L'educazione

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Educare alla speranza ed alla gioia

 

Educare alla speranza significa educare alla vita e alla gioia. Educare alla speranza è dare significato a tutto ciò che siamo, che facciamo, in cui crediamo.

Educare alla speranza significa rapportarsi con gli altri, con se stessi, con il mondo, in modo positivo. Nei momenti di delusione e di sconforto è importante dare speranza, risvegliare la fiducia su di sé, sulla vita, sugli altri, sullo stato.

Ad un giovane bisognerebbe insegnare a vivere il presente in modo attivo e costruttivo, fare tesoro delle esperienze passate con lo sguardo proteso verso il futuro.

Per N. Galli: “Nei soggetti d’ambo i sessi va accesa ed alimentata la speranza nel domani da preparare con il concorso di tutti. I giovani ripongono le loro speranze nel lavoro, nella scienza, nell’altruismo, nell’amore. Importa sostenerli, affinché le custodiscano.”  

Colui che porta all’uomo la speranza è il padre spirituale dell’uomo e “…ne condivide la sua matura e consapevole realizzazione, sostenendolo con la sua generosa presenza.” 

Certo vi sono mille motivi che possono portare alla sfiducia. Motivi legati alla fragilità umana: delinquenza, droga, violenza, guerra;  o alle prospettive confuse e contraddittorie delle moderne società; ma questi motivi vanno affrontati e superati lottando per un cambiamento positivo.

Anche la morte può portare alla speranza e alla fiducia,  se si riesce a vederla non come la fine ma come l'inizio di qualcosa di più bello e radioso tra le braccia di Dio. Per cui non si dovrebbe nasconderla ai bambini o ai giovani come un tabù vergognoso ed imbarazzante, come spesso avviene oggi.  Anch’essa fa parte dell’esperienza ed è la conclusione inevitabile d’ogni essere vivente. Ci fa riflettere sulla nostra realtà, sui nostri comportamenti, sul senso della vita. Dà senso e valore ad ogni esperienza, ad ogni momento  vissuto. Essa spinge ad utilizzare bene il tempo e gli strumenti che abbiamo a disposizione. Dà quindi responsabilità all'essere umano e valore ad ogni attimo della nostra giornata.

EDUCARE ALLA GIOIA

Educare alla gioia significa educare i figli a gustare le realtà più belle della vita nel modo più profondo e alto possibile, senza fermarsi al piacere ed al divertimento sterile, senza fermarsi ad un rapporto superficiale, grossolano, povero o semplicistico. Stare bene, e quindi con gioia, con se stessi, con gli altri con la natura che ci circonda, con Dio, significa in definitiva dar senso e scopo alla vita.  Vi è gioia nella lettura perché questa ci mette in contatto con i pensieri, i sogni, le idee degli scrittori; c’è gioia nel rapporto con i bambini, come nel dialogo con le persone più mature o con gli anziani.  C’è gioia nell’ammirare un’opera d’arte o nel cimentarsi a fare un’opera artistica o una ricerca scientifica, c’è gioia nel ricevere e altrettanta nel dare anche senza chiedere nulla in cambio.

Il problema della nostra società non è quello di dare troppa gioia ai minori ma quello di donare piaceri poveri, banali, vuoti di contenuti ideali, che non portano alla vera gioia, ma solo ad uno sterile “divertimento” che non riesce a nutrire lo spirito dell’uomo, anzi ne accentua il bisogno e la fame.

Infatti i piaceri banali lasciano come retrogusto una continua scontentezza, e  pertanto scatta la rincorsa ad altri e più intensi piaceri. Essi però, fatalmente continueranno a non soddisfare l’animo umano, che aspira a qualcosa di più e di meglio.

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

 
 

Autostima

 

EDUCARE AD AVER STIMA DI SE

Quando qualcuno valorizza ciò che siamo, ciò che dimostriamo, ciò che facciamo e creiamo, quando qualcuno valorizza il prodotto del nostro ingegno, delle nostre azioni, della nostra volontà, dei nostri sentimenti, del nostro corpo, in noi s’infonde un caldo senso di piacere, di gioia, di entusiasmo per la vita, di gratitudine per gli altri, d’amore nei nostri confronti. Ci sentiamo più amati e quindi anche più sicuri, grandi, forti, capaci. Ciò ci porta ad essere anche più decisi nell'affrontare le difficoltà della vita.

 Quando invece qualcuno, soprattutto un genitore, sminuisce sistematicamente o ingiustamente le nostre capacità, i nostri comportamenti, l'espressione dei nostri sentimenti, la sensazione che ci pervade è di delusione, di tristezza, di chiusura. Rattrappiti come una foglia o un fiore cui manchi l'acqua, come una pianta cui manchi la terra, ci pervade un senso di tristezza e di delusione profonda che rende difficile effettuare poi anche la azioni più semplici e facili. Soprattutto nei confronti di chi ingiustamente ci accusa o sminuisce e poi anche nei confronti degli altri, del mondo intero si manifesta in noi scontentezza, rabbia, risentimento, acredine.

E' quindi importante valorizzare e gratificare l'educando per ciò che è, per ciò che può dare, per ciò che può e riesce a fare; ciò lo renderà più sicuro, più fiducioso verso di noi, verso gli adulti in generale, verso la vita.  Lo renderà più forte e capace nell’affrontare il mondo e le difficoltà.

Ma attenzione agli eccessi. Quando la stima e la fiducia verso i nostri figli non sono meritate o sono ipervalutate, c'è il rischio di stimolare abnormemente il loro Io rendendolo ipertrofico. In questo modo gli renderemo poi difficile affrontare con grinta e realismo il mondo al di fuori dell’ambito familiare.

I genitori spesso, oggi, tendono proprio a questo. Tendono a sopravvalutare le capacità, le possibilità del proprio figlio, ma soprattutto tendono a giustificare e " comprendere " comportamenti assolutamente non giustificabili e comprensibili, mettendosi contro chiunque osi rimproverare, punire, giudicare negativamente il loro “bambino”.

Anche contro ogni realtà ed ogni obiettività difendono il "pargolo" con le unghie e con i denti, sia nei confronti degli altri coetanei sia, il che è peggio, rispetto ad altri educatori, specialmente verso gli insegnanti, quando questi "osano evidenziare" nel loro figlio difetti, incongruenze, immaturità o peggio, chiari segni di patologia nel comportamento. Li induce a ciò il bisogno di difendere con il figlio, i loro limiti, la loro incapacità, lo scarso impegno educativo e formativo, la loro immaturità, le scelte di vita, a volte molto dannose nei confronti della prole.

 Quest’atteggiamento comporta nel minore non solo delle tragiche illusioni: come il pensare di possedere qualità e capacità che non si hanno; ma, il che è peggio, può creare nel suo animo una scissione tra i genitori, gli unici che capiscono, aiutano, sostengono, proteggono e gli altri, il mondo, che non capisce, svaluta, aggredisce, ostacola.

 

Avviene così una scissione e un'alterata visione della realtà. Vi può essere, inoltre, il rischio che i figli o gli educandi in genere, se non stimolati e pungolati a progredire nello sviluppo, si adagino in una condizione infantile con conseguente appiattimento delle proprie capacità e possibilità.

Si rimane piccoli, illudendosi d’essere grandi, si rimane deboli nell'illusione d’essere forti, si rimane immaturi pensando di aver raggiunto la pienezza della crescita.

La gratificazione e la stima dell'educatore, dovrebbero essere legate alla realtà e dovrebbero accompagnarsi sempre ad un’attività di stimolo ad una maggiore crescita delle varie funzioni dell'Io. Bisogna quindi incitare, criticare in senso positivo, spiegare e cercare di aumentare le competenze del minore, chiedere ed avere delle aspettative,   stigmatizzando i comportamenti negativi ma non la persona, senza ingiuste generalizzazioni: “Sei sempre il solito, mi fai disperare”.

