persone e sulle cose, ma anche la resistenza che il mondo degli adulti oppone alle sue necessità. Mondo con il quale è costretto a lottare continuamente soprattutto durante il periodo di opposizione.  

In questo periodo, verso i due anni e sei mesi, anche a scapito dei suoi bisogni affettivi e protettivi, il bambino più che dare soddisfazioni all’adulto sente la necessità di affermare la propria personalità ed il proprio Io, mediante il rifiuto di ubbidire sempre e comunque ai genitori e agli adulti in genere. Egli diventa più ribelle, cocciuto ed intrattabile. Fa il contrario di quanto gli si chiede. Si confronta con le imposizioni degli adulti. Piange e strilla per avere qualcosa che, subito dopo, abbandona con indifferenza. Con gli adulti sembra ricercare più lo scontro che l’incontro, più la polemica che l’intesa. Nella ricerca di una maggiore fiducia in se stesso e nel desiderio di una maggiore indipendenza ed autonomia, il bambino vuole fare tutto e tutto da solo.

Avverte continuamente che i suoi bisogni si scontrano con quelli degli altri. Non sopporta di iniziare un’attività e di non riuscire spesso a portarla a termine in quanto vi sono delle esigenze superiori, quelle dei genitori, dei nonni e degli zii, che lo costringono ad interromperla bruscamente.

Pertanto sente spesso i propri familiari come dei guastafeste che si inseriscono indebitamente nei suoi giochi e nelle sue esplorazioni. In questa fase, come dice la ISAACS: ‹‹Non si potrebbe dire ai bambini una cosa più crudele o più stupida di: ‹‹Non toccare.›› Questo equivale a dire: ‹‹Non imparare, non crescere, non essere intelligente.››[10] In quanto gli si impedisce di scoprire, imparare e crescere.›› Il bambino, infatti, impara soprattutto scoprendo le cose e non attraverso le nostre spiegazioni.[11]

A questo proposito ci sembra illuminante l'osservazione di questa autrice la quale afferma: ‹‹Quale piacere perdono, per se stessi e per i loro figli, quei genitori che lasciano passare inosservata questa appassionata urgenza di costruire e di fare, e che, invece di provvedere al materiale e allo spazio necessario, cercano di comprimere questa energia costringendo i bambini a “stare seduti tranquilli” o a tenere “puliti i vestiti”.›› Il bambino ha bisogno di spazio per muoversi, agire, effettuare dei giochi creativi, correre, arrampicarsi.[12]

Accanto allo spazio fisico si allarga anche il suo spazio psicologico. Il bambino acquisisce la capacità di comprendere la successione cronologica degli avvenimenti. Inoltre la conquistata produzione del linguaggio gli consente di simbolizzare e rappresentare la realtà.

Le richieste degli adulti e le punizioni.

E' sempre a questa età che aumentano le richieste da parte del mondo esterno. Gli adulti chiedono al bambino una maggiore collaborazione. Si aspettano che egli faccia quanto gli viene detto e che abbia anche un maggior controllo dei suoi atti e dei suoi comportamenti.

Poiché il suo rapporto principale è con la madre, che è anche la sua figura di riferimento, è lei che comincia ad insegnargli il comportamento che la società si aspetta da lui e quindi le regole sociali. E' lei che dice i tanti “no”, aiutata dall’autorità paterna, per alcune sue iniziative pericolose, rischiose o inopportune e pertanto, gli sforzi per ‹‹essere buono›› sono fondamentali per avere l'affetto e la comprensione della mamma.

E se alcune madri, dopo il primo anno, vorrebbero che il figlio restasse piccolo e quindi le ricompense lavorano contro il suo processo di maturazione nel tentativo di mantenerlo piccolino, altre mamme per diminuire il loro carico di lavoro e di impegno vorrebbero che il bambino acquisisse il più presto possibile quelle autonomie, soprattutto nel controllo sfinterico, che ritengono indispensabili. Pertanto utilizzano in modo eccessivo rimproveri e punizioni se il bambino non si adegua ai loro bisogni, alle loro richieste e ai loro desideri.

L’asilo nido

Uno dei servizi offerti alle famiglie e al bambino a questa età è l’asilo nido. Questa istituzione, è sempre più utilizzata dai genitori soli, dalle famiglie dove entrambi i genitori lavorano, ma anche da quei papà e quelle mamme di bambini piccoli con ritardo mentale, autismo e altre patologie invalidanti. Questi vedono nel nido un luogo più ricco di stimoli culturali, linguistici, educativi, rispetto ad una normale famiglia e, quindi, una maggiore opportunità offerta dalle istituzioni pubbliche e private per i loro piccoli. [1]

Negli ultimi anni anche le famiglie nelle quali la donna non lavora e che non hanno bambini problematici bussano alla porta di queste strutture, in quanto sono convinte che l’asilo nido possa dare più di una normale famiglia.

Per tale motivo, da parte di molte componenti della società: famiglie e associazioni, sindacati e politici, medici e amministratori, è sempre più pressante la richiesta di più asili nido, così da soddisfare il “bisogno” di ogni comune, di ogni quartiere, di ogni famiglia e di ogni donna che intende o è costretta a “realizzarsi” nel lavoro. E non importa che questi servizi abbiano un costo notevole. “Se sono utili ai bambini, ai genitori, soprattutto alle madri, al mondo del lavoro ed in definitiva alla società, tali costi vanno affrontati. Se i soldi necessari sono ben utilizzati vanno trovati”.

Abbiamo però il dovere di chiederci: Quanto l’asilo nido è utile al bambino normale? Quanto è adatto al soggetto disabile? Quanto è valido e necessario ai genitori, al mondo del lavoro e alla società?

 

purtroppo l’asilo nido non è un vero nido in quanto:

  1. Il bambino ha bisogno di una figura materna. Ma non sempre nell’animo del giovane personale femminile adibito nei nidi è maturata questa istintiva e basilare realtà interiore che prescinde e travalica la preparazione professionale. Teniamo presente che ogni cura fisica prestata al bambino ha per lui anche dei risvolti psicologici ai quali bisogna rispondere adeguatamente (Winnicott, 1973, p.14).
  2. Il bambino ha bisogno della propria madre. La sua serenità e sicurezza interiore sono legate ad una figura ben precisa che ha un suo viso, un suo odore, una sua specifica caratteristica individuale che la distingue da tutte le altre donne.
  3. Il bambino ha bisogno di una persona con la quale si sia stabilito un legame d’amore reciproco. Per Winnicott:[2] “Il modo di trattare un bambino molto piccolo è al di là del pensiero cosciente e delle intenzioni. È qualcosa che diviene possibile solo grazie all’amore. Talvolta affermiamo che il bambino piccolo ha bisogno di amore, ma quello che intendiamo dire è che solo qualcuno che lo ama è in grado di appagarne i bisogni e di graduare il mancato appagamento in base allo sviluppo della capacità da parte del bambino stesso di utilizzarlo positivamente”. Questo legame d’amore tra il bambino e il personale del nido è molto difficile che si instauri in quanto mancano i presupposti indispensabili, dati non solo dal legame di sangue ma anche dalla diversa responsabilità e ruolo esistente. Il bambino ha bisogno che questo legame sia stabile e non venga mai tradito da lunghi periodi di lontananza fisica. Le esperienze passate del bambino rivestono un ruolo vitale per lo sviluppo e continuano ad influenzarlo, pertanto bisognerebbe garantire, per quanto possibile, che ogni bambino riceva cure regolari sempre dalla stessa persona. In caso contrario in lui si manifestano collera e rabbia oltre che ansia e angoscia. E ciò è impossibile garantirlo per le necessità personali e per i diritti sindacali di ogni lavoratore.
  1. Il bambino ha bisogno di una madre che abbia con lui effettuato un cammino e un percorso. Una madre con la quale ha maturato reciproche esperienze ed intese. Una madre che cresca ed impari insieme al suo bambino. E ciò è molto difficile che possa avverarsi con il personale di un’istituzione.

5. Il bambino ha bisogno di una figura di riferimento principale.

Se questa figura cambia nel tempo, non si riesce a stabilire un legame profondo. Ma anche quando si concretizzassero i fattori più favorevoli, per cui questo legame e questa intesa dovessero diventare realtà, saranno legami ed intese destinate a spezzarsi dopo pochi anni o pochi mesi, con conseguente frustrazione e dolore per tali perdite. Mentre, durante la frequenza di questa istituzione, non potranno mancare i sensi di colpa e i conflitti che nasceranno dalla difficoltà di vivere con chiarezza ruoli e realtà diversi e contrastanti. Se il bambino si lega con un legame forte e speciale alla “zia” del nido, tradisce il legame precedente con la propria madre. Se, al contrario, permane in lui il legame con la propria madre, nonostante la frustrazione di essere ogni giorno, a volte per anni, allontanato dal proprio ambiente familiare per essere portato in un luogo sconosciuto, in compagnia di coetanei e di adulti sconosciuti, gli sembrerà di fare un torto alla persona che nel nido si occupa di lui con amore ed affetto, come fosse una madre vera.

Le conseguenze di un allontanamento precoce dalla figura materna possono essere molto gravi tanto da alterare ea volte rompere del tutto il rapporto di fiducia che il bambino ha verso la madre e verso ciò che la madre per lui rappresenta: il mondo intero. La rottura di questo rapporto di fiducia può comportare numerosi e a volte anche gravi disturbi psichici.

Le punizioni.

Ed è sempre a questa età che le punizioni si fanno più frequenti e dolorose! Le punizioni possono essere di vario tipo. Alcune consistono nell’infliggere un dolore fisico, altre si propongono di procurare una sofferenza psicologica, ad esempio, limitando il piacere dell’attività motoria: ‹‹Stai con la faccia contro il muro.›› Alcune punizioni consistono nel rifiutare o proibire un oggetto amato e desiderato. Altre volte i genitori puniscono ritirando, almeno momentaneamente, la stima, la fiducia, il contatto e la carezza stessa della madre o del padre. Non sempre le punizioni sono utili. Quando sono frequenti ed eccessive accentuano l’irritabilità, l’instabilità, l’irrequietezza ma anche l’atteggiamento scontroso ed ostile.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 31.

[2]  Cfr. J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 34.

[3]  J. PIAGET , Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 29.

[4]  Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970,  p. 21.

[5]  Cfr. S. Wolff, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma,1970, p. 21

[6]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 98.

[7]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 38.

[8] Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 58.

[9] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 74.

[10] S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 68.

[11] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 69.

[12] Cfr. S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 70.

 

 

Il primo anno di vita del bambino

 

Il bambino se ad un mese piange ostinatamente quando ha fame o sta scomodo, senza preoccuparsi minimamente delle esigenze dell'adulto o degli adulti che hanno cura di lui, mentre si tranquillizza solo quando è satollo e soddisfatto di tutto, successivamente comincia a regolare la sua vita ed i suoi bisogni in base alle esigenze della madre. Impara a postergare i suoi bisogni fisiologici: l'alimentazione, il sonno, i bisogni di coccole, in base alle necessità e alle richieste materne. Mostra interesse ed eccitazione al rumore dei passi che si avvicinano, al rumore dell'acqua quando la madre prepara il bagnetto quotidiano o a quello delle pentole quando appronta la pappa. Fra le sei e le dodici settimane sorride regolarmente e indiscriminatamente a tutti i visi umani e persino a illustrazioni o modelli di dimensione reali, purché siano visti di fronte e abbiano qualche movimento.[1]

Fra i tre ed i sei mesi il sorriso stereotipato diviene selettivo e si rivolge alle persone familiari. Il bambino diventa capace di rispondere con un sorriso ad uno stimolo ben specifico. Pertanto il sorriso non è più ‹‹…una semplice reazione ad eccitazioni interne od esterne, esso entra ugualmente in un quadro di relazione come metalinguaggio fornito di sottigliezze e tonalità melodiche.››[2] Il bambino a questa età riconosce i suoi genitori ed ha delle immagini mentali delle persone familiari (stadio dell’oggetto precursore).