 

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

Educazione e mass media

 

 

I QUOTIDIANI
Nel giornale quotidiano troviamo, oltre alle notizie degli ultimi giorni, commenti sui problemi più attuali, informazione sui servizi pubblici del comune o dello stato, recensione di libri, film, teatri, spettacoli ecc..
E’ indubbia quindi l’utilità della lettura dei quotidiani, di cui molti di noi non potrebbero fare a meno. 
Pur tuttavia, negli ultimi anni, si sono evidenziate alcune caratteristiche che devono indurre alla riflessione sia gli addetti ai lavori, giornalisti e responsabili delle testate, sia gli educatori, sulle conseguenze che nel pubblico, anche adulto, ha questo strumento. 
Innanzi tutto, per la scelta delle notizie. I giornali sono nati per informare e non per provocare, scandalizzare, o turbare il pubblico mediante storie atroci, piccanti, estreme, che, fino a qualche decennio fa, erano appannaggio soltanto del giornalismo scandalistico più popolare e che ora si ritrovano nei giornali e nei quotidiani più importanti e prestigiosi. 
Quando il livello si abbassa, forse si venderà qualche copia in più ma si perderanno sicuramente i migliori e più fedeli lettori e soprattutto si rischierà di compiere un’azione diseducativa.
Insieme alle notizie è cambiato lo stile con il quale queste sono trattate. Gli avvenimenti più raccapriccianti vengono strillati mediante titoli cubitali, senza alcun ritegno per lo stomaco del lettore che si ritrova come circondato da un mondo di pedofili, assassini, stupratori, ladri, in cui la pietà, la comprensione, le mezze tinte non hanno posto. Se poi si ha il coraggio di leggere gli articoli in cui i giornalisti sembrano provare gusto a descrivere il fatto mediante i particolari più crudi, piccanti, violenti e volgari ci si ritrova desiderosi e pronti per la fuga in qualche eremo lontano da ogni contatto umano!  
 In realtà sta prevalendo anche nella carta stampata il gusto del sensazionalismo già da qualche tempo presente in TV, ed è per questo che la notizia viene ingigantita, enfatizzata, addobbata come un albero di Natale, purché colpisca il lettore, senza alcun rispetto per la sua sensibilità e visione della vita e del mondo.
La presenza ormai quasi continua di regali impedisce inoltre ai giornalisti ed al direttore responsabile della testata, un controllo sul gradimento del pubblico, poiché il numero di copie vendute nella giornata non è sempre direttamente proporzionale alla bontà del contenuto, ma può dipendere dal tipo di regalo fatto quel giorno ai lettori. Il rischio concreto è che essi comprino il “regalo” e non il giornale. Si viene così a spezzare un dialogo tra la redazione ed i suoi lettori che è stato in passato molto produttivo e orgoglio delle testate e dei giornalisti più prestigiosi.

 

I SETTIMANALI

I settimanali dovrebbero avere il compito di approfondire le notizie più importanti che, giorno dopo giorno hanno trovato posto nei quotidiani, mediante commenti e riflessioni; inoltre, hanno la possibilità di arricchire e chiarire i contenuti verbali mediante immagini, disegni, documenti, cartine ecc.. 
Nei settimanali attuali però, più che nei quotidiani, il fascino della carta patinata spinge le redazioni ad inserire quasi in ogni numero più di un articolo pruriginoso, condito da foto di donnine nude, ed ora, per par condicio, anche di uomini superfusti, poco vestiti.  Ma soprattutto è la pubblicità che impera, per cui le riviste diventano sempre più pesanti, non di idee ma di centinaia di pagine pubblicitarie con migliaia di prodotti da proporre ai lettori. Anche nei settimanali, da qualche anno a questa parte, il sensazionalismo la fa da padrone, per cui la notizia del momento viene pompata e inseguita fino alla noia. 

LA TELEVISIONE

ASPETTI POSITIVI

Molti dei mali della nostra società vengono attribuiti a questo mezzo d’informazione; eppure la televisione ha delle potenzialità che non possono essere misconosciute e che anche i suoi più grandi detrattori, le riconoscono come ad esempio la diffusione di una lingua comune. Per l’Italia, ma anche per altre nazioni, in cui imperavano i dialetti regionali, questo straordinario mezzo, entrando in tutte le case della penisola ha portato, con immagini e suoni accattivanti, una cultura e una lingua comune e quindi ha permesso a tutta la nazione una migliore possibilità di comunicazione e d'integrazione.

E’ innegabile inoltre che un grande patrimonio culturale, attraverso la televisione, sia riuscito ad entrare nelle case più povere e svantaggiate portando storie, idee, riflessioni, pensieri, fino ad allora sconosciuti. Ha permesso di vedere luoghi, di conoscere i costumi ed i personaggi di altri popoli e di altre genti, lontani dalla propria realtà regionale e nazionale. Ha potuto far avvicinare ogni sera, milioni di persone ai diversi problemi che attanagliano il mondo come l’ecologia, la politica, l’arte, la religione. Inoltre nei bambini, al di sopra dei tre - quattro anni, la ricchezza di stimoli dati da questo strumento aiuta lo sviluppo del linguaggio e la comprensione della realtà che li circonda.

Per gli anziani, per le persone malate o sole la televisione, se limitata nel tempo e se alternata da molte altre attività socializzanti e motorie, può essere apportatrice di compagnia e stimolo culturale. Anche per le normali famiglie la televisione può essere apportatrice di divertimento, gioia, dialogo riuscendo a far dimenticare le piccole frustrazioni della vita con i suoi giochi, con le sue storie accattivanti, con il sano umorismo dei suoi personaggi; come può essere, quando ben gestita, occasione di stimolo alla discussione, al dialogo, all’intesa familiare.

ASPETTI NEGATIVI

Accanto a questi innegabili aspetti positivi in questi ultimi anni, purtroppo, gli elementi negativi si sono fatti sempre più evidenti tanto da contribuire non poco al malessere personale, familiare e sociale.

Queste conseguenze sono legate non al mezzo in se stesso, ma alle caratteristiche che ha assunto in questa situazione contingente ed all’uso abnorme che di questo si è fatto in alcune nazioni come la nostra. Ciò per vari motivi:

•    la presenza di un gran numero di operatori televisivi in concorrenza tra loro;

•    la massiccia invadenza della pubblicità e degli interessi commerciali;

•    la mancanza di un ordinamento efficace che eviti abusi e prevaricazioni da parte dei soggetti economici e politici;

•    la scarsa responsabilità educativa sia nei confronti dei minori che degli adulti da parte dello stato e di chi gestisce le emittenti.

Tutti questi fattori hanno portato ad un aumento notevole nella quantità d’ore di trasmissione, ma anche un peggioramento complessivo nella qualità dei contenuti.

La presenza di un gran numero d’operatori, se ha permesso una migliore conoscenza delle realtà locali e maggiore possibilità di scelta per gli utenti, ha scatenato interessi commerciali notevoli che hanno trasformato il prodotto televisivo in un’immensa fiera telematica; e, come in tutte le fiere commerciali, l’obiettivo primario è diventato la vendita dei prodotti collegati ai programmi, mentre tutto il resto, ha assunto il ruolo di supporto, stimolo persuasivo e contorno, a questo totem centrale. Per cui l’arte, la cultura, l’intrattenimento, sono diventati gradualmente ma inesorabilmente solo dei contenitori e dei pretesti per veicolare prodotti commerciali.

Gli attori, i presentatori, i giornalisti ed i personaggi televisivi sono stati trasformati in strumenti docili per queste operazioni, mentre le finalità educative e formative si sono quasi completamente perdute.

Per quanto riguarda la quantità si è assistito ad un ampliamento notevole dell’offerta televisiva. Se si sommano le ore di trasmissione dei programmi governativi, con quelle dei privati, sia a livello nazionale che locale, e se a questi si aggiungono i programmi trasmessi via satellite e via cavo, la quantità di immagini che arrivano ogni momento nelle nostre case è impressionante; se questo non fosse sufficiente sono, poi, a disposizione anche i film offerti in vendita o in affitto nelle cassette o nei DVD.

Ciò crea negli educatori difficoltà spesso insuperabili sia nella scelta dei programmi ai quali i minori possono assistere, sia nel controllo di quelli utilizzati in modo autonomo mediante cassette o DVD.

Secondo alcune statistiche solo un terzo delle famiglie riesce in qualche modo a governare l’uso della televisione.

Dato il gran numero di programmi, l’adulto che volesse operare delle scelte oculate si troverebbe in gravi difficoltà giacché spesso i quotidiani, i settimanali, ma anche le riviste specializzate, non riescono a presentare correttamente tutti i programmi, ma soprattutto non riescono ad informare sulla qualità del contenuto degli stessi. In pratica, seduti in poltrona, ci si affida al telecomando e all’intuito personale.

Per quanto riguarda i bambini e gli altri soggetti in età evolutiva, la presenza nella stessa casa di più televisori, di cassette video registrate, di computer, non permette da parte dei genitori un controllo reale e attento di quello che è visto dai figli.

I genitori si trovano spesso in una situazione quasi non gestibile, per molti è come cercare di tappare la falla di una diga con un dito.

E' difficile, infatti, credere veramente che i genitori possano, in ogni momento della giornata, essere presenti accanto ai figli, per indirizzarli nelle scelte dei programmi e per discutere con loro dei contenuti, quando si sa per certo che questi, spesso, sono lontani dalla casa per lavoro e per altri mille impegni.

Una parte considerevole di genitori, pertanto, piuttosto che impegnarsi nel buon utilizzo di questo strumento tende a minimizzare il suo peso e l'invadenza e quindi delegano al minore la scelta dei programmi ed il tempo di visione. Altri, al contrario, lo vivono come uno strumento diabolico mediante il quale l’esterno, malato e depravato, entra e contamina con varie nefandezze la propria famiglia. Questo li spinge ad assumere un controllo molto rigido e severo dell'uso della televisione.

Per quanto riguarda la qualità, come abbiamo detto tende a scadere sempre di più a causa di vari fattori:

 

•    le numerose ore di trasmissione da riempire;

•    la mancanza di censura esterna e interna;

•    la ricerca dell’audience a qualunque costo;

•    soprattutto nelle piccole televisioni locali, la modesta qualità degli autori e dei conduttori;

•    lo scarso rispetto verso il pubblico, al quale è più conveniente ammannire e far ingoiare rapidamente un prodotto scadente, fatto in fretta e furia, ma ben pepato e salato, piuttosto che un prodotto delicato e di qualità che richiederebbe più costi e più attenzione nella sua preparazione.

Per quanto riguarda i bambini ed i soggetti in età evolutiva, la cui mente è per definizione in continuo cambiamento e quindi modellabile, si è assistito ad uno scarso impegno educativo da parte degli addetti ai programmi televisivi e della società in  genere, che ha portato a conseguenze non indifferenti. I minori subiscono ogni settimana l’impatto di numerose ore di trasmissioni spesso non adatte a loro, frequentemente dannose. Per Susanna Tamaro: “Scandalizzare i bambini vuol dire presentare loro un mondo senza alcuna luce, né gioia, né poesia. Vuol dire spegnere in loro la speranza, la capacità di immaginare un sentire diverso da quello che viene loro imposto. Vuol dire consegnarli a un mondo che ha già deciso cosa farne: dei compratori-imitatori, immmesi in un universo grigio e privo di qualsiasi orizzonte, nel quale l’unica legge che ha valore è il piacere e il diritto personale.” 

Le conseguenze evidenziate sono numerose.

Tendenza all’imitazione.

Vi è da parte dei minori una maggiore tendenza all’imitazione. E’ proprio del bambino imitare i grandi; quando però il minore è sottoposto ad immagini e situazioni scabrose, volgari, se non chiaramente pornografiche e aggressive, la tendenza a scimmiottare i grandi può avere delle conseguenze drammatiche, giacché, l’effetto suggestivo è prevalente su quello catartico, per tale motivo vi è una maggiore prevalenza delle “pulsioni istintuali rispetto alla ragione.”  

Troviamo pertanto soggetti in età evolutiva che utilizzano un linguaggio scurrile, che diventano violenti, assassini, rapinatori, adescatori. Per quanto riguarda poi l’adolescente, l’empatia con il film è totale in quanto i poteri critici sono molto deboli.

La presenza dei bollini che indicano se lo spettacolo è più o meno adatto a loro, è sicuramente un piccolo passo avanti nella possibilità di scelta. Purtroppo non tutte le televisioni utilizzano queste indicazioni, né queste sono presenti in tutti i programmi.

Aumento della tensione, dell'ansia e della irritabilità.

Nei bambini che vedono molta TV si nota un aumento della tensione, dell’ansia, della paura, dell’irritabilità. Ciò è causato sia dal contenuto, spesso troppo terrifico e ricco di tensione dei programmi, sia dall’inattività la quale stressa il bambino stimolandolo ad azioni incontrollate e violente. Inoltre, il piccolo schermo agisce negativamente sul loro sviluppo in quanto impedisce loro di smaltire la vivacità istintiva ed il bisogno di movimento, mentre nel frattempo li allontana dal contatto con la vita reale e  limita loro il dialogo ed il gioco con gli altri coetanei e con i genitori.

Difficoltà nell’apprendimento del linguaggio.

Questa è una conseguenza che si verifica specialmente quando i bambini piccoli, sotto i tre anni, sono posti spesso davanti al video. Prima di quest’età, il bambino ha bisogno di fare molti esercizi fonatori con i suoni e le parole, mentre la televisione lo zittisce ed impedisce il rapporto con i familiari che a quest’età dovrebbero essere molto impegnati a stimolare e costruire il suo linguaggio.

Acquisizione d’abitudini alimentari scorrette.

L’acquisizione d’abitudini alimentari scorrette è tipica nei soggetti che assistono ai programmi televisivi. L'inattività stimola l'assunzione di alimenti e di bevande di cui il corpo non sentirebbe assolutamente il bisogno se fosse impegnato in attività costruttive e attive. Sia i bambini sia gli adulti spesso si rimpinzano di alimenti poco adatti a loro, ma che non distraggono dalla visione dei programmi. Come conseguenze di ciò si ha un aumento notevole dell’obesità dovuta anche alla mancanza di movimento.

Alterazione nella prospettiva degli avvenimenti.

Nei programmi ai quali si assiste c’è sempre, dopo l’angoscia e la tensione, il lieto fine o l’intervento di un evento magico che risolve ogni problema. Si possono, allora, fare delle cose inverosimili come correre a perdifiato, volare, scontrarsi, resuscitare, saltare da una casa all’altra, ricevere pugni, mazzate o anche ferite senza alcun problema. Ciò può portare i bambini più piccoli o gli adolescenti con problemi, ad affrontare delle situazioni rischiose senza prevederne le conseguenze, ma soprattutto il vivere per troppo tempo in una magica realtà virtuale non riesce più a far gustare l’incanto presente nella realtà d’ogni giorno.

E' difficile riuscire a percepire con realismo le conseguenze degli atti e dei comportamenti. Dopo aver assistito a migliaia di scontri, d’uccisioni, di violenze, i minori hanno difficoltà a vedere in queste situazioni le reali luttuose, tragiche conseguenze. Negli scontri con le auto, nelle ferite e anche nella morte, non riescono più a percepire le sequele di sofferenza, né riescono a comprendere il dolore e l’angoscia che questi eventi portano. Avvertono soltanto il piacere di un gioco elettrizzante. Ciò può condurre a quella che è stata chiamata “anestesia” o “indifferenza al dolore”; come conseguenza di ciò, la violenza, la paura e la morte diventano nei giovanissimi, piacere e stimolo all’avventura.

Influenza negativa sull’apprendimento scolastico.

Come già abbiamo detto la TV può essere, quando è bene utilizzata uno strumento ideale per migliorare la cultura e l’apprendimento. Ma, se utilizzata in maniera impropria ed eccessiva, può provocare varie conseguenze sul piano dell’apprendimento.

I giovani, abituati ad una TV che semplifica eccessivamente, che propone i suoi contenuti con schemi sequenziali rigidi, ritmi eccessivamente rapidi e ricchi di tensione emotiva, si allontanano da una scuola e da una cultura che non può, né deve utilizzare questi accorgimenti per attrarre. Non comprendono più una cultura che aiuta la riflessione pacata e l’approfondimento sereno dei concetti. Per tale motivo essi si avvicinano alla scuola con superficialità, noia e disinteresse.

L’eccesso di immagini, di parole e situazioni all’adrenalina, impedisce inoltre la riflessione, la rielaborazione e l’integrazione dei contenuti, in quanto altre immagini e situazioni incalzano, e queste si depositano nella mente del bambino e del ragazzo creando confusione, spezzettando e confondendo anche i contenuti già appresi. Anche per tale motivo la televisione tende a generare una cultura di massa. Si ha pertanto una riduzione delle capacità nel memorizzare, concettualizzare, giudicare criticamente e concentrarsi a lungo, mentre nello stesso tempo vi è un’atrofizzazione della fantasia e dell’individualità di pensiero. I ragazzi tendono ad uniformarsi omologandosi nelle parole, nei gesti, nei desideri e negli ideali.

LA RETE INTERNET 


Questa rete telematica che permette di collegarsi con tutti gli utilizzatori (persone, società, università, associazioni, organizzazioni internazionali e nazionali ecc.) che si trovano sparsi in tutto il mondo, è un passo avanti considerevole nel campo dell’informazione in quanto permette di portare nella propria scrivania o nella propria casa, in pochi minuti: dati, informazioni, esperienze, pensieri, immagini, musiche proposti e messi a disposizione da milioni d’utilizzatori al costo di una telefonata urbana. Permette inoltre di instaurare con associazioni, enti, istituzioni e privati, un dialogo ed un confronto su temi diversissimi.

Le conseguenze di un uso improprio di questo mezzo sono però numerose:

La dipendenza.

Poiché la rete permette di navigare in milioni di siti diversi in cui sono presenti tutti gli argomenti dello scibile e dell’interesse umano, le possibilità offerte ad ogni navigatore sono praticamente infinite. Per cui c’è il rischio reale di perdersi tra i meandri di questo mare elettronico utilizzando tempo, denaro, energie che potrebbero e dovrebbero essere impiegate più proficuamente per altri scopi. I soggetti che ammettono una dipendenza da internet sono numerosi e come in tutte le dipendenze le conseguenze sono: l’isolamento sociale, le discordie coniugali, la perdita di vere e sane amicizie, le spese eccessive, i debiti, lo scarso rendimento nel lavoro e nelle altre attività familiari e sociali.