A Cinque - sette mesi distingue la mimica degli adulti e reagisce di conseguenza: ride, vocalizza e fa vari rumori di gioia quando gli altri comunicano con lui. E’ contento e volge il suo sguardo verso la voce della mamma che gli parla da un’altra stanza. È  sensibile e mostra una evidente rispondenza alle differenti intonazioni emozionali della voce di questa. A partire dai sei - otto mesi ha interesse ai giochi dei quali è fatto partecipe, tipo “Cucù – eccolo” e si riconosce allo specchio. ‹‹Accanto a questi progressi abbastanza vistosi sul piano dei rapporti del bambino con gli adulti, non si può non essere colpiti dalla relativa povertà dei rapporti con i coetanei. Contrariamente a quello che constatiamo nelle età successive, gli altri bambini della stessa età sono praticamente senza interesse per il bambino. Eccetto qualche sorriso e alcuni toccamenti, non presta loro molta attenzione. Egli non li avverte partecipi alle situazioni per lui vitali, tratta i suoi pari come oggetti: li strapazza, li tocca con le mani, strappa loro i giocattoli che lo interessano. Per Spitz a questa età compare l'angoscia degli otto mesi. Il bambino avverte paura, se non angoscia, al cospetto di estranei. Teme istintivamente e non si fida delle persone a lui non note. Alla loro vista egli si imbroncia, si nasconde o si mette a piangere, manifestando timidezza.

In questo periodo è importante la comunicazione affettiva che proviene dal volto e dai gesti materni. È da questi segnali che dà la madre che il bambino capisce se chi ha di fronte è una persona amica o nemica. Se con questa persona che si avvicina a lui si può giocare oppure è meglio restare lontani. Se è il caso di lasciarsi andare nelle sue braccia oppure rimanere stretti al collo materno.

Verso i nove mesi circa, il compagno di gioco è preso maggiormente in considerazione soprattutto in funzione delle cose che possiede. Sono frequenti le lotte e i conflitti per avere degli oggetti di interesse reciproco. Bisognerà attendere ancora parecchi mesi perché si stabiliscano contatti diversi da quelli aggressivi.[3] A questa età già vocalizza liberamente, con significato di comunicazione interpersonale. Grida per attirare l'attenzione della madre e degli altri adulti. Parlotta armoniosamente ripetendo e legando alcune sillabe come ma-ma; pa-pa. Capisce il “no” e fa “ciao” con la manina. A dodici mesi conosce già il proprio nome e si volta se chiamato. Mostra, con movimenti adeguati, che capisce molte parole del lessico familiare. Comprende semplici richieste associate ai gesti ad esempio: ‹‹Dammi››, ‹‹Fa’ ciao.›› Distribuisce baci ai genitori e alle persone care.

A mano a mano che il bambino viene riconosciuto educabile, cioè capace di apprendimento, la madre modifica sempre più le sue manifestazioni di tenerezza verso di lui. Se prima vi era il convincimento che il figlio dovesse sempre ricevere il suo aiuto ed il suo sostegno, adesso vuole che impari certe cose, per cui tende a mostrare verso di lui collaborazione e tenerezza come ricompensa quando si comporta bene o impara. [4] Pertanto è la madre la protagonista del primo anno di vita del bambino, non solo perché è lei che lo allatta e successivamente lo imbocca, ha cura di lui, lo pulisce e controlla che non si faccia del male, ma è anche lei il punto di riferimento, la stella polare del bambino quando è ferito, dolorante, triste, spaventato o quando ha bisogno di coccole.

Durante il primo anno inizia anche la comunicazione con il padre. Questo tipo di comunicazione ha strumenti, tempi, obiettivi e finalità diverse rispetto alla comunicazione materna.

La comunicazione paterna tende ad offrire al bambino un esempio più deciso e forte, più sereno e stabile. Per tale motivo questa comunicazione appare più stringata e lineare, più tranquilla e razionale, più ruvida e decisa. E' una comunicazione che, priva di fronzoli, con l'uso di pochi e scarni aggettivi, stimola all'azione, al fare e al creare. Il padre con il suo esempio comunica al bambino decisione, agilità, destrezza, irruenza. Con le parole gli dà la forza della razionalità, stimola in lui il controllo delle proprie emozioni, la sicurezza del proprio agire. Con i suoi comportamenti fa sorgere nel figlio il piacere della conquista, e delle rapide decisioni. In definitiva, se la comunicazione materna mette in primo piano il cuore ed i sentimenti, quella paterna mette in primo piano la ragione. Se la comunicazione materna ha lo scopo di sviluppare e confortare l’Io del bambino, quella paterna ha lo scopo di dare slancio, forza, determinazione, coraggio, sicurezza a quest’Io.

 

Alla fine del primo anno di vita ‹‹Guardando gli occhi, e l’espressione di chi si prende cura di lui, il bambino ottiene informazioni sui suoi stati interni - pensieri, intenzioni, credenze, desideri ed emozioni – e li usa per costruire un collegamento tra quello che potrebbe fare chi lo accudisce e quello che lui stesso progetta di fare. L’accesso ai propri stati interni è ora coordinato con l’accesso a quello di un’altra persona affettivamente significativa.››[5]    

L’attaccamento

 

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Uno degli effetti positivi consequenziali ad un ambiente favorevole e comprensivo dei bisogni del bambino è l'attaccamento che si sviluppa nei primi nove mesi di vita e perdura per vari anni. Naturalmente questo legame è maggiore verso la madre quando questa sa instaurare con il figlio, fin dalla nascita, una relazione speciale.

Si può definire l'attaccamento come quel forte legame avvertito dal bambino nei confronti di uno o di entrambi i genitori o verso persone che hanno nei suoi confronti delle cure continue e particolari. Questo legame speciale ha nell’uomo e negli animali una funzione biologica, in quanto permette di preservare i piccolo dai pericoli esterni. Chiunque più degli altri si prende cura del bambino diverrà nei suoi confronti la figura principale di attaccamento.

L’attaccamento è reciproco: del bambino verso la madre e della madre verso il bambino. Questi sentimenti materni e filiali si sviluppano non solo se tra i due vi è una continua vicinanza ma soprattutto se tra i due vi è una reciproca intesa, dialogo e scambio affettivo.

Questo legame che è molto forte dopo la seconda metà del primo anno e durante tutto il secondo e terzo anno, dal quarto anno in poi è suscitato un po’ meno facilmente di prima, anche se il cambiamento è di entità minima. Come in tutte le relazioni il legame dell'attaccamento può non instaurarsi o può andare in crisi per i motivi più vari, che possono riguardare l'uno o l'altro elemento della relazione o entrambi. Se una madre sceglie, o è costretta, a rimanere lontano dal figlio per un certo tempo, affidando questi ad altre persone o ad altre istituzioni, questo legame può non avvenire o può alterarsi. La mancanza di attaccamento può intervenire per molti altri motivi:

  • ·         scarso interesse della madre nei confronti del figlio non voluto, non desiderato, non amato, considerato come un intralcio ai suoi interessi e obiettivi del momento;
  • ·         insufficiente attitudine o preparazione al ruolo materno;
  • ·         scarse capacità nell’instaurare una comunicazione efficace;
  • ·         presenza di una intensa ansia e depressione nella madre;
  • ·         l'attaccamento può non instaurarsi o fallire anche per cause riguardanti il bambino, quando questi presenta notevole fragilità psichica, con conseguente eccessiva debolezza di fronte alle indispensabili piccole frustrazioni presenti in ogni relazione, o quando il figlio lamenta congenite, gravi difficoltà ad instaurare una comunicazione efficace.

 

L’attaccamento può avvenire, come abbiamo detto, anche nei confronti di più persone ma in questo caso vi è un preciso ordine di preferenza (specificità dell'attaccamento) .

Questo legame particolare può durare, anche se con intensità diversa, per tutta la vita. I primi attaccamenti, infatti, non sono mai definitivamente abbandonati.

In questa relazione particolare è presente una dipendenza reciproca: del figlio nei confronti della mamma, per ragioni di sopravvivenza e della mamma nei confronti del figlio in quanto questi diventa un suo importante e fondamentale oggetto d’amore. È importante che tra il bambino e la madre si instauri l'attaccamento in quanto il bambino, rassicurato da questo legame speciale, può avere fiducia negli altri, in se stesso, nel mondo.

Solo il bambino forte e sicuro dell’amore dei suoi genitori è capace di camminare spedito verso l’indipendenza psicologica e materiale. La sua sicurezza gli consente di esplorare il mondo, di allontanarsi da schemi infantili o dalle persone che fino a quel momento costituivano i suoi fondamentali punti di riferimento affettivo. È, quindi, l'attaccamento che gli permette di affrontare le difficoltà della vita con forza ed equilibrio. Questo legame quando è solido, sicuro e condotto in maniera fisiologica, conduce verso una maggiore autonomia ma anche verso una superiore capacità di affrontare e resistere agli eventi stressanti o traumatici. Questa capacità, chiamata resilienza, è nettamente superiore quando il bambino ha potuto sviluppare legami affettivi significativi nella prima infanzia.[6]

Gli esempi che si potrebbero fare sulla realtà dell’attaccamento sono numerosissimi.

Chi non ha notato come il bambino si leghi fisicamente al corpo paterno o materno quando si ritrova con estranei o in situazioni insolite che giudica pericolose?

Quando ancora i bambini venivano ricoverati in ospedale senza le madri, BOWLBY aveva notato che quando i piccoli venivano ammessi in reparto, esprimevano un’intensa inquietudine e agitazione. Con il ritorno a casa poi, se inizialmente manifestavano aggressività e rifiuto verso le loro madri, quando le rivedevano, era come se le accusassero pesantemente in cuor loro per averli abbandonati.[7] Successivamente a questi traumatici distacchi, i bambini tendevano a seguire costantemente le loro madri, come per paura di perderle nuovamente e ad esse si aggrappavano aumentando le loro richieste di coccole e gratificazioni.

In questi casi, se le madri rifuggivano da queste richieste ritenute eccessive, questo rifiuto suscitava un comportamento ancora più ostile, negativo o peggio regressivo da parte del bambino. Anche per ISAAC ‹‹Fino ai tre anni è assolutamente normale che il bambino si risenta quando perde le cure esclusive di una madre o di una nurse amata, anche se questa perdita è di breve durata. Non tutti reagiscono in questa maniera ma la maggioranza lo fa.››[8]

Attaccamento sicuro ed insicuro.

Vi è pertanto un attaccamento sicuro, nel quale il bambino ha piena fiducia nella madre ma anche nel padre per cui egli sa di poter contare su di loro nel momento in cui dovesse incontrare situazioni nuove, difficili o traumatiche, ma vi è, purtroppo, anche un attaccamento insicuro o ansioso, nel quale il bambino non ha la certezza di trovarsi accanto come sostegno e presenza attiva e serena almeno uno dei genitori.