L’allontanamento dal reale.

Questa è una conseguenza comune a tutti i mass - media. Il rischio è quello che le immagini, i suoni, le parole, il dialogo virtuale prendano il sopravvento su quelli reali in quanto più accattivanti, più patinati, con più possibilità di scelte, con scarsa fatica. Su internet la situazione è ancora peggiore in quanto le persone contattate mediante i messaggi sono reali, quindi è possibile un dialogo ed un confronto, ma lo schermo permette di nascondere non solo la vera identità ma soprattutto le vere intenzioni. Si instaurano allora rapporti d’amicizia, d’amore o di affari, senza riuscire a valutare né i rischi, né le prospettive future.

Il contatto con realtà rischiose.

In quest’enorme fiera telematica, gli imbonitori, gli imbroglioni, i venditori di fumo, di sesso, i pervertiti, i disturbati psichici trovano spazio e possibilità infinite d’azione.  E’ un rischio per tutte le persone, ma lo è soprattutto per i soggetti in età evolutiva che spesso sono adescati con gli scopi più vari, anche molto turpi, da siti messi a disposizione da personaggi senza scrupoli. Nel 2002 sono state segnalate all’autorità giudiziaria 581 persone per reati perpetrati in danno di minori attraverso la rete internet, contro le 290 del 2000 (+100,3%).    La cosa più grave è che questa realtà ad alto rischio entra in ogni casa, in ogni scrivania…Basta un clic affinché il contatto avvenga.

A causa della totale liberalizzazione, la delusione per questa immensa rete telematica, dopo gli entusiasmi iniziali, è cocente. Per molti specialisti dell’informazione più che una grande occasione di crescita per l’umanità internet sta diventando una grande cloaca in cui vengono a riversarsi i peggiori rifiuti dell’umanità.

I VIDEOGIOCHI

 Vari strumenti permettono di giocare in una realtà virtuale, utilizzando sistemi computerizzati. Le sale apposite offrono, dietro pagamento, un grande realismo nelle immagini, nelle azioni, un’ottima grafica e suoni avvolgenti con lo scopo d’attirare soprattutto i giovani adolescenti in cerca d’emozioni e avventure virtuali. Le consolle casalinghe, ed i normali computer, permettono l’utilizzazione gratuita di giochi di buona, anche se non ottima, qualità. Vi sono infine i tascabili, piccoli, poco ingombranti, ma con modeste possibilità sia nel video sia nel sonoro.

I giochi proposti sono numerosissimi per quantità e qualità e vanno da quelli di simulazione, in cui sono presenti aerei, navi, sottomarini, macchine da corsa e moto, ai giochi di carte, a quelli di lotta o di guerra contro mostri alieni o streghe o fantasiosi nemici, ai giochi di cultura e d’intelligenza.

Anche in questo caso, come per la televisione, non possiamo disconoscere le potenzialità offerte ai giovani e anche agli adulti del duemila di uno strumento malleabile e adattabile a migliaia di usi come il computer. Anche i videogiochi possono stimolare, in maniera interattiva e coinvolgente, molte potenzialità umane come la percezione, i riflessi, l’intelligenza, la coordinazione occhio – mano, la memoria; come possono dare un grande contributo allo sviluppo linguistico e culturale, compresa la conoscenza di altre lingue.

I problemi nascono dalla mancanza di regole e norme efficaci per la protezione dei fruitori e da un’utilizzazione eccessiva ed impropria di questi strumenti.

Per quanto riguarda l’eccessiva utilizzazione da parte sia dei giovani, che degli adulti questa nasce dal fatto che è insito, in questo tipo di giochi, lo stimolo a ripeterlo per ottenere un punteggio maggiore, per passare ad un livello superiore, per vincere l’avversario, per ottenere il premio promesso; inoltre, l’identificazione con i personaggi, porta a non trascurarli o lasciarli, ma a continuare ad essere vicini a questi, come fossero degli amici con cui condividere la propria esperienza e la propria vita.

L’eccesso d’utilizzazione comporta alla lunga uno stress e una fatica mentale non indifferente, una perdita di tempo, una tendenza a trascurare i doveri e le occupazioni quotidiane, un distacco dalla vita reale. I sintomi da un eccessivo uso sono evidenti: malessere, vomito, ansia, apatia, problematiche nella relazione con gli altri, difficoltà nella comprensione dei testi scritti. Alcuni genitori hanno la sensazione che il figlio viva come drogato dal gioco, senza riuscire a liberarsene e, soprattutto, senza riuscire a partecipare ad altre attività libere e costruttive.

Per quanto riguarda la qualità, molti videogiochi sono positivi giacché permettono un maggior sviluppo della percezione, una migliore coordinazione visuo-motoria ed in alcuni, programmati per attività didattiche, anche un arricchimento culturale. Nettamente negativi appaiono quelli in cui la lotta con dei personaggi immaginari porta alla morte di questi o alla propria fine.

Questo continuo uccidere per non essere ucciso, distruggere prima di essere distrutti, porta inevitabilmente ad un atteggiamento aggressivo nei confronti degli altri, della vita, del mondo.

 Non c’è pietà, tenerezza, comprensione, giustizia, ma soprattutto non ci sono sfumature, i nemici sono nemici e basta; non hanno cuore e mente come noi, non hanno valore, o altra funzione se non quella di distruggere o essere distrutti. Tutta la complessa realtà della vita si riduce a questa rudimentale e deteriore filosofia.

A questo bisogna aggiungere anche i rischi d’epilessia, legati al tipo e alla frequenza di flash luminosi, che possono scatenare delle crisi nei soggetti predisposti.

Un uso corretto di questo strumento vorrebbe che si scegliessero solo i giochi che permettano una costruzione armonica della personalità dell’individuo. Evitando quelli ripetitivi e quelli in cui è presente la legge della giungla: uccidi o sarai ucciso, di cui parlavamo sopra.

Purtroppo ciò avviene molto di rado a causa degli impegni e dei problemi delle famiglie d’oggi, ma anche per l'eccessiva facilità da parte dei ragazzi di scambiarsi i giochi all'insaputa dei genitori. Teniamo presente che il tempo trascorso in quest’attività, non dovrebbe superare la mezzora nella giornata per i ragazzi più grandetti e dovrebbe far parte di quel tempo massimo di cui diremo a proposito della TV.

USO CORRETTO DEI MEDIA

Poiché l’informazione è utile, necessaria, e fondamentale per l’individuo come per la società, è necessario avere un rapporto positivo con essa. D’altra parte è necessario un approccio che non sia passivo ma attivo, non acritico ma critico.

Da parte della società è necessario accettare il fatto che l’ambiente psichico è una realtà come lo è quello fisico. Pertanto se si vuole avere un minimo di rispetto per il futuro dell’umanità, è indispensabile imporre regole e limitazioni che non solo non mortificano la libertà individuale di parola o d’espressione artistica ma la esaltano, la indirizzano, le danno consistenza e valore.

E' follia una libertà nelle comunicazioni di massa che vada a scapito del benessere psicologico, affettivo, relazionale, sociale di milioni di persone. L’ecologia dello spirito e della mente dovrebbe avere almeno altrettanto attenzione di quella riservata al corpo!

E’ necessario che in campo psicologico si faccia semplicemente ciò che viene, in realtà, fatto in campo alimentare.

Nessuno si sognerebbe di far vendere nei negozi d’alimentari cibi guasti o inquinati e quindi dannosi alla salute; come nessuno si sognerebbe di portare dentro le case, anzi dentro ogni stanza una marea d’alimenti: alcuni ottimi e digeribili per tutti, altri di difficile digestione e quindi non adatti ai bambini e altri ancora, chiaramente dannosi sia agli adulti sia ai minori e poi chiedere che siano gli abitanti della casa, in piena libertà, a regolarsi su quanto mangiare e cosa mangiare.

Nessuno si sognerebbe di affidare agli stessi abitanti la capacità di saper riconoscere i vari tipi di cibi, scartare quelli avvelenati, guasti, inquinati e poi avere l’autocontrollo necessario per prendere ciò che serve per la propria età e per la propria condizione.

Eppure questo è ciò che ogni giorno, ogni momento è richiesto ad ognuno di noi, dentro ogni casa, dentro ogni famiglia. E' permessa l'entrata di centinaia di programmi e migliaia di messaggi pubblicitari: alcuni ottimi, ricchi di contenuti e di valori e quindi adatti a tutti, altri utilizzabili proficuamente solo dagli adulti ma non dai minori, altri mediocri, scialbi, inutili, altri infine chiaramente dannosi per tutti.  Nel frattempo si chiede agli abitanti di quelle case che sappiano capire, da qualche sequenza, se il contenuto è positivo e a loro adatto oppure “no.” Si chiede che abbiano poi la capacità di discriminare e la volontà di utilizzare solo i programmi a loro più utili e adatti. Lo stesso, naturalmente, si chiede di fare, per ogni messaggio pubblicitario che compare improvvisamente, interrompendo il programma che è visionato e per ogni sito internet con il quale si entra in contatto, anche senza volerlo.

 Tutto ciò naturalmente non è possibile per gli adulti e soprattutto non lo è per i soggetti in età evolutiva.  Per tale motivo la società avrebbe il dovere di imporre diverse precauzioni.

1.    Ogni programma dovrebbe avere la sua etichetta; come nelle scatole di alimenti è obbligatorio descrivere il contenuto, in modo tale che i consumatori sappiano le caratteristiche degli alimenti che stanno utilizzando, anche per il cibo della mente, sarebbe indispensabile una descrizione accurata di quello che si offre in visione e soprattutto per quali spettatori è utile, per quali è inutile, per quali è dannoso.

2.    Scorporare la pubblicità dai programmi, in modo tale da non violentare e spezzettare l’opera dell’ingegno e contemporaneamente non obbligare alcuno alla visione o all’ascolto di qualcosa che non conosce, non chiede, non è prevista nell’etichettatura.

3.    Tutti i programmi dedicati agli adulti dovrebbero essere utilizzabili solo mediante una password e non essere accessibili dal telecomando.

4.    Tutti i programmi dannosi anche agli adulti non dovrebbero essere inseriti in alcun palinsesto che entri nelle case delle famiglie.

5.    Tutti i televisori dovrebbero contenere meccanismi di programmazione, capaci di accendere e spegnere l’apparecchio ad un’ora prestabilita e solo per i programmi prestabiliti.

6.    Per quanto riguarda la rete internet una sua regolamentazione appare indispensabile. Dovrebbero essere accessibili nei computer venduti ai privati, solo i siti il cui contenuto non possa offendere o essere di rischio sia per gli adulti sia per i minori. Tutti gli altri dovrebbero essere accessibili in seguito a richiesta scritta, solo nei computer per ufficio.

A loro volta i genitori e gli educatori dovrebbero tenere vari accorgimenti.

1.    Acquistare ad inizio settimana una rivista che riporti i programmi televisivi più importanti con il giudizio morale e critico in modo tale da essere noi adulti, noi genitori ed educatori a selezionare gli spettacoli e le trasmissioni utili, da quelle inutili o dannose, così da poterci confrontare e discutere su un piano di responsabilità e di chiarezza con i figli, aiutandoli nelle scelte. Per tale motivo il telecomando non dovrebbe essere in mano ai bambini, ma ai loro genitori.

2.    Fare in modo che il tempo che il minore trascorra davanti ad uno schermo televisivo o alla consolle di un videogioco, sia limitato a pochi minuti, per il bambino al di sotto dei tre anni, a tre quarti d’ora nel bambino inferiore ai sei, mentre non dovrebbe superare l’ora giornaliera nel ragazzo inferiore ai dodici - tredici anni e non più di due ore nell’adolescente e negli adulti. Un eccessivo uso di questo mezzo non aggiunge nulla alla cultura e alle conoscenze poiché viene a mancare il tempo necessario affinché le immagini e le idee sottese ad esse siano normalmente assorbite, organizzate, criticate, in definitiva "metabolizzate .” L’eccessivo uso della TV e dei videogiochi, toglie inoltre molte possibilità d’arricchimento personale: come il giocare, l’inventare, lo scoprire, il dialogare con gli altri coetanei e con i genitori, il piacere della lettura, lo sport e la nascita di nuovi interessi, oltre alla discussione e alla critica di quanto visto. Per tale motivo il televisore dovrebbe essere unico per tutta la famiglia ed inserito in un luogo: cucina o soggiorno, in cui la famiglia vive e si riunisce e quindi mai nella stanza dei figli.

3.    Aiutare il bambino a scegliere dei programmi piacevoli ma anche costruttivi della sua personalità e cultura. Teniamo presente che ciò che piace non sempre equivale a ciò che è utile. Sarebbe importante selezionare, insieme con loro, le trasmissioni con contenuti culturali e ideologici, più vicini alla nostra sensibilità, ai nostri valori e alle nostre idee guida nel campo educativo e, se possibile, bisognerebbe vedere insieme questi programmi, in modo tale da commentarli “ a caldo”.

4.    Approfittare dei momenti della colazione, del pranzo e della cena in cui il televisore è tenuto sistematicamente spento per discutere apertamente e serenamente di quanto visto, o di quanto ci si propone di vedere, in modo tale da abituare i bambini al confronto, alla critica, alla selezione e alla scelta.

5.    Abituarli, infine, a leggere tra le righe e dietro le righe di quanto letto o ascoltato, aiutandoli a sviluppare uno spirito critico che permetta loro di vagliare quanto visto, letto o ascoltato.

6.    Sviluppare con fantasia, con tenacia il gusto e l’interesse per la lettura, per i racconti dei genitori e dei nonni, favorendo inoltre il contatto con la natura, con gli animali e le attività all’aria aperta, creando occasioni di gioco e di socializzazione.

7.    Cercare di limitare al minimo la pubblicità anche attraverso l’uso del videoregistratore, discutendo con i figli sulla funzione di questa, sul valore degli oggetti e su come impostare le nostre scelte.

8.    Il televisore dovrebbe essere tenuto spento in varie occasioni: quando la famiglia è riunita per i pasti o per altre occasioni sociali, feste, compleanni ecc., quando vi sono degli ospiti, quando si svolgono i compiti o si legge un libro o si discute insieme, quando vi è la possibilità di giocare in compagnia, quando non è trasmesso niente di veramente interessante. Teniamo presente che le occasioni di gioco con altri coetanei sono diventate rare quindi è un delitto sprecarle per stare davanti ad un televisore.

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

Gli zii

 

 Il ruolo degli zii nell'educazione del minore


 

Ancora più sconosciuta di quella dei nonni è la realtà educativa di queste figure. Cos’è uno zio?  E’ un familiare che spesso ha un patrimonio genetico comune con uno dei genitori ed un’età molto vicina alla loro. Raramente vive da single, a volte continua a vivere nella stessa casa dei nonni, il più spesso ha una sua famiglia.

La vicinanza affettiva e l’apporto educativo dato da questi è, quindi, estremamente variabile. Vi sono degli zii, specie se non sposati o single, che partecipano e sono coinvolti quasi giornalmente nella vita relazionale ed affettiva dei nipoti. Altri sono lontani non solo fisicamente, in quanto vivono in altre città, ma anche affettivamente. Per questi zii i rapporti con i nipoti sono episodici e scarsamente rilevanti. In definitiva vi sono molti tipi di zii. Alcuni coinvolti e che si coinvolgono enormemente, altri lontani e poco presenti nella vita dei nipoti.

 

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 Spesso questo rapporto è frutto di una scelta reciproca. Non con tutti i nipoti lo zio si sente coinvolto nell’attività educativa e nella relazione affettiva, né tutti gli zii, il bambino ed il giovane, considerano allo stesso modo, quindi lo zio spesso ha la possibilità di scegliere e di essere scelto; cosa impossibile per i genitori e, in parte, anche per i nonni.

Le potenzialità di queste figure, se ben utilizzate, sono notevoli. Essi, non avendo la responsabilità specifica dei genitori, possono giocare un ruolo fondamentale nella mediazione tra questi e i figli, quando riescono a coniugare le esigenze dei minori con le necessità delle norme genitoriali. Sono favoriti inoltre nel mediare il rapporto tra i più giovani della famiglia ed i più anziani, favorendo quella rete parentale fatta d’attenzioni, aiuto e sostegno reciproco. Infine possono aiutare l’inserimento dei nipoti sia nel gruppo dei pari sia nella società. Meno coinvolti emotivamente riescono ad essere più obiettivi dei genitori.

Poiché possono permettersi di essere meno severi di questi e quindi più teneri e permissivi, sono spesso anche più ascoltati, ubbiditi e benvoluti dai nipoti, per i quali possono diventare facilmente maestri di vita ed elementi di identificazione.  La possibilità di una maggiore confidenza unita ad una scarsa conflittualità ha sicuramente influito nella scelta dei personaggi di Walt Disney, nel cui mondo, non a caso, predominano.

 

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

Le caratteristiche di un buon genitore

 

 

“Il presupposto che chiunque sia in grado di procreare sia ipso facto in grado di educare i figli, è uno dei principali errori della nostra cultura” - Slavson[1]

 

Quali siano le caratteristiche di un buon genitore è difficile da definire.