 

In questo senso il caso di Dario è emblematico.

Un viaggio di lavoro.

Quando la madre di Dario, per motivi di lavoro, andò in Venezuela, il figlio aveva quasi due anni. La donna pensava di averlo lasciato in buone mani in quanto aveva affidato il bambino al padre e ad una tata che viveva stabilmente in famiglia. Dopo alcuni mesi, al ritorno dall’incarico espletato brillantemente, non immaginava di dover affrontare una brutta situazione. Dario manifestava chiari segni di sofferenza e di regressione: non la guardava più negli occhi, appariva depresso, pensieroso, piangeva e gridava per un nonnulla, aveva dimenticato molte delle parole che conosceva. La madre, pensando che questi comportamenti ed atteggiamenti del figlio fossero dovuti a dei capricci, piuttosto che farsi perdonare e coccolarlo maggiormente, ha pensato bene di avere nei suoi confronti un atteggiamento più fermo e deciso, conclusosi con l’iscrizione in una scuola materna dove insegnava una maestra particolarmente burbera e severa. Infine, arguendo che la tata che aveva lasciato con lui durante la sua assenza, non avesse fatto bene il suo dovere non stimolando la comunicazione del figlio, l’aveva licenziata su due piedi. Quando verso i cinque anni arrivò alla nostra osservazione, la situazione psicologica del bambino si era ulteriormente aggravata. Egli presentava marcato disinvestimento in tutte le relazioni, sia verso i coetanei, sia verso gli adulti; momentanei ma ripetuti scollamenti con la realtà; grave instabilità ed irrequietezza motoria, atteggiamento triste;  importanti disturbi nella comunicazione con un linguaggio molto ridotto e con presenza di ecolalie e uso di frasi e parole improprie. Il bambino presentava, inoltre, ecoprassie, facili crisi di pianto e, se contrariato, atteggiamenti aggressivi.

La madre cercava di contenere con un atteggiamento sempre più deciso e fermo i comportamenti più disturbanti di Dario, ma con scarso o momentaneo risultato.

 

Non vi è dubbio che alla base dei problemi di questo bambino vi fosse l’allontanamento precoce della madre per alcuni mesi, ma altresì non vi è alcun dubbio che il successivo comportamento della donna, poco incline a farsi perdonare dal bambino il suo errore, ma anzi tendente a controllare e punire le manifestazioni di sofferenza di Dario, non solo non era un atteggiamento adeguato a risolvere i problemi del bambino, ma, senza volerlo, li aveva notevolmente aggravati.

 

Se l’attaccamento è un processo fisiologico, la sua patologia si ha soltanto quando la madre o il padre, pur di sentirsi sicuri e sereni loro, cercano in ogni modo di impedire al figlio di muoversi in modo autonomo legandolo a sé mediante le loro ansie o le loro paure. Alcuni genitori, infatti, soprattutto le madri, vorrebbero che il figlio restasse piccolo e quindi lavorano contro il processo di maturazione, nel tentativo di mantenere il figlio in una condizione infantile per un periodo il più lungo possibile.

Fino alla fine dei tre anni l'attaccamento permane in modo intenso, pertanto è altrettanto negativo il comportamento opposto di quei genitori, e oggi sono tanti, che prematuramente spingono o costringono il figlio ad una autonomia e ad una responsabilità non adeguate e non confacenti alla sua età o al suo sviluppo psicoaffettivo. Questi genitori spesso ottengono l’effetto opposto, in quanto il figlio che non si sente supportato dall’attaccamento genitoriale ha maggiori difficoltà ad affrontare il mondo circostante; pertanto rimane ancorato ad un livello di sviluppo non adeguato alla sua età cronologica.

 

Un fallimentare piano pedagogico

Luisa, una giovane madre che insegnava in una scuola elementare, quando seppe di aspettare un bambino studiò un preciso piano pedagogico per stimolare nel figlio, il più rapidamente possibile, una buona autonomia, così da potersi dedicare tranquillamente al suo lavoro. Il suo piano prevedeva, intanto, di evitare di stare sempre con il bambino anche nei primi giorni di vita. Voleva che lui si “abituasse” a prendere il latte e ad essere curato, non solo da lei ma anche dagli altri familiari, così da evitare proprio uno specifico attaccamento. Inserendolo poi, dopo il primo anno, in un ambiente estraneo come quello di un asilo nido e poi, a due anni e sei mesi, in una scuola materna, pensava di aver raggiunto l’obiettivo che si era prefissato: far maturare rapidamente la sua autonomia. Ma a cinque anni, mentre ancora il figlio frequentava la scuola materna, le insegnanti con molto tatto, trattandosi di una collega, cominciarono a riferirle che ‹‹il bambino aveva forse qualche problema: non socializzava con gli altri, giocava da solo in un angolo, e si avvicinava ai suoi compagnetti solo per strappare loro qualche giocattolo che lo interessava particolarmente, ma non riusciva a costruire con questi un vero gioco. Anche il suo linguaggio era strano. Ripeteva benissimo ogni parola che sentiva ma la inseriva in contesti non idonei. Vi erano poi delle frasi che ripeteva di continuo.››  A casa bastava poco per farlo gridare e così, sia la madre che i nonni, “per farlo stare buono” lo mettevano spesso davanti alla TV, dove egli preferiva vedere sempre le stesse cassette, con gli stessi cartoni animati, per ore e ore. La notte poi, non si voleva assolutamente staccare dal letto dei genitori e stava abbracciato alla madre come ad un’ancora di salvezza ma, contemporaneamente, la tormentava tirandole i capelli e le ciglia.

 

È evidente che il piano materno era fallito su tutta la linea! Lo sviluppo dell’autonomia del bambino non può essere accelerato di molto. Ma soprattutto non si può ottenere questo obiettivo senza tenere nella giusta considerazione i bisogni primari dell’animo del minore, in caso contrario si rischia di conseguire l’effetto opposto.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1]  Wolff S. (1970), Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma, p. 16

[2]  J. De AJURIAGUERRÁ, Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano, 1993, p. 118.

 

[3]  Cfr. P. A. OSTERRIETH, Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, 1965, p. 59.

[4]  Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 184.

[5]  L. BARONE - D. BACCHINI, Le emozioni nello sviluppo relazionale e morale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, p. 26.

[6]  D. OVADIA  “Mi piego ma non mi spezzo”, in Mente e cervello, n° 67, 2010, p. 52.

[7]  Cfr. J. BOWLBY, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982, p 10

[8]  S. ISAACS, La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni - Figli e genitori, Roma, Newton, 1995, p. 138.

 

 

 

I giudizi sul bambino

Così come il bambino individua dalle caratteristiche dell’ambiente se questo è adeguato o non ai suoi bisogni e alle sue esigenze, anche le persone che stanno accanto a lui: la madre, il padre, gli altri familiari e l’ambiente sociale nel quale egli vive, danno il proprio giudizio sul neonato, come aveva già dato una propria valutazione ancor prima che egli nascesse, sull’opportunità di questo evento.

Questi giudizi e queste valutazioni hanno dei tratti oggettivi ma hanno anche molti elementi soggettivi legati alle persone che si confrontano con il nuovo essere umano. E così come agli occhi del bambino vi può essere una madre buona o una cattiva, agli occhi dei genitori e degli altri familiari vi può essere un bambino facile o un bambino difficile, in definitiva un bambino buono o un bambino cattivo. Gli elementi che concorrono a designare agli occhi e al cuore delle persone che stanno accanto al piccolo essere umano, una maggiore o minore sottolineatura degli aspetti positivi o negativi e quindi una maggiore o minore accettazione, sono numerosissimi ma anche di difficile valutazione, non solo da parte di chi esamina il problema dall’esterno ma anche e soprattutto da chi è coinvolto nella relazione.

Per SULLIVAN ‹‹La personificazione del bambino fatta dalla madre non è il bambino ma bensì un’organizzazione di esperienze in sviluppo che ha luogo nella madre e che comprende molti fattori il cui rapporto con il bambino reale è remotissimo.››[1] Nella personificazione sono compresi molti elementi. Certamente hanno influenza le sue caratteristiche genetiche: vi sono neonati che accettano molto più di altri gli errori e le mancanze di attenzione della madre, mentre vi sono bambini che protestano e si arrabbiano per un nonnulla. Accanto alle caratteristiche che il bambino porta nei suoi geni, l’immagine che noi abbiamo del bambino è influenzata da molti altri elementi.

  1. 1.      Vi è intanto la maggiore o minore desiderabilità dell’evento. Questo bambino era desiderato o no? E da chi era desiderato? Solo dalla madre, solo dal padre, da entrambi? Era desiderato dai nonni? Oppure essi temevano che questa gravidanza, che in qualche modo li avrebbe coinvolti nell’aiuto e nell’assistenza alla madre e al piccolo, fosse inopportuna? Ma anche la società, nel suo complesso, come vede la nascita di un nuovo essere umano? Come un nuovo problema da affrontare, in quanto già prima di nascere questo evento comporta impegni e spese per la comunità, oppure come un dono del quale la società civile può godere?
  2. 2.      Il secondo elemento, altrettanto importante, è legato alle conseguenze immediate della sua presenza. La sua esistenza, a partire dai primi mesi o giorni della gravidanza cosa ha provocato? Cosa ha modificato in senso positivo o negativo? La descrizione di Anna è sintomatica di una buona accoglienza. ‹‹Prima di attendere Mario ero nervosa e irritabile in quanto, fin da piccola, avevo paura di non poter avere dei bambini ai quali invece tenevo molto. Nel momento in cui, invece, ho saputo di aspettarlo mi sono rasserenata, anzi ero così felice che mi sembrava di poter toccare il cielo con un dito. Anche lui, Giulio, mio marito, era contento e non sapeva cosa fare per farmi capire la sua gioia. Mai avevo avuto da lui tante attenzioni prima di allora: mi coccolava, mi diceva che ero diventata più bella, più dolce, mi ha fatto subito un regalo importante. Ma anche i suoi genitori sono stati dolcissimi. Prima di sposarci e anche dopo, mi sentivo guardata da loro in modo strano, con sospetto. Come dire: ‹‹Vediamo chi è questa qua, vediamo cosa sa fare.›› Nel momento in cui ho comunicato loro che aspettavo un bambino, che è stato poi il loro primo nipotino, sono cambiati radicalmente. Mi hanno cominciato a trattare come fossi una regina. Mia suocera mi portava quasi ogni giorno qualcosa di buono da mangiare che lei aveva preparato e hanno subito detto che ci tenevano a regalarci la culla e il passeggino. Per la prima volta nella mia vita ero al centro dell’attenzione di tutti, tranne che del principale del negozio dove lavoro. Ma non mi importava molto di lui! Stavo bene anche perché non ho avuto quei vomiti e quei disturbi di cui si lamentano tante donne. ››        