 

Sicuramente un buon genitore non può essere una persona che ha  caratteristiche o qualità eccezionali. L’uomo si è evoluto nei millenni, le società si sono sviluppate, partendo e utilizzando gli elementi di normalità e non di eccezionalità dell’essere umano, sia per quanto riguarda l’intelligenza e la cultura, che per le capacità educative. Non vi è stata mai una vera scuola per genitori, così come noi comunemente l’intendiamo, né un’esplicita selezione in base alle loro qualità e capacità. L’unica e più efficace scuola per genitori era fatta all’interno delle famiglie utilizzando la memoria e l’esperienza del passato ed il sacrificio e l’esempio di ogni componente adulto della famiglia: genitori, nonni, zii, fratelli maggiori.

 

 Per quanto riguarda la selezione dei futuri genitori, questa avveniva sistematicamente sia su base istintiva, mediante il rifiuto dell’handicap e di tutte quelle condizioni in cui era presente un disturbo psichico o comportamentale di un certo rilievo, sia su base familiare, quando i genitori stimolavano i figli ad evitare l’unione con “persone poco raccomandabili” e quindi con comportamenti sociopatici o psicopatici.

 

D’altra parte anche questa “normalità” è difficile da definire. Per “normale” si potrebbe intendere la media delle caratteristiche presenti in un dato momento storico in una popolazione. Sappiamo però che questo dato non ci dà alcuna sicurezza sulle qualità indispensabili per ottenere dei risultati sufficientemente accettabili. La normalità così intesa è valida in alcune popolazioni e in particolari periodi storici, mentre in altri ambienti, in culture ed epoche diverse, non lo è per nulla. La prova di ciò si ha a posteriori, osservando l’espansione di alcune civiltà, cosiddette barbare o il declino e/o la scomparsa d’altre popolazioni considerate al culmine del loro sviluppo culturale, sociale e civile.

 

E' difficile, inoltre, determinare le caratteristiche di un buon genitore dalla misura delle sue qualità e capacità, anche perché l’equilibrio, il dialogo, l’affettuosità, la bontà, la disponibilità, l’autorevolezza, di cui parleremo, non sono qualità facilmente misurabili. Così come sono difficilmente quantificabili gli atteggiamenti negativi, come l’irritabilità, l’ansia, l’aggressività, la severità eccessiva, la freddezza, l’irritabilità, il permissivismo. Tanto che, anche dal punto di vista legale, è difficile definire l’indegnità di un genitore, se non quando sono presenti elementi d’estremo degrado.

 

D’altra parte non possiamo neanche basarci sugli esiti dell’educazione, giacché, non è per niente scontato che, da buoni genitori, nascano dei bravi figli, poiché le influenze dell’ambiente esterno, gli incontri, le scelte individuali, sono anch’essi determinanti.

 

Né si possono pronunciare discorsi di normalità facendo dei paragoni che si riferiscono al passato, ad una certa cultura o ad una particolare società, giacché necessariamente si deve fare riferimento nel bene e nel male alla realtà presente e non a quella del passato.

 

Tuttavia è necessario avere chiare le caratteristiche che dovrebbe avere un buon genitore e quelle che non dovrebbe avere. Affinché le une siano prese come obiettivo da raggiungere, mentre le altre siano, per quanto possibile, allontanate dal nostro stile di vita, senza con ciò pretendere una perfezione, ma senza neanche accettare con indifferenza atteggiamenti e comportamenti improponibili per un buon educatore.

 

 

 

EQUILIBRIO

 

Un buon genitore sa rispondere con equilibrio alle esigenze dei figli

 

 

Come vedremo di volta in volta, è la capacità di soddisfare in maniera equilibrata le varie esigenze dei figli che qualifica, in primo luogo, un buon genitore. “In medio stat virtus.” In nessun altro settore quest’affermazione latina è stata mai così vera come nel campo educativo. Il bambino procede nella sua crescita mediante stimoli diversi, a volte contrastanti, pertanto ha bisogno di genitori che sappiano continuamente adattare e modellare questi stimoli alle sue varie necessità ed esigenze con duttilità, intelligenza, tempismo. Le esigenze di un bambino neonato non sono assolutamente paragonabili a quelle di un bambino di un anno o più. Così come i bisogni di un figlio non sono uguali a quelli di un altro, specie se di sesso diverso.

 

 Il danno maggiore che l’informazione di massa ha dato alla nostra società è proprio quello di aver creato e imposto dei cliché educativi, di volta in volta alla moda; essi sono stati presi acriticamente a modello da milioni di genitori i quali inopinatamente hanno, quindi, trascurato le conoscenze culturali selezionate nei millenni e trasmesse da padre in figlio, di generazione in generazione, che erano e restano le più valide.

 

Le esigenze tra le quali i genitori sono costretti a muoversi ed a cercare un equilibrio sono numerose:

 

  • vi è l’esigenza individuale che a volte, anzi spesso, può contrastare con quella familiare, genitoriale, sociale;
  • vi è l’esigenza attuale che in alcuni casi costruisce, ma in altri può mettere in forse i bisogni e le necessità future;
  • vi è il bisogno di libertà e quello della responsabilità e dell’ubbidienza;
  • vi è il bisogno del piacere ma anche quello del dovere;
  • vi è il bisogno della scoperta  ma anche quello della prudenza;
  • vi è il bisogno istintuale e quello razionale;
  • vi è il bisogno indotto e quello spontaneo;
  • Vi è il bisogno fisico ma anche quello spirituale.

 

 

 

DISPONIBILITA’

 

 

 

Un buon genitore ha una grande disponibilità nei confronti dei figli

 

 

La presenza fisica dei genitori è, come abbiamo detto, fondamentale per lo sviluppo del minore. Tale presenza non può spesso essere sostituita altrettanto validamente da altre figure, se non è seguito attentamente lo sviluppo psicopedagogico del minore.

 

La presenza fisica deve però accompagnarsi ad una presenza psicologica e ad una disponibilità emotiva ed affettiva. Dice giustamente Vanire: “Il bambino è l’essere più fragile. Non c’è nulla di più fragile di un bambino. Di tutti i piccoli degli animali è tra i più fragili e questa fragilità dura molto a lungo. Ai piccoli dell’uomo occorre molto tempo per arrivare alla maturità. Gli occorre tempo per camminare; gli occorre tempo per acquisire conoscenze; gli occorre tempo per arrivare alla maturità fisica; gli occorre ancora più tempo per raggiungere la sua vera maturità intellettuale, psicologica, così da essere capace di affrontare il nostro mondo, capace di sopportare tensioni e difficoltà, ….”[2]

 

 In questi lunghi anni il bambino ha bisogno di una gran disponibilità da parte di entrambi i genitori. Disponibilità al dialogo, all’ascolto; disponibilità alla cura, all’educazione, alla trasmissione delle conoscenze culturali proprie e familiari. Disponibilità ad intervenire nel modo e nei tempi più opportuni per consigliare, aiutare, correggere, sostenere, incoraggiare, reprimere, se necessario.

 

A volte basta poco per rendere felice un figlio, basta stare insieme, parlare, fare qualcosa condividendola. La condivisione e la comprensione dei sentimenti, delle emozioni, delle attività, delle esperienze diventa una delle forme più efficaci d’educazione. Il giocare insieme, il lavorare insieme permette la trasmissione d’emozioni, esperienze, conoscenze che diventano elementi e ricordi preziosi nell’animo del fanciullo.

 

Un errore comune riguarda un’eccessiva e patologica disponibilità, soprattutto da parte dei genitori ansiosi, emotivi, i quali si mettono al servizio delle richieste dei figli e non dei loro bisogni. La differenza è fondamentale.

 

Non tutto ciò di cui un figlio necessita, viene da lui richiesto esplicitamente, come non tutto ciò che chiede, a volte insistentemente, o mediante il pianto, serve al suo armonico sviluppo.

 

Spesso, infatti, i bisogni fondamentali: un ambiente sereno, un maggior dialogo, un atteggiamento più lineare e fermo, una maggiore coerenza educativa, sono camuffati o evidenziati sotto forma d’innumerevoli richieste che i genitori si affannano ad esaudire immediatamente senza preoccuparsi di capire qual è il bisogno vero.

 

Un altro errore in eccesso riguarda quei genitori che “si perdono” nei figli, trascurando i loro bisogni personali e, come coppia, la loro crescita affettiva e relazionale. 

 

Più frequenti però sono oggi gli errori in difetto. La ricerca affannosa di una realizzazione individuale, sia in campo lavorativo e sociale che affettivo, sentimentale o sessuale, spesso porta a trascurare le reali necessità dei figli. Si cerca di soddisfare innanzi tutto i propri bisogni e le proprie ambizioni, dando poco o nulla alla famiglia. E’ una corsa che mira ad arraffare dalla vita e dalla società quanto più possibile, lasciando alle esigenze dei minori briciole di tempo e d’energie; spesso dando loro solo ciò che è di moda o ciò che l’ambiente sociale richiede in quel momento: palestra, ballo, piscina, pizzeria; senza tentare neanche di lasciarsi veramente andare con loro ad un rapporto intimo e privilegiato per poter dare ai figli ciò che veramente serve.