 Molto diversa la descrizione di Roberta: “Volevo un bambino a tutti i costi. Anche lui, mio marito, lo avrebbe voluto, ma non faceva nulla e non era disposto a fare nessun sacrificio per averlo. Ogni cosa che i medici ci dicevano di fare: esami, terapie, indagini, protestava. Quando poi ci hanno proposto l’inseminazione artificiale ed io ero d’accordo, mi ha presa per pazza. Sono riuscita a convincerlo e abbiamo provato più volte fino a quando sono rimasta incinta. Io ero contenta perché avevo raggiunto quanto desideravo, ma lui e anche i suoi mi facevano il muso. Non capivano che io mi stavo sacrificando anche per loro. Anche durante la gravidanza i problemi non sono mancati. Avevo paura di perderlo e quindi il minimo accenno di qualcosa che non andava per il verso giusto, mi faceva correre dal ginecologo. Lui e anche i suoi mi accusavano di sperperare i soldi per le mie “fisime”. Abbiamo cominciato a litigare. Io lo incolpavo di non voler bene a me e al bambino che aspettavo. Lui mi accusava di essere una pazza nevrotica per aver fatto tutte quelle cose pur di rimanere incinta di Roberta. Avevamo comprato una casa e c’era da pagare il mutuo e lui mi ripeteva che sarebbe stata colpa mia se, non riuscendo a pagare la rata, avessimo perduto anche la casa. Insomma, un inferno che ha raggiunto il culmine quando ho scoperto, dai numerosissimi messaggini del suo telefonino, che mi tradiva con una ragazza molto più giovane di me. Capisce? Mentre io mi sacrificavo nel fare terapie ed esami per rimanere incinta, lui stava con una ragazza che aveva conosciuta al lavoro e di cui era innamoratissimo, almeno così sembrava dai vari SMS.››

  1. 3.      Le considerazioni sul bambino si accentuano già dopo il parto. Questo evento è stato facile, difficile o chiaramente patologico, per cui sono stati necessari interventi dolorosi e penosi che hanno provocato nella madre ma anche nel padre e nei familiari emozioni negative? La madre ha sofferto di depressione post partum oppure no? E complessivamente quanto hanno inciso sui genitori ed i familiari il dolore, la sofferenza e la paura e quanto la gratificazione e la gioia?
  2. 4.      Al desiderio o non di avere un bambino, ai problemi vissuti durante la gravidanza, ai rapporti che si sono modificati o non dopo l’inizio di questo evento o anche prima, bisogna aggiungere le attese nei riguardi del sesso. Il nascituro ha il sesso desiderato da uno degli elementi della coppia, da entrambi, o da nessuno dei due? Ha il sesso che i nonni attendevano o no?
  3. 5.      Sul giudizio dei familiari, ma soprattutto della madre assume, inoltre, molta importanza la facilità o la difficoltà di governo e di cura del bambino. Il bambino facile acquista rapidamente le abitudini regolari di sonno, veglia, alimentazione; si adatta facilmente alle abitudini e agli orari e alle necessità dei genitori e della famiglia; piange poco, accetta i nuovi alimenti che gli vengono proposti e aumenta regolarmente il suo peso; non si sporca in continuazione. Il bambino difficile, invece, si alimenta male, piange frequentemente, non aumenta di peso come dovrebbe; i suoi momenti di sonno e di veglia non coincidono con le esigenze e le abitudini dei genitori; ha la necessità di essere pulito e cambiato continuamente perché si sporca facilmente. Accanto al bambino facile, al bambino difficile, vi è purtroppo anche il bambino problematico. La presenza di una malattia o di una disabilità complica ancor più l’immagine che di lui ne hanno i genitori con possibili sentimenti di incapacità, delusione, rabbia, colpa e/o accuse reciproche.
  1. 6.      Sul giudizio dei genitori e dei familiari incide poi l’aspetto esteriore del neonato. Stimolano sentimenti, riflessioni ed emozioni, il suo peso alla nascita, il colore dei capelli e della pelle, i tratti del viso, i particolari del corpo. Intanto vi è il gioco, che non è proprio un gioco in quanto le sue conseguenze possono essere rilevanti, sulle sue somiglianze: ‹‹Somiglia a mio marito che amo o a mia suocera che non posso sopportare? ›› ‹‹Somiglia al bambino che avevo sempre immaginato oppure è molto diverso, addirittura è l’opposto a quello sognato? ›› ‹‹È un bambino giudicato bello dagli altri, oppure le persone che vengono a farmi visita lo guardano con mal celato disappunto? ›› Queste ed altre mille domande non sono ininfluenti nel momento in cui si instaurano i primi rapporti con il figlio. Le conseguenze possono essere notevoli. Poiché, spesso, noi troviamo negli altri quello che cerchiamo, se pensiamo che quel bambino che abbiamo in braccio debba essere buono come suo padre,  quel bambino sarà buono come il padre. Ma se immaginiamo che debba essere una “peste” come il nonno, la nonna o lo zio al quale somiglia, egli con molte probabilità ci apparirà e forse lo diventerà veramente un bambino “pestifero”. Sarà il bambino cattivo che ‹‹ non mi fa dormire nelle ore in cui sono abituata a riposare.›› Sarà il bambino che provoca problemi: ‹‹Non si attacca bene al seno e mi costringe a usare il fastidioso tiralatte.›› Sarà il bambino aggressivo: ‹‹Gioca a graffiarmi e farmi male, mordendomi i capezzoli.›› Sarà il bambino capace di generare ansia perché ”non aumenta di peso e vomita quanto ingerito.›› In seguito sarà il bambino capriccioso che ‹‹piange continuamente e continuamente si ammala e mi costringe a rinunziare a tutti i piccoli piaceri della vita.››

Da quanto abbiamo detto si può dedurre facilmente che così come per il bambino vi sono una madre molto buona e una molto cattiva e tra queste due categorie vi sono tutti gli altri tipi di madri, il giudizio sul bambino potrà oscillare tra un bambino molto buono e uno molto cattivo e tra questi due estremi vi sono molti altri giudizi intermedi. Se nei confronti del bambino buono i genitori si sentono gratificati e soddisfatti, lo stesso non avviene nei confronti del bambino cattivo, difficile o problematico verso il quale essi possono avvertire risentimento, aggressività, sensi di colpa, sentimenti di impotenza.

I giudizi su se stessi - L'autostima

Altrettanto importante è il modo con il quale i genitori ed il bambino giudicano se stessi. Il giudizio di sé nasce dalla relazione e condiziona la relazione stessa. ‹‹Se io, madre, non riesco a tranquillizzare il bambino sarà per colpa sua oppure sarà per colpa mia?›› Lo stesso potrà dire il bambino: ‹‹Se io faccio disperare la mamma, può darsi che sia per colpa sua ma può darsi che sia colpa mia, perché io, come a volte lei dice, sono un bambino monello e cattivo.››

Gli effetti [2]di una valutazione positiva di se stessi li conosciamo bene: ‹‹Se io sono bello, buono e bravo, sicuramente rendo contenti mamma e papà, gli altri familiari, e tutti quelli che si avvicinano a me e, quindi, io valgo molto.›› Una buona valutazione di sé rafforza l’Io, stimola la maturazione, fortifica il piacere del rapporto e della collaborazione con gli altri, aumenta la sensazione di serenità, calma e pace interiore, con la conseguenza che migliorano le capacità e la disponibilità verso tutti gli apprendimenti: linguaggio, motilità, autonomia ecc.. 

Se invece vi è una valutazione negativa di se stessi, è come se il bambino dicesse: ‹‹Io sono uno che fa soffrire, sono cattivo, sono brutto, valgo poco, per cui non sono uno da stimare, non sono uno d’amare e da avvicinare ma da allontanare.›› In questi casi la sofferenza che il bambino immagina di trasmettere agli altri, si rivolge come in uno specchio verso di lui. Aumentano l’ansia, la paura degli altri e del mondo, aumenta la chiusura, diminuiscono le capacità relazionali, si altera il rapporto con la realtà, peggiorano le capacità di apprendimento.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1]  H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962,  p. 135.

[2]  Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 188

 

 

 

Il mondo del neonato

Con il giudizio e la mentalità degli adulti è difficile capire quanto sia problematica la condizione di un neonato. Questi è un essere straordinariamente impotente, sprovveduto di mezzi, dipendente e in certo qual modo, come abbiamo detto, “incompiuto”[1]. Pertanto è arduo e delicato il compito dei genitori ed in particolare delle madri, nello stabilire una buona, efficace e duratura relazione con il loro piccolo. I motivi di queste difficoltà sono tanti.

Per il neonato la madre è il mondo intero

Il mondo degli adulti è ricco, ampio e variegato. Nel mondo degli adulti vi sono il lavoro ed il tempo libero, vi sono gli amici e la famiglia, gli amori e le passioni, lo sport ed il gioco, gli spettacoli e la cultura, la religione e la politica. Il mondo del neonato è piccolo e indifferenziato. Le componenti affettivo-relazionali che danno spessore e calore alla vita si riducono a una e una sola persona: la propria madre. Pertanto, nel neonato, il rapporto con la figura materna è totalizzante, in quanto questa rappresenta il mondo intero, ma anche se stesso. Se la madre è ansiosa, o peggio angosciata, questa sua tensione produce angoscia nell’infante[2]. Se la madre è serena e felice, questa condizione di serenità e gioia si rifletterà sul bambino. La madre, quindi, si confonde con il figlio dal quale è avvertita come parte di sé. Poppando egli assorbe la madre quasi perdendosi in lei. Amando le sensazioni gradevoli che la madre gli procura, egli ama se stesso e lei nel medesimo tempo, cosicché la madre è il suo Io, fin quando questo non si è costituito.

I bisogni del bambino, per essere soddisfatti, necessitano di un’altra persona.

Caratteristica del neonato è la sua impotenza e la sua completa dipendenza dalla madre. Senza che qualcuno si occupi di lui, morirebbe. L’adulto organizza l’ambiente nel quale vive in modo tale che possa soddisfare i suoi bisogni. Egli va al supermercato a fare la spesa e sceglie i prodotti che desidera o che gli sono congeniali in quel momento ed in quella situazione. Ha la possibilità di diminuire la sua sofferenza, selezionando la o le persone e i mezzi più opportuni. Il neonato non può fare nulla di ciò. Egli non può camminare da solo, non può nutrirsi da solo, non ha la possibilità di cercare i mezzi per diminuire il suo disagio. Sono gli altri che hanno il compito di scegliere per lui, interpretando i suoi bisogni. Egli può solo segnalare, con i pochi mezzi che ha a disposizione, la sua condizione di gioia e soddisfazione o al contrario il suo malessere, la sua insoddisfazione o la sua collera.

Un neonato non ha la possibilità di capire la causa della sua sofferenza e di porvi rimedio

Un adulto riesce a comprendere i motivi della sua sofferenza, soprattutto se questa proviene dall’ambiente esterno. Quando un suo genitore o una persona cara si ammala, quando l'amore della sua vita lo delude, quando l'amico più caro lo tradisce, quando un conflitto all'interno della famiglia squassa il suo animo, egli ha la consapevolezza delle cause dell'angoscia che l'opprime. Quando la sua sofferenza proviene dall'intimo del suo animo, anche se non ne conosce la causa, sa almeno da dove proviene la sua angoscia. Pertanto, quando riesce ad individuare la o le cause, egli ha la possibilità di cercare e poi trovare i rimedi più opportuni in un buon psicologo o psichiatra, in una relazione più efficace e gratificante, in un farmaco utile per il suo malessere, nello sport e così via. Un neonato non può fare nulla di tutto ciò. Per alleviare la sua angoscia egli è costretto ad affidarsi totalmente alle persone che gli sono vicine e che hanno cura di lui.

Il neonato non può scegliersi l’ambiente più idoneo

Noi adulti possiamo, entro certi limiti, sceglierci le persone, gli animali o gli oggetti a noi più congeniali o che maggiormente soddisfano i nostri bisogni. Se un amico o un gruppo di amici ci delude, non ci gratifica sufficientemente, non si dimostra attento verso le nostre richieste ed i nostri desideri possiamo, anche se con difficoltà, cambiarli con altri. Così come possiamo cambiare fidanzata, e con il divorzio o la separazione, possiamo anche sostituire il compagno o la compagna della nostra vita. Per il bambino tutto ciò non è possibile. Egli è costretto ad accettare l’ambiente dove la natura l’ha inserito. Egli è costretto ad accettare quella madre, quel padre, quei fratelli e quei nonni che il destino gli ha fatto trovare e gli ha posto accanto.

Il neonato non può scegliere il luogo in cui vivere

Noi adulti possiamo, a seconda della nostra indole, in base ai nostri personali gusti e bisogni del momento, scegliere di abitare in campagna, piuttosto che in città; e se abbiamo scelto la città, possiamo abitare al centro o in periferia. Possiamo, quindi, optare per un ambiente vivace, anche se rumoroso, oppure per un ambiente tranquillo e silenzioso. Il neonato non può fare ciò. Pertanto, la quantità di frustrazioni che può essere costretto a subire è molto alta.

Il neonato non può modificare l’ambiente intorno a lui

Noi adulti possiamo, almeno in parte, modificare l’ambiente che ci circonda. Se c’è troppa luce possiamo abbassare le tapparelle. Se c’è troppo caldo possiamo aprire la finestra o accendere l’aria condizionata. Se una sedia è scomoda possiamo sederci su un comodo divano. Se un indumento ci provoca fastidio o prurito possiamo cambiarlo con un altro. Il neonato non può fare nulla di ciò.

Il neonato può modificare molto poco l’atteggiamento delle persone che stanno vicino a lui e che con lui si relazionano.

Spiegando il perché del nostro malessere e qual è il modo migliore per farci sentire bene, possiamo chiedere agli altri di modificare il loro comportamento nei nostri riguardi. Una moglie può dire al marito o al compagno: “Ti prego, non gridare, parla a voce bassa”; “Quando ritorno a casa stanca e nervosa, ti chiedo di non assalirmi con i tuoi problemi”; “Sono nervosa e triste, tienimi stretta a te, abbracciami forte, fammi sentire protetta e sicura”. Il neonato non può fare ciò. Per cui, quando la persona che si prende cura di lui manifesta atteggiamenti e comportamenti poco idonei, non può modificarli se non comunicando il suo dispiacere o disappunto. Né il bambino ha alcun mezzo per alleviare lo stato d’animo negativo fatto di angoscia, tristezza, collera o rabbia di chi ha cura di lui, per cui, direttamente o indirettamente, rischia di rimanere coinvolto nei sentimenti e nelle emozioni negativi degli altri.

Il neonato ha rudimentali mezzi di comunicazione

Noi abbiano una grande varietà di strumenti di dialogo. Quando abbiamo la necessità di comunicare ad altri i nostri bisogni, le nostre necessità, i nostri desideri ma anche i motivi della nostra inquietudine e collera, possiamo farlo verbalmente, per iscritto, con l’uso della gestualità e così via. I mezzi che può usare un neonato sono scarsi e rudimentali. “Io non mi agito, non piango, dormo tranquillo: io sto bene”. “Io piango, strillo, agito le manine ed i piedini, sono rosso in viso: io sto male”. Ma l’intensità, la o le cause, ed i possibili rimedi di questo malessere, possono soltanto essere percepiti, interpretati, compresi e scoperti, solo da una buona madre o da un buon gruppo familiare che sa ben utilizzare l’empatia, l’istinto, l’esperienza e le conoscenze acquisite.

Il neonato non ha esperienze da utilizzare

Se nostra moglie ritarda, per cui non possiamo metterci a tavola e pranzare, conoscendo il carattere di lei, che spesso ci fa aspettare, o i problemi che le dà il suo lavoro, tanto per alleviare i morsi della fame, possiamo aprire il frigo e fare uno spuntino con quello che troviamo, oppure, armati di santa pazienza, possiamo aspettare che torni, in quanto sappiamo quanto dura, di solito, il suo ritardo. Il neonato, non conoscendo le abitudini ed i problemi della madre, se questa ritarda a dargli da mangiare, può facilmente pensare che sia scomparsa o che non abbia alcuna voglia di soddisfare i suoi bisogni e, quindi, che non vi sia alcun essere umano che possa alleviare la sua fame. E ciò lo terrorizza e lo sconvolge.

Un neonato ha scarse difese psicologiche

Una situazione è stressante a seconda del livello di sviluppo raggiunto: maggiori sono la maturità dell’individuo e la sua età cronologica o mentale, migliore sarà il suo comportamento di fronte ai traumi e agli stress. Da ciò si deduce che se un adulto maturo e sereno riesce a metabolizzare una notevole quantità di situazioni stressanti, ciò non può fare un neonato, in quanto non ha ancora sviluppato dei sistemi difensivi efficaci. Pertanto ogni cosa che esula dal normale contesto può notevolmente allarmarlo.

Nel neonato l’emotività prevale sull’emozione

Nell’adulto le emozioni sono, almeno in parte, controllate e gestite. Nel bebè e nel bambino piccolo, a causa della immaturità del suo sistema nervoso, l’emotività prevale sull’emozione. Tanto che, a questa età, le reazioni emotive non hanno sempre una causa nettamente spiegabile. Pertanto possono essere notevolmente sproporzionate, rispetto alle cause e possono diffondersi e sopirsi bruscamente, senza apparente ragione. Il bambino gioisce al massimo come al massimo diventa triste. I fenomeni affettivi hanno quindi un modo di manifestarsi improntato a caratteristiche di globalità, elementarità e indifferenziazione. Non hanno il carattere fisso e convenzionale che troviamo nell’adulto, poiché scaturiscono da una struttura psichica molto meno controllata, non socializzata, non matura, in cui difettano ancora ragionamento e capacità di rappresentazione. Per di più la sua psiche ha ancora scarsi elementi in memoria, pertanto è dominata dal momento presente[3]. Solo più tardi il piccolo essere umano capisce che una soddisfazione può essere ritardata, senza per questo essere negata o che una frustrazione può essere del tutto momentanea e comportare compensazioni successive, per cui può momentaneamente frenare i suoi bisogni insieme alla sua impetuosità o alla sua collera.

Per il neonato il mondo attorno a lui è un luogo sconosciuto

Noi adulti sappiamo cosa vi è nella stanza accanto a quella in cui siamo, cosa vi è fuori della nostra casa, al di là della nostra città. Sappiamo anche cosa succede dall’altra parte del mondo, anche solo per averlo visto in foto o in tv. Il bambino piccolo non sa quasi nulla del mondo che lo circonda. Se la madre o chi ha cura di lui sparisce dalla sua vista, può pensare che sia scomparsa del tutto. Se piange perché ha fame o sete e nessuno viene a consolarlo e a soddisfare i suoi bisogni, può pensare che sarà sempre così e che rischierà di morire. È questo il motivo per cui ai bambini piace dormicchiare in una stanza con qualche rumore di sottofondo, piuttosto che rimanere soli e al buio in una stanza lontano dai genitori. Questi piccoli rumori lo tranquillizzano della presenza dei suoi genitori e gli fanno capire che di non essere solo e abbandonato.

Le sensazioni del neonato

Alla nascita i sensi del neonato sono sviluppati quasi completamente, anche se egli non è ancora in grado di riconoscere gli oggetti e le persone in quanto tali, né ha la coscienza di sé come entità distinta dall’altro. Per Piaget [4] inizia con la nascita una rivoluzione copernicana: “Mentre al punto di partenza di questo sviluppo il neonato riferisce ogni cosa a sé, o meglio al proprio corpo, al punto di arrivo, cioè quando hanno inizio il pensiero ed il linguaggio, si colloca praticamente come elemento o corpo fra gli altri, in un universo che ha costruito a poco a poco, e che sente ormai come esterno a sé “. Pur non potendo conoscere direttamente la vita psichica di un neonato, possiamo verosimilmente immaginarla come un susseguirsi di sensazioni ed impressioni che si sovrappongono le une alle altre in modo caotico e confuso, a causa delle scarse capacità del sistema nervoso di recepire, selezionare, comprendere e gestire al meglio le informazioni in arrivo.

Alcune di queste sensazioni, come quelle tattili, termiche, uditive, olfattive, provengono dal mondo esterno a lui.

Procurano sensazioni tattili i suoi vestitini, la stoffa della culla, l’acqua del bagnetto, il corpo della madre e delle persone che hanno cura di lui. Pertanto il dialogo tonico – emozionale, già presente nella fase prenatale, prosegue dopo la nascita. Queste sensazioni possono essere piacevoli, nel momento in cui il bambino si sente accolto, accarezzato, baciato, oppure sgradevoli se le mani e le braccia che lo manipolano sono tese, rigide, tremanti, incerte, scarsamente accoglienti e morbide, o peggio rifiutanti, violente o aggressive.

Il bambino riceve sensazioni termiche daltepore del seno o del corpo della madre e delle persone che hanno cura di lui, ma anche dall’acqua del bagnetto e dall’ambiente dove vive.

Avverte sensazioni uditive ascoltando il battito del cuore della mamma mentre viene allattato, o udendo le parole di lei, i rumori e i suoni dell’ambiente.

 Percepisce sensazioni olfattive che provengono dall’odore della madre, dei familiari, del latte, dei prodotti per la pulizia sua e della stanza.

Avverte sensazioni cenestesiche quando viene cullato, manipolato, spostato, o quando chi è vicino a lui gioca con le sue manine e con i suoi arti.

Le sensazioni interne provengono, invece, dal suo organismo: dalla pelle irritata, dal suo respiro, dai borbottii e dalle altre contrazioni dell’addome, dal battito del suo cuore.

Certe percezioni sono dolorose o sgradevoli e provocano tensione e bisogno che qualcuno provveda ad eliminarle, mentre altre sono piacevoli e gradevoli ed il neonato vorrebbe che non finissero mai, in quanto gli procurano un senso di benessere. Tutte queste sensazioni non sono però nette e chiare ma confuse ed incerte. Il neonato ancora non sa, non capisce da dove vengono e perché vengono, in quanto non le ha ancora interpretate, definite e catalogate. L’adualismo nel quale egli vive, così ben descritto dal Piaget, gli rende impossibile distinguere il suo mondo interiore da quello esterno, l’Io dal non Io. Allo stesso modo ancora non esistono, a livello di coscienza, il tempo e lo spazio, né vi è causa ed effetto o relazioni di qualsiasi genere. Per il neonato esiste soltanto una specie di adesso, indifferenziato al quale il bambino non si può sottrarre[5].

Quando dorme, e il bambino neonato dorme per la maggior parte del suo tempo, le sue impressioni sono ancora più vaghe e confuse [6]. Ciò può spiegare, almeno in parte, i suoi trasalimenti, durante il sonno, le sue precoci paure, i suoi scoppi di pianto improvvisi, e per noi immotivati.

 

Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 27.

[2] SullivanH.S.,       (1962), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano, Feltrinelli Editore, p. 59.

 

[3] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 60.

 

[4] Piaget J., (1964), Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Torino, Giulio Einaudi Editore, p. 17.

 

[5] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 48.

[6] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 49.

[7] De Pinto L., (2004), “Conversare tra noi lungo il cammino”, Consultori familiari oggi, n. 2-3, anno 12, p. 13.

[8] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965,  p. 28.