 

 

 

PRESENZA

 

Un buon genitore è presente e segue in modo attivo lo sviluppo fisiologico dei figli.

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 Questo significa che è necessario che i genitori siano presenti, non necessariamente sempre e in maniera continua, ma seguendo i bisogni della fisiologia dei minori. Bisogni che sono insiti nella specie e non variano, né sono modificabili se non in tempi lunghissimi al variare dell’ambiente o della società.

 

La necessità di dialogo, d’affetto, di comunicazione, di rapporto con un figura genitoriale, di un bambino del duemila, non è sostanzialmente diversa da quella di un coetaneo dell’età della pietra. D’altra parte la possibilità che nascano paure, ansie, insicurezze se questi bisogni fondamentali non sono soddisfatti pienamente, sono sostanzialmente uguali. Ciò impone, a chi si occupa di loro, di seguire la fisiologia dello sviluppo umano, senza mai forzarla o ignorarla, pena un vissuto di disagio che può dare, a secondo della sua gravità e durata, delle conseguenze più o meno importanti e invalidanti ma sempre spiacevoli alla sua vita futura.

 

Quando un bambino piccolo è costretto a cambiare per qualche tempo persona di riferimento, questa situazione è vissuta come una dolorosa forzatura poiché le persone con cui non vi è un profondo e duraturo legame affettivo sono da lui avvertite come pericolosi estranei, sia che si tratti d’adulti come le baby-sitter o le insegnanti dell’asilo nido, sia che si tratti di bambini con cui non è stato stabilito un legame affettivo.

 

La prima immediata risposta a questo disagio è rappresentata dal pianto. Quando, prima dei tre anni, la mamma si allontana dal bambino, o il bambino è allontanato dalla mamma, le reazioni di quest’ultimo sono evidenti ed eclatanti: piange, si dispera, la cerca e poi, al suo ritorno, si attacca maggiormente a lei, rifiuta il distacco e rimane per molto tempo più sensibile a nuovi allontanamenti. Qual è il significato di tutto ciò?

 

Il legame del bambino con le figure fondamentali della sua realtà interiore: i genitori, con la figura materna in primo piano, nasce da un elemento istintivo primordiale simile a quello di molti altri animali che, inizialmente, vedono i genitori e solo i genitori, come fonte di sicurezza, fiducia, amore, protezione, mentre nel contempo gli estranei sono avvertiti come causa di pericolo, rischio, abbandono. Anche l’ambiente fisico è importante. E’ fonte di sicurezza l’ambiente domestico, mentre un luogo estraneo, o diverso, istintivamente è avvertito come minaccia, rischio vitale; quindi infonde paura ed insicurezza. Nei primi tre anni di vita, questi legami sono per ogni bambino elementi fondamentali ai quali non può e non deve rinunciare; sono come il latte di cui si nutre, come l’aria che respira, come  il cordone ombelicale prima della sua nascita.

 

Da queste realtà affettive il bambino si allontana gradualmente negli anni; ma quest’allontanamento è in relazione alla sua maturità e serenità ed è anche in relazione alla fiducia nei genitori e nell’ambiente circostante. Conseguentemente più il bambino ha vissuto serenamente e pienamente il suo rapporto con i genitori, la famiglia, l’ambiente domestico, tanto più facilmente riuscirà poi a farne a meno. Quanto più, invece, il bambino è piccolo, immaturo, insicuro o con problemi affettivi e relazionali, tanto più questo legame persisterà negli anni.

 

E’ la crescita affettiva e la sicurezza interiore del bambino che facilita e rende possibile l’autonomia e non viceversa!

 

Lo scopo dell’educazione non è quindi quello di allontanare il bambino, rendendolo autonomo il più rapidamente possibile, ma quello di dargli sicurezza e maturità, in modo tale che possa fare a meno della presenza della mamma e del papà, della sua casa e del suo ambiente, il più rapidamente possibile, il più serenamente possibile.

 

Quindi se un bambino piange quando la mamma si allontana da lui, ascoltiamolo!  

 

In caso di allontanamento per poche ore dei genitori, maggior fonte di sicurezza il bambino ritrova nei nonni e negli zii, meno nelle tate, meno ancora nelle baby-sitter ad ore, mentre sono assolutamente da sconsigliare prima dei tre anni gli asili nido o altri tipi di istituzioni.

 

Il bambino ha bisogno dei genitori in maniera molto diversa in base all'età.  Egli si apre agli altri e al mondo, come un fiore. Nessuno è in grado di accelerare l’apertura di un bocciolo, se non forzandolo e quindi ledendo i suoi petali e la possibilità di dare al mondo il suo profumo. La fisiologia della crescita è una realtà immutabile in ogni specie che è indispensabile accettare e fare propria.

 

Qual è questa gradualità? Un bambino neonato ha bisogno della sua mamma o del suo papà ventiquattro ore al giorno, ma già i genitori con un bambino di qualche mese, potranno allontanarsi da lui durante il giorno, per qualche ora, affidandolo ad una persona con cui si è già instaurato un importante legame affettivo: una nonna, un nonno, una zia.

 

Un bambino di uno - due anni comincerà a giocare con gli altri suoi cuginetti, con i fratelli o con qualche coetaneo, ma sempre con la presenza vicina di un adulto di cui ha piena fiducia e con cui si è instaurato un buon legame affettivo. Soltanto verso i tre - quattro anni, accetterà fisiologicamente, senza traumi, l’inserimento in una scuola materna. Accetterà e si confronterà più maturo e forte con bambini con cui non c’è fratellanza e parentela e con adulti con cui non c’è un rapporto individuale. Rapporto individuale che, invece, prima era fondamentale.

 

 

Scuola materna e asilo nido

 

E’ indubbia l’utilità della scuola materna se questa viene ad inserirsi in un’età ideale: tre - quattro anni, in cui il bambino, normalmente, è pronto ad aprirsi a persone, insegnanti ed altri bambini, che sono al di fuori della sua famiglia, senza la presenza di un genitore o di un familiare. A quell’età il bambino dovrebbe essere maturo, per uscire dal suo nido familiare, per cercare e accogliere nuovi stimoli alla socializzazione, nuovi rapporti d’amicizia ed una massa maggiore d’elementi culturali che lo possono arricchire ad aiutare nella sua crescita. La scuola materna dà al bambino la possibilità di socializzare con adulti che non conosce, ma con cui impara presto a dialogare e con cui avrà la possibilità di instaurare un rapporto affettivo e d’amore, diverso e complementare rispetto a quello genitoriale. Impara a vivere ed ad incontrarsi con altri bambini sconosciuti, diversi dai suoi parenti e dai suoi fratellini, con cui può stabilire rapporti d’amicizia, dialogo e collaborazione o con cui può imparare a difendersi ed a limitare gli elementi espansivi del proprio Io.

 

Abbiamo detto che questo è possibile normalmente ad un'età compresa tra i tre - quattro anni. Questo margine è dovuto al fatto che l’età cronologica non sempre segue lo sviluppo psicologico del bambino. Vi può essere, infatti, fisiologicamente un diverso livello nella maturazione affettiva tra bambini della stessa età, come vi può essere la presenza di disturbi, e difficoltà relazionali che possono ritardare la maturazione psicologica. Possiamo allora dire che il bambino è pronto ad inserirsi nella scuola materna quando:

 

  1. lo vediamo sereno, nei rapporti con se stesso e con gli altri (genitori, fratelli, sorelle, nonni, cugini e compagni), con i quali riesce a giocare senza molti problemi e con cui non ha paura di instaurare relazioni di dialogo;
  2. ha conquistato lo spazio fisico e psicologico attorno a lui. Non ha paura di spostarsi, non solo nella sua stanza ma da una stanza all’altra della casa, così come in quella dei nonni e degli zii. E' capace inoltre di restare gioiosamente e serenamente per qualche ora in ambienti per lui non abituali, come le case dei compagni di giochi;
  3. ha conquistato e superato quasi totalmente il rapporto con gli oggetti con cui era particolarmente legato: la sua tazza, il suo orsacchiotto, il suo vasetto, non sono più oggetti di cui non può fare a meno, può accettare e accetta con piacere, per qualche ora altri oggetti per giocare, con cui alimentarsi o adempiere alle funzioni fisiologiche.

 

Se questo non è avvenuto, l’inserire il bambino nella scuola materna o nell’asilo nido, diventa un trauma ed una forzatura che potrebbe portarlo a regredire a stadi precedenti in alcuni o in tutti i settori evolutivi, impedendogli una normale crescita affettiva e relazionale.