[9] Osterrieth, P.A., Introduzione alla psicologia del bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1965, p. 28.

[10] Langeveld, in Osterrieth, P., A., (1965)  Introduzione alla psicologia del bambino, Firenze, Giunti e Barbera, p. 29.

Il dialogo madre - figlio

 

Nel periodo neonatale i genitori ed i familiari, ma soprattutto la madre, inviano continui messaggi al bambino.

Sono messaggi uditivi.

Le madri, tutte le madri di ogni cultura, razza e nazione, utilizzando un tono e delle parole particolari cercano di cullare, rassicurare, confortare, manifestare comprensione, vicinanza, attenzione, piacere e gioia nei confronto del proprio bambino. Cercano, inoltre, di stabilire delle intese che siano reciprocamente utili e compatibili. Non è raro sentire durante la notte frasi sussurrate del tipo:

‹‹Ho capito... vuoi mangiare, aspetta che ti prendo. Su...su… non essere impaziente, ecco per te tanto buon latte. E’ proprio bello il mio tesoruccio, succhia... piano, mi raccomando, non essere ingordo e non fare male alla tua mammina. Adesso facciamo un bello eruttino e ritorniamo a dormire. Non hai voglia di dormire? Ma la tua mamma sì. Come risolviamo questo problema? Aspetta... ti metto accanto a me nel lettone e così tu puoi stare sveglio quanto vuoi mentre la tua mamma continua il suo pisolino...ti va questa soluzione? Sì vedo che è di tuo gusto...ma non mi dare calcetti se no non riesco a riprendere sonno.››

Durante il giorno le madri parlano con i loro piccoli per comunicare i loro sentimenti, le attese, le emozioni:

‹‹Ho capito che hai fame, mangia tranquillo e abbondantemente ma con calma, senza abbuffarti se no non lo digerisci e ti vengono le “colichette”. Fra poco arrivano il tuo papà e la nonna. Dopo che avrai mangiato ti cambierò e così farai bella figura con loro. Lo sai che sei bello? Lo sai che sei il più bel bambino del mondo e che la tua mamma ed il tuo papà ti vogliono tanto bene?››

E’ facile sentire frasi e discorsi come questi, fatti dalle madri ai loro neonati i quali sicuramente non sono in grado di capire le parole ma il tono e la intenzionalità che sottostanno alle parole, sì.

Quando, invece, le madri hanno un alterato rapporto con il bambino, le frasi che si ascoltano più frequentemente sono di ben altro tenore:

‹‹Cos’ha questo bambino? Gli ho dato da mangiare, l’ho lavato, l’ho pulito: perché strilla tanto? Non lo capisco proprio! Ho fatto tutto quello che era possibile per lui e non è mai contento. Uffa! Com’è noioso. Sono sicura che è un tipo capriccioso come suo padre. Tra l’altro con i suoi rigurgiti di latte mi ha sporcato tutta. Che puzza che faccio! Non ce la faccio più! Appena viene tua nonna ti lascio a lei e vado fuori.››

Successivamente, con la maturazione delle aree deputate all’interpretazione dei messaggi verbali, la ripetizione delle stesse parole e delle stesse frasi, in occasioni simili, permette al bambino di comprendere il significato verbale.

Sono messaggi visivi.

Il bambino, mentre succhia il seno materno, si ritrova spesso a guardare la madre che, a sua volta, lo guarda sorridendo, comunicandogli la sua gioia nell’averlo tra le braccia, il suo piacere nel stringerlo al cuore, la gratificazione che prova nel dargli, con il latte, una parte di sé. In definitiva la madre, mentre nutre il corpo del suo bambino, dà nutrimento anche al cuore di lui in quanto, come dice BARTOLO: ‹‹Il nutrimento affettivo è essenziale allo sviluppo tanto e più del latte che esce dal seno materno.››[1]

Sono messaggi tattili.

I genitori utilizzano moltissimo questa tipologia di messaggi, come i baci e le carezze al viso, alle mani, ai piedi, al torace. Per calmare il figlio gli massaggiano il pancino, danno colpetti più decisi e ritmici sul suo sederino. Abbracci e baci hanno non solo lo scopo di calmare ma soprattutto tendono a gratificare, a comunicare gioia, piacere, tenerezza, attenzione, accettazione, vicinanza e fiducia.

Il bambino riceve conferma della sua aspettativa ogni volta che le cose avvengono come al solito. Questo gli dà sicurezza in quanto ha dei punti di riferimento precisi per cui la sua globale situazione assume un valore positivo, benefico e rassicurante.

 I messaggi figlio - madre

Se sono numerosi i messaggi materni lo sono altrettanto, anche se qualitativamente diversi, i messaggi inviati dal neonato affinché la madre capisca i suoi stadi d’animo: il piacere, l’interesse, la gioia, o al contrario l’angoscia, la rabbia, il disgusto, la paura, la sorpresa.

Sono messaggi visivi: le espressioni facciali, il colore della pelle, le posture che assume il bambino, i movimenti degli arti.

Sono messaggi uditivi: i mugolii, il pianto, anzi i vari tipi di pianto, i vocalizzi. ‹‹Nelle due prime settimane di vita le sue emissioni vocali non sono correlate in modo riconoscibile con la situazione o con gli stimoli. Tra la seconda e la quinta settimana suoni particolari vengono a corrispondere a disagi particolari e vengono compresi come segni.(…) Nel periodo successivo alla prima infanzia (dai due ai quattro mesi), il bambino si fa più attivo nella comunicazione, e vi partecipa maggiormente sia come ricevente che come emittente.››[2]

Sono messaggi tattili: la temperatura della sua pelle, l'umidità e la consistenza della cute.

Sono messaggi odoriferi: l'odore della pelle, del sudore, dell’aria espirata.

E’ necessario allora che la madre, o chi ha cura del bambino, abbia la possibilità e la capacità di interpretare questi vari tipi di messaggi dando ad ognuno di essi il significato più appropriato.

 

Mediante questi vari tipi di comunicazione i bambini non solo fanno conoscere alle madri i loro bisogni ma inviano ad esse anche delle ricompense per quanto si adoperano. Queste ricompense sono fatte di sorrisi, toccamenti, smorfiette, che comunicano alla madre: ‹‹Sei stata brava. Mi hai capito. Hai posto rimedio al mio bisogno, al mio fastidio. Grazie per esserti subito attivata! .›› Tali ricompense, gratificando la madre, a sua volta, sono in grado di migliorare l’attaccamento di questa verso il piccolo, attivandola maggiormente ai suoi compiti di cura. ‹‹In un senso biologico fondamentale, non è vero che l’infante si espande a spese della madre, tranne che in condizioni anormali. Possediamo solide prove per dimostrare che, in condizioni normali, il benessere della madre e quello del bambino sono tutt’uno. Ciò che è bene per il bambino lo è per la madre e viceversa.››[3]

Al contrario questi messaggi possono trasmettere rabbia, collera, insoddisfazione, disappunto per le scarse capacità o per il modesto impegno dimostrato dalla madre nei suoi confronti. In questi casi la frustrazione che ne ha la donna può portare, se da questa non è ben compresa e utilizzata per migliorarsi, ad un maggior distacco affettivo nei confronti del bambino ma anche a giudizi negativi su di lui: ‹‹Questo bambino è cattivo e quindi non si merita molte attenzioni e cure da parte mia.›› Si può allora innescare un pericoloso circolo vizioso con conseguente grave sofferenza per entrambi.

BUONE CAPACITA' NELLA COMUNICAZIONE

Per la madre, avere buone capacità nella comunicazione implica, quindi, saper ascoltare e capire i bisogni del bambino espressi dai suoi segnali, per poi adeguarsi alle sue esigenze fornendo risposte corrette, coerenti e valide.

Gli effetti di una buona e corretta comunicazione madre-figlio portano all’apertura e all’accettazione di un luogo al di fuori di lui e quindi all’apertura al mondo esterno con l’integrazione tra la realtà esterna ed interna.[4] Il bambino allora riesce a distinguere il dall’altro, dall’esterno, e può costruire una membrana delimitante, così da poter dire: ‹‹Io sono.›› Contemporaneamente, dopo aver acquisito una sua individualità può veramente far parte di un gruppo. Successivamente, all’interno di questo possono essere raccolte memorie ed esperienze e può essere edificata la struttura infinitamente complessa che è propria dell’Io dell’essere umano con i suoi numerosi bisogni fisiologici e psicologici. Al contrario, si procura una notevole sofferenza al bambino quando, a causa di errate interpretazioni o di pigrizia e scarsa disponibilità ed impegno, vengono a lui fornite delle risposte non corrispondenti ai suoi bisogni, incomplete o parziali. In questi casi si può avere una sorta di scollamento tra la madre ed il bambino stesso, con notevoli conseguenze sul piano dell’attaccamento reciproco.

Decodifica corretta e risposte coerenti

La comunicazione non produce automaticamente la comprensione. Di ciò ne siamo consapevoli anche noi adulti. Molte volte, parlando con il coniuge o con un caro amico, diciamo la fatidica frase: ‹‹Non mi hai capito.›› Eppure il nostro maturo e ricco linguaggio di adulti dovrebbe essere estremamente chiaro per il ricevente.

La decodifica corretta dei messaggi richiede alcune indispensabili condizioni:

  1. 1.     buone capacità intellettive;
  2. 2.     buone capacità empatiche;
  3. 3.     corretta educazione e buon tirocinio;
  4. 4.     buona disponibilità all’ascolto;
  5. 5.     una sufficiente serenità interiore;
  6. 6.     buone capacità e disponibilità nel dare risposte coerenti, stabili, complete e soddisfacenti.

 

  1. 1.     Buone capacità intellettive.

 Queste capacità permettono la corretta acquisizione, memorizzazione, analisi ed elaborazione dei segnali emessi dal bambino. (MORIN la chiama : comprensione intellettuale o oggettiva)[5]. In tal modo, in ogni momento, la madre o chi ha cura del neonato, può utilizzare delle giuste ed efficaci chiavi di lettura. Modeste o scarse capacità intellettive non permettono di fare ciò, in quanto l’esatta interpretazione di quanto visto, udito, toccato, sfugge ad un esame lacunoso ed incompleto.

  1. 2.     Buone capacità empatiche.

Accanto a buone capacità intellettive i genitori, ma soprattutto la madre devono avere buone capacità empatiche. Devono, cioè essere in grado di immedesimarsi e identificarsi nel bambino fino a cogliere in ogni momento i suoi pensieri ed i suoi stadi d’animo più profondi, senza la necessità di effettuare un’analisi razionale. Queste capacità che oggi alcuni studiosi collegano al buon funzionamento dei neuroni specchio, permettono alla madre di essere ‹‹particolarmente recettiva nel cogliere intuitivamente gli stimoli emozionali e corporei del bambino come li vivesse da sé.››[6] (Comprensione umana intersoggettiva)[7].

  1. 3.     Corretta educazione e buon tirocinio.

Una buona madre o anche una madre sufficientemente buona possiede, nel suo corredo cromosomico, tutte le potenzialità per una buona interpretazione dei messaggi se ha anche ricevuto un’educazione adeguata. Non basta, quindi, il cosiddetto istinto materno, se questo non viene costantemente sollecitato, potenziato e sviluppato, mediante l’educazione e l'esperienza. Purtroppo questa preparazione è molto carente nelle moderne società occidentali, in quanto è valorizzata, sia a scuola sia in famiglia, la preparazione di tipo tecnico - professionale, utile, in parte, solo per una futura attività lavorativa. È, invece, scarsamente presente l’educazione emotivo – affettiva, che si pone come finalità lo sviluppo di capacità indispensabili per affrontare nel modo migliore possibile i futuri ruoli di madre e di padre. Pertanto non sono trasmesse, in maniera adeguata e nei momenti più opportuni, le fondamentali specifiche informazioni e conoscenze riguardanti i bisogni dei bambini, i loro strumenti di comunicazione, l’uso che ne fanno, i significati dei segnali da loro emessi.

I genitori mancano, inoltre, del necessario bagaglio delle più adeguate ed appropriate risposte da dare alle sollecitazioni dei figli piccoli. Tale difficoltà si aggrava anche per la mancanza di un lungo e corretto tirocinio che dovrebbe essere effettuato con i piccoli della sfera familiare: fratelli, cugini, nipoti. Questa carenza è dovuta allo scarso numero delle nascite, ma anche alla modesta composizione della rete familiare. Anche quando sono presenti dei bambini piccoli manca, spesso, un valido, continuo ed efficiente tutoraggio materno, in quanto i bambini sono affidati sempre più frequentemente ad altre istituzioni come gli asili nido o ad altre mani e cuori come le tate e le baby - sitter.

  1. 4.     Buona disponibilità all’ascolto.

Per riuscire a comprendere un piccolo essere umano, come un neonato, che utilizza soprattutto messaggi non verbali di difficile interpretazione, è indispensabile che i genitori, e soprattutto la madre, riescano a creare attorno a loro e dentro di loro un notevole silenzio. Creare il silenzio esteriore è più facile a dirsi che a farsi. Se nelle società più semplici e povere di oggetti tecnologici questo tipo di raccoglimento è facilitato in quanto l’ambiente di vita lo favorisce, lo accoglie e lo valorizza, nelle società più complesse e più ricche di strumenti di comunicazione come le nostre, il raggiungimento di questo obiettivo è notevolmente difficile e problematico, in quanto gli altri: amici, parenti, colleghi di lavoro ecc., si aspettano, pretendono e vogliono da noi alcuni tipi di comportamento e non altri. Gli altri si aspettano che si abbia almeno un cellulare, un televisore, una radio e un computer collegato ad Internet con posta elettronica in cui ricevere le varie E-mail e si meravigliano se non vedono il nostro viso su face –book. Gli altri pretendono risposte rapide, se non immediate ad ogni messaggio da loro inviato, così come desiderano che il nostro cellulare e gli altri mezzi di comunicazione siano sempre attivi, pronti a ricevere le varie chiamate.

In definitiva gli altri si aspettano che noi siamo sempre collegati alla rete di comunicazione globale e costantemente pronti ad interagire con loro. Lo staccarsi da questa rete, anche se temporaneamente, è avvertito e giudicato negativamente. Solo un essere originale, antiquato o con scarsa educazione e desiderio di socialità, si comporterebbe così. Pertanto per non essere giudicati male si è costretti ad adeguarsi rapidamente e pienamente all’uso corrente.

 Altrettanto difficile è creare il silenzio interiore. Le attese e le richieste del mondo del lavoro e delle varie amministrazioni, le necessità del mondo sociale, sono tali e tante che è estremamente difficile escludere, per il tempo necessario alla riflessione, le preoccupazioni e gli impegni che, come un rumore di fondo, si agitano dentro di noi creando confusione e ansia.

Pertanto diventa difficile e complesso riuscire a mettersi in ascolto dei delicati, tenui e complessi segnali lanciati dal bambino.

Difficile è, inoltre, creare il silenzio interiore quando l’ansia, la depressione o lo stress agitano l’animo di chi soffre di queste problematiche. LIDZ aveva evidenziato nelle famiglie dei pazienti schizofrenici ‹‹…l’incapacità dei genitori di percepire, comprendere o tollerare ciò che non rientra nel loro rigido sistema di difesa. “Inaccessibile” è un termine che si applica frequentemente alle madri o ai padri dei pazienti schizofrenici per indicare la loro incapacità di percepire i bisogni emotivi del bambino. Il genitore può “udire” ma non “ascoltare” ciò che il bambino dice, ed è ancora più sordo ai richiami muti.››[8]

 

Nella nostra società supercompetitiva, di questo tipo di stress soffrono sia gli uomini che le donne, anzi soprattutto queste ultime, in quanto sono costrette a barcamenarsi tra i tanti ruoli che la moderna società occidentale impone loro, affinché si sentano perfettamente “libere, impegnate ed integrate.” ‹‹Sei una donna che ha un’agenda piena di appuntamenti e di cose da fare, che mette lo stesso impegno, entusiasmo e dedizioni nelle piccole e grandi attività a casa e sul lavoro? Nel tuo ambiente di lavoro sei sempre indaffarata in compiti diversi, affrontati anche simultaneamente e trovi in essi la fonte principale della tua identità personale? Ti impongono di gestire al meglio ogni responsabilità, senza compromessi e deleghe e senza mai dire di no? Ti sforzi di ricavare il massimo dai vari ruoli che ricopri come individuo, figlia, fidanzata, moglie, madre, donna in carriera? Vuoi dimostrare di essere sempre migliore degli altri nel lavoro, nella gestione dei figli, in famiglia, nello sport, nella cura dell’aspetto, nelle relazioni affettive, e nella vita sociale? Tendi raramente a staccare la spina, a fermarti per concederti un riposo? Se tutto questo corrisponde al tuo profilo è probabile che tu faccia parte della categoria delle superwomen.››[9]

Questo tipo di superdonne che vogliono fare tutto e bene, si accorgono presto o tardi di fare troppo e male e di essere cadute in una trappola sociale autoimposta,[10] in quanto notano ben presto che al loro malessere si associa anche il malessere dei figli e delle persone che sono a loro vicine.

Altra caratteristica che restringe e limita le capacità e possibilità di ascolto, è la personalità in cui è presente un Io ipertrofico. Questo tipo di personalità spesso è portato a riflettere poco, in quanto crede di possedere già tutte le informazioni che servono a capire e a prendere delle decisioni. In questi casi l’eccessiva sicurezza, con conseguente scarsa ponderatezza, impedisce di soffermarsi a controllare sia quanto avvertito dal bambino, sia la qualità e l’utilità delle risposte date.

  1. 5.      Una sufficiente serenità interiore.

Una buona serenità interiore è indispensabile per una corretta e sana comunicazione tra madre e bambino.

Tutte le alterazioni psicologiche provocate dall'ansia, dalla depressione, dall’irritabilità, dalla facile eccitabilità, ma anche dallo stress eccessivo, dall’uso di alcool e droghe di ogni tipo, disturbano più o meno intensamente, più o meno gravemente il dialogo genitore –figlio. Queste alterazioni della psiche alterano soprattutto le comunicazioni più delicate e complesse come quelle tra un bambino piccolo e la propria madre.

    6. Buone capacità e disponibilità nel dare risposte coerenti, stabili, complete e soddisfacenti.

Non basta ascoltare un messaggio, non basta interpretarlo correttamente: bisogna anche riuscire a dare delle risposte stabili e coerenti nel tempo, complete e soddisfacenti rispetto ai bisogni del bambino. La risposta coerente comporta delle azioni successive che siano in sintonia con la richiesta contenuta nel messaggio. ‹‹Ho capito che hai sete e quindi ti do da bere.››. La risposta incoerente, al contrario, non tiene conto del messaggio in arrivo: ‹‹Ho capito che hai sete ma poiché in questo momento sto discutendo e non ho voglia di alzarmi, faccio finta di non capire e ti dico di stare buono e tranquillo al tuo posto.›› Per evitare di dare una risposta coerente, a volte, si può fare anche di peggio, come accusare il figlio di fare delle richieste inopportune: ‹‹Possibile che ogni volta che godo nel chiacchierare con le amiche tu mi devi disturbare con la tua sete? ›› La risposta è stabile nel tempo quando il soggetto continua ad offrire sempre lo stesso tipo di comportamento. Le risposte sono complete e soddisfacenti quando i bisogni del bambino sono soddisfatti pienamente e non solo in parte.

 Decodifiche non corrette e risposte incoerenti

 

Le difficoltà nella corretta decodifica e nel dare risposte stabili, coerenti, complete e soddisfacenti possono essere causate da:

  • Scarsa sensibilità nei confronti dei segnali in arrivo

  • Errata interpretazione dei segnali

  • Giudizi negativi sul figlio

  • Presupposti erratti o eccessivi

  • Visione egocentrica della realtà

  • Difficoltà nell'adeguarsi ai bisogni del bambino

  1. 1.     Scarsa sensibilità nei confronti dei segnali in arrivo.

Vi sono dei genitori che avvertono un segnale solo se questo è molto intenso, vigoroso e costante. In caso contrario è come se non esistesse. Si può fare l’esempio dei sordastri i quali si attivano solo quando il segnale che raggiunge l'apparato uditivo è molto forte. Allo stesso modo in alcune persone, a causa di problematiche interiori, ansie, preoccupazioni e stress, la soglia percettiva è più alta della norma, per cui avvertono il messaggio solo se questo ha caratteri eclatanti. Ciò naturalmente irrita il bambino il quale vorrebbe, invece, essere rapidamente capito e soddisfatto nei suoi bisogni essenziali, senza la necessità di piangere a più non posso e disperarsi.

  1. 2.     Errata interpretazione dei segnali.

Il segnale o i segnali che il bambino emette possono arrivare alla nostra coscienza normalmente, ma essere male interpretati. Ad esempio: la madre pensa erroneamente che il bambino pianga in quanto ha bisogno di essere cullato, mentre in realtà egli vorrebbe soltanto essere cambiato di posizione. Per tale motivo l’esser cullato non solo non raggiunge lo scopo di calmare il bambino, ma al contrario può farlo innervosire maggiormente in quanto egli si sente non capito o, peggio, teme di non essere in grado di farsi capire. La stessa cosa avviene quando la madre pensa che il suo strillare sia dovuto alla fame per cui cerca di dargli da mangiare, mentre il suo pianto era causato da coliche addominali e pertanto il cibo aggiunto non fa che aumentare la indisposizione del figlio. E ancora. La madre pensa che  l’agitarsi nel lettino significhi che non ha più sonno e quindi accende la luce e apre le imposte affinché si svegli completamente, mentre in realtà questi movimenti del bambino sono dovuti alla mancanza di un sonno ristoratore che lo rende inquieto. Come abbiamo, visto a volte si attuano dei comportamenti che sono l’esatto opposto di quelli necessari e utili in quel momento. Bisogna però aggiungere che, pur sbagliando, alcune madri imparano rapidamente dagli errori e correggono il tiro, mentre altre, poco flessibili, continuano imperterrite a commettere gli stessi errori, per cui la sofferenza del piccolo sarà più intensa e più prolungata nel tempo.

  1. 3.     Giudizi negativi sul figlio.

Alcuni genitori, pur di non ammettere i propri errori di valutazione, mettono sotto accusa il figlio dandogli degli immeritati giudizi negativi: ‹‹Questo bambino è cattivo e capriccioso, non sa neppure lui cosa vuole e non fa altro che disturbarmi inutilmente. E allora si arrangi. Pianga e strilli quanto vuole. Io non intendo farmi coinvolgere dai suoi capricci.›› Lo stesso comportamento attuano quei genitori che tendono a focalizzare l’attenzione sulla propria persona e pertanto non sono disponibili all’ascolto dei bisogni altrui se non sono in linea con i propri. Questi genitori, se trovano un neonato che si sintonizza rapidamente con i loro bisogni e abitudini così da accettare facilmente i loro orari per cui dorme quando essi dormono, resta sveglio quando loro sono svegli, mangia quando loro mangiano e così via, riescono ad instaurare con lui un buon rapporto, ma se per caso il bambino ha ritmi diversi di sonno - veglia o si alimenta in momenti diversi rispetto a quelli che essi avevano programmato, si impuntano e resistono ai suoi richiami. ‹‹Per non cedere ai suoi capricci e per ben educarlo! ›› diranno, mentre in realtà stanno difendendo i loro bisogni e le loro abitudini.

  1. 4.      Presupposti errati o eccessivi.

I presupposti errati possono nascere da idee personali, influenzate da preconcetti o da parziali e limitate esperienze. I presupposti errati possono provenire, inoltre, dall’accettazione passiva di una delle tante teorie che circolano sulla rete Internet, nei libri, nei giornali, nelle riviste poco qualificate, alla Tv e alla radio. Questo fenomeno si è notevolmente ampliato oggi in quanto, a differenza che nel passato, siamo costantemente bombardati da una grande massa di informazioni poco attendibili e serie. La grande quantità di ore di trasmissioni e le numerose pagine dei giornali da riempire di contenuti, comportano, da parte dei direttori delle testate radiotelevisive o giornalistiche, la difficoltà di selezionare e verificare accuratamente le informazioni. Pertanto queste risultano spesso poco o per nulla aderenti ad un minimo di verità e serietà scientifica. Tra l'altro, molti strumenti d’informazione, pur di riportare qualcosa di diverso e di non usuale ricercano e presentano non le notizie scientifiche più consuete e affidabili, ma quelle che possono colpire maggiormente l’attenzione o la fantasia degli ascoltatori o dei lettori.

Tutto ciò condiziona negativamente i genitori, soprattutto le madri e i padri più fragili e ansiosi. Da ciò una notevole varietà di atteggiamenti e comportamenti da un genitore all’altro, in quanto, alcuni genitori accettano una certa teoria e la fanno propria, mentre altri mettono in pratica una teoria molto diversa. Spesso gli stessi genitori, nel tempo, cambiano comportamento e atteggiamento, a seconda della teoria prevalente e di moda in quel momento o scelgono quella più congeniale ai loro bisogni personali e individuali. In questa babele di informazioni ritroviamo, nel rapporto con i minori, una grande varietà di atteggiamenti e comportamenti. Addirittura, il che è peggio, può avvenire che all’interno della stessa coppia il papà attui una certa linea educativa e la mamma metta in essere un progetto formativo completamente diverso e contrastante. Capita allora, per esempio, che il papà insista a che la mamma allatti il bambino quando egli, con il pianto richieda di mangiare (allattamento a richiesta), mentre la mamma si impunti a che il bambino mangi ad orari ben precisi, in modo da educarlo ad accettare dei tempi fisiologici tra una poppata e l’altra (allattamento ad orario). Così come può capitare di vedere nelle coppie di separati un papà che veste in modo spartano il figlio quando è con lui, per meglio fortificarlo, e quindi in pieno inverno, lo veste solo con una maglietta, mentre la madre, che segue una teoria opposta, copre a più non posso il proprio bambino con maglie, vestitini e cappottini di lana per evitare che si raffreddi.

Allo stesso modo alcuni genitori non volendo che il bambino “si abitui male”, non prendono mai in braccio i propri figli, mentre altri, seguendo l’esempio dei Masai della Tanzania li tengono sempre addosso.

Questa molteplicità di comportamenti e atteggiamenti educativi e di cura, ci appare poco razionale in quanto sappiamo che i bisogni veri e profondi dei minori, non cambiano nel tempo e pertanto le modalità educative non dovrebbero essere eccessivamente diverse da una coppia all’altra. L’aver smarrito, in quanto ritenuta erroneamente poco scientifica, la cultura tradizionale filtrata da milioni di esperienze dirette e trasmessa oralmente da una generazione all’altra, ha comportato un danno notevole nella coerenza e nello stile educativo dei nuovi genitori.

  1. 5.     Visione egocentrica della realtà.

La visione egocentrica della realtà si evidenzia ogni volta che pensiamo che il bambino debba amare, desiderare oppure rifiutare e odiare, ciò che noi amiamo, desideriamo, rifiutiamo o odiamo: ‹‹Siccome io sento caldo penso che anche mio figlio debba sentire caldo.›› ‹‹Siccome a me piace un certo cibo ritengo che anche al bambino debba necessariamente piacere lo stesso alimento.›› La visione egocentrica inserisce, come fondamento dei propri comportamenti, le proprie sensazioni, i propri desideri, le proprie emozioni, la propria visione della realtà e non i gusti, i desideri ed i bisogni personali del bambino. Questo vedere la realtà con i propri occhi e con il proprio sentire e non con i bisogni degli altri, fa accettare con difficoltà altri modi di essere ed altri vissuti. Pertanto, i comportamenti conseguenti seguono questi non corretti parallelismi. Questa tipologia di genitori, ad esempio, toglie la maglietta al figlio in quanto loro sentono caldo o danno al bambino la marmellata di mirtilli che a loro piace tanto, pensando che anche il bambino debba sentire caldo e che i mirtilli debbano necessariamente piacere anche a lui.

  1. 6.     Difficoltà nell’adeguarsi ai bisogni del bambino.

Alcune volte i genitori comprendono perfettamente la o le richieste del bambino, ma non hanno energie sufficienti o voglia di soddisfarle: ‹‹Capisco che mi chiede di fargli da mangiare ma, in questo momento, nonostante la mia buona volontà, non ho la forza sufficiente per accontentarlo.›› ‹‹Capisco che vorrebbe essere abbracciato per sentirsi protetto ma, giacché in questo momento mi sento fragile e pertanto sono io che vorrei essere abbracciata, in modo tale da sentirmi sicura e confortata, non riesco ad esaudire il suo desiderio ed il suo bisogno.››

La mancanza di disponibilità, di forze e di energie necessarie a dare al bambino le cure necessarie può essere dovuta:

  • ·         a numerose condizioni organiche come le malattie debilitanti, i deficit ormonali, l’abuso di alcool, l’uso di droghe o psicofarmaci;
  • ·         a disturbi psicologici come la depressione, i postumi da stress, l’ansia o le nevrosi ossessive persistenti;
  • ·         ad impegni e attività lavorative eccessive, psicologicamente o fisicamente debilitanti. E’ una situazione questa oggi molto frequente. La società dei consumi stimola e riesce a convincere molti genitori ad attivarsi in modo eccessivo negli impegni lavorativi, per avere il denaro necessario a soddisfare richieste ed esigenze sempre maggiori ed il più delle volte assolutamente superflue, proposte da parte della pubblicità come essenziali. Pertanto la consapevolezza delle necessità affettive e di cura dei figli, si scontra con la necessità di rimpinguare il più possibile il conto in banca.
  • ·         alla presenza nei genitori di un Io pigro, o egoisticamente immaturo;
  • ·         alla mancanza di un profondo legame affettivo nei confronti del figlio. In questi casi di disaffezione è spesso presente una scarsa disponibilità a soddisfare delle richieste, avvertite come occupazioni noiose o eccessive. In questo caso i genitori, pur capendo i bisogno del bambino, preferiscono occuparsi di altre cose ritenute più piacevoli, interessanti e gratificanti;
  • ·         alla solitudine nell’affrontare le cure ed i compiti educativi. Solitudine dovuta all'assenza fisica o alla scarsa collaborazione dell’altro coniuge o della rete familiare. Anche in questo caso ai figli sono date delle risposte instabili, poco coerenti o non soddisfacenti. Ciò avviene sia quando a guidare la famiglia è solo la madre (famiglia madre – centrica), sia al contrario, quando a guidare la famiglia è solo il padre ( famiglia padre – centrica). E’ ampiamente dimostrato che le cure più attente ed efficaci si attuano quando sono presenti entrambi i genitori che si relazionano in maniera armonica con aiuto, sostegno e rispetto reciproco.

 Le conseguenze

Quando i genitori hanno problemi nella comunicazione o non danno risposte coerenti e stabili, complete e soddisfacenti, le conseguenze sono notevolmente gravi.

  • ·         Il bambino avverte che è inutile comunicare se non si è ascoltati o se le proprie richieste non vengono esaudite;[11]
  • ·         Il bambino può immaginare qualcosa di ancora più grave: che è dannoso comunicare se ciò ha sugli altri dei risvolti negativi. Ad esempio, se fa aumentare la loro ansia, se li porta a scontrarsi, se accentua i loro comportamenti aggressivi e rifiutanti.
  • ·         Il bambino può apprendere a non fidarsi nelle possibilità insite nella comunicazione,
  • ·         Il bambino può ritenere che non bisogna fare assegnamento sui genitori, sugli adulti e sugli esseri umani in generale. Infatti, quando persistono gravi difetti nella comunicazione tra genitori e figlio, la sfiducia verso gli altri può ampliarsi a tutta la realtà esterna e, conseguentemente, si può instaurare una chiusura (autismo) verso il mondo reale. Il bambino in questi casi rimane solo e prigioniero delle sue ansie, delle sue paure, delle fantasie ed elaborazioni mentali.[12]

Queste difficoltà o questo analfabetismo affettivo appare in costante, continuo aumento nel mondo occidentale per vari motivi:

  • ·         la formazione delle coppie genitoriali avviene nel migliore dei casi in base al sentimento amoroso, mentre, nei casi peggiori, per iniziare un cammino di coppia a volte è sufficiente il fuoco dell’innamoramento, della passione o dell’attrazione sessuale. Non sono, quindi, opportunamente valutate, in queste scelte e decisioni, le capacità proprie e dell’altro indispensabili per essere una buona madre o un buon padre;
  • L’  Impegno nei confronti delle acquisizioni culturali è rivolto soprattutto alle nozioni utili per superare dapprima interrogazioni ed esami di tipo scolastico, mentre, successivamente, tale formazione ha lo scopo di ottenere una buona capacità professionale. Nel contempo è sottovalutata la preparazione attinente la comunicazione efficace necessaria nella relazione con un bambino piccolo;

  • Il t Tirocinio nella cura e nell’ascolto di un neonato è assente o scarsamente presente nella vita sia degli uomini che delle donne;

  • L’ Aumento di giovani con disturbi psicologici più o meno gravi, incrementa il numero dei casi di genitori che presentano gravi difficoltà nella comunicazione insieme a scarse possibilità e disponibilità nel dare risposte coerenti, stabili, complete e soddisfacenti

     

    Tratto dal libro di Emidio Tribulato "Il bambino e l'ambiente" 

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[1]  G. V. BARTOLO, “L’amore che fa crescere il figlio”, in Famiglia oggi, 2003, 2, p.27.

[2]  R. SPIEGEL, La comunicazione nei disturbi psichiatrici, in S. ARIETI (a cura di), Manuale di psichiatria, Boringhieri, Torino, 1970, p 2116.

 

[3]  N.W. ACKERMAN, Psicodinamica della vita familiare, Boringhieri, Torino,  p.102.

[4]  D. W. WINNICOTT, I bambini e le loro madri, Cortina Raffaello, Milano, 1987, p 18.

 

 

 

 

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