 

Non bisogna pertanto sottovalutare i campanelli d’allarme che i bambini istintivamente lanciano in queste occasioni. Alcuni di questi sono molto chiari ed espliciti come il pianto o il rifiuto di andare a scuola. Altri hanno bisogno di un'attenzione e valutazione maggiore. La regressione nell’autonomia e nel linguaggio con il ritorno a fasi che aveva già conquistato, la sofferenza espressa attraverso sintomi somatici come il dolore addominale, il vomito, debbono costituire per noi un chiaro campanello d’allarme e farci riflettere sulla sua reale situazione interiore. Solo se riusciamo a ben interpretare questi segnali, possiamo capire se c’è o no quella maturità richiesta per l’inserimento e quindi comportarci di conseguenza. La corretta lettura di questi segnali oggi è resa più difficile dalle “necessità” lavorative e sociali che ci portano a sottovalutare ampiamente il disagio dei bambini

 

Le cause delle difficoltà d’inserimento possono essere diverse. Spesso è evidente un eccessivo attaccamento ai suoi genitori o ad uno di essi con paure di perdita e d’abbandono. In questi casi solo il proprio ambiente familiare diventa rassicurante.

 

In altri casi può essere presente un ritardo nella maturazione affettiva, oppure uno scarso legame con l’insegnante, un eccesso di frustrazioni durante i primi giorni di frequenza della scuola, l’aggressività da parte degli altri bambini non controllata efficacemente dal docente, la scarsa attenzione ai suoi bisogni fisici e affettivi.

 

Le baby-sitter

 

Per quanto riguarda le baby-sitter, non si può assolutamente generalizzare sulla loro disponibilità e capacità. Vi sono le studentesse che si dedicano a quest’attività nel tempo libero, per mantenersi agli studi o per avere qualche euro in più da utilizzare per le piccole spese, come vi sono le donne che fanno questo lavoro da anni quasi a tempo pieno. E’ difficile, se non impossibile fare quest’attività se non si amano i bambini, per cui, in tante di loro, ritroviamo spesso una buona disponibilità di base, anche se a volte non è sostenuta da altrettanto buone capacità. In ogni caso il problema più importante non sta tanto nelle loro disponibilità e capacità, quanto nella relazione che si viene a stabilire con il bambino. Quando la sostituzione è saltuaria questa figura assume agli occhi del pupo le caratteristiche di una giovane zia o sorella maggiore che ogni tanto lo viene a trovare per giocare insieme a lui. In questo caso i problemi sono minimi, in quanto il legame affettivo che si viene a stabilire è limitato. Quando invece la baby-sitter si sostituisce sistematicamente e per molte ore alla madre, per cui è lei che giorno dopo giorno è a lui vicino nel momento del risveglio, è lei che gli prepara e somministra la pappa, è lei che l’aiuta e lo pulisce quando è sporco, è lei che con lui gioca, dialoga e a lui trasferisce cultura, conoscenze e affetto, allora assume ai suoi occhi che lo voglia o no precise caratteristiche materne. E quando si ha una madre la si ama come una madre, si vuole che stia sempre con te come farebbe una buona madre, non si vorrebbe perderla, come nessun bambino vorrebbe perdere la propria genitrice. Ma questo è un amore difficile; difficile perché c’è già un’altra persona che dice di essere tua madre, difficile perché la persona che tu ami non può restare sempre con te anche se lo volesse in quanto è pagata solo per alcune ore e per alcuni giorni, difficile perché da un momento all’altro può essere licenziata e quindi scomparire del tutto.

 

In questi casi è facile sentirsi abbandonato, è facile sentirsi tradito, è facile non capire come e dove riporre i propri sentimenti di fiducia e d’amore.

 

Anche nei confronti della vera madre i pensieri di un bambino che vive queste realtà non sono teneri: “Fin quando ti serviva l’hai lasciata accanto a me, ora che non ti serve più l’hai allontanata infischiandoti dei suoi e dei miei sentimenti. Chi fa soffrire un figlio togliendogli l’oggetto del suo affetto non lo ama di certo!”

 

A questo proposito ricordo quello che disse una pedagogista che da anni faceva la baby-sitter e che era in procinto di sposarsi e quindi di avere propri bambini: “Spero proprio di non lasciare mai i miei figli con le baby-sitter.” Fui stupito da quelle parole dette proprio da una che faceva con professionalità ed impegno quel lavoro. La motivazione che diede fu però molto convincente: “Non voglio che i miei figli amino più la baby-setter della propria madre.”

 

 

 

SERENITA’ E STABILITA’

 

Un buon genitore non è disturbato da problematiche psicologiche e sa instaurare un rapporto sereno e stabile con i figli.

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Ogni problema interiore e quindi ogni disturbo psicologico di una certa rilevanza, influenza in modo significativo la comunicazione e quindi il nostro rapporto con gli altri, specie con le persone a noi più vicine. La serenità, cioè l’avere l’animo sgombro da preoccupazioni, ansie, rimorsi, paure, sensi di colpa, è elemento essenziale in ogni relazione umana.

 

Se una persona è serena riesce più facilmente a capire se stesso e gli altri. Il suo dialogo è fluido e proficuo; il rapporto con gli altri più lineare; l’amore, l’affetto più sicuro e stabile. La serenità nasce dalla mancanza di problematiche interne non risolte, dalla gratificazione del proprio operato, dalla chiarezza interiore, dall’autostima per ciò che si è o si fa.

 

La mancanza di serenità nasce dalle sofferenze, dai conflitti interiori non risolti, dalle nevrosi, dall’insicurezza del proprio ruolo o del proprio operato, dalle scarse o alterne gratificazioni e si evidenzia attraverso l’ansia, la depressione, la paura, l’eccessiva emotività. Quest’ultima è una forma di reattività istintiva poco controllata che si esprime con una tendenza alla facile commozione, all’immediato turbamento. Una persona emotiva non sempre è in grado di esprimere in modo maturo la sua affettività. Un genitore emotivo vive ogni atto proprio o dei figli, ogni avvenimento con tensione, con dubbio, con preoccupazione, con insicurezza, con palpitazione.

 

Il genitore ansioso e insicuro può diventare eccessivamente repressivo nel tentativo di limitare le occasioni che in lui fanno nascere ansia o al contrario può avere atteggiamenti permissivi nel tentativo di avere l'approvazione e l'ubbidienza del figlio. Mostrandosi aperto a discutere su qualsiasi richiesta, s’illude di attuare un rapporto altamente positivo e democratico.[3]

 

Egli rimprovera i figli per poi pentirsene subito dopo, quasi chiedendo scusa. Se è preoccupato o arrabbiato li rimprovera, se è tranquillo gli concede più del necessario. “Una persona emotiva non sempre è in grado di esprimere in modo maturo la sua affettività. Il genitore ansioso, ad esempio, trasmetterà il suo attaccamento affettivo con una modalità comportamentale iperprotettiva e tenderà a creare un’atmosfera familiare tesa, in cui ogni evento viene amplificato e drammatizzato.”[4]  Egli si colpevolizza facilmente per ogni suo atto, un semplice malore che riguarda il figlio comporta spesso la richiesta d’intervento di uno o più medici se non il ricorso al pronto soccorso dell’ospedale. Ciò naturalmente traumatizza il minore; pertanto i suoi problemi tendono ad accentuarsi e complicarsi, mentre tutta la famiglia soffre per questi continui sconvolgimenti. Per il bambino, la stabilità è elemento fondamentale della sua esistenza; se i fatti avvengono come al solito vi è sicurezza e stabilità, i punti di riferimento sono uguali, il carattere ripetitivo degli eventi rassicura, se i punti di riferimento cambiano c’è il caos o il nulla.[5]

 

Per quanto riguarda l’emotività e l’ansia queste possono evidenziarsi sia nell’uomo sia nella donna, ma sono geneticamente più frequenti in quest’ultima, a causa anche delle continue variazioni ormonali e della maggiore reattività femminile agli stimoli ansiogeni. Quest’accentuata emotività, viene però compensata dalla maggiore razionalità maschile che la tempera e la controlla. Purtroppo quando questa figura manca, o è sottovalutata o peggio emarginata, la famiglia viene privata da questa compensazione e quindi soffre maggiormente le conseguenze dell’instabilità emotiva della donna.

 

Non sono da sottovalutare inoltre i sintomi depressivi. Nelle persone che soffrono di disturbi dell’umore, la realtà si tinge quasi costantemente di grigio se non di nero, per cui essi avvertono la vita, gli altri, se stessi, il mondo, con pessimismo, chiusura e tristezza. Anche questi soggetti, poiché tenderanno a vedere il lato peggiore e distruttivo d’ogni realtà umana e sociale, avranno gravi difficoltà ad instaurare un dialogo sereno e produttivo, svalutando ogni iniziativa e ogni segnale di apertura alla vita e al mondo sia da parte del coniuge che dei figli.

 

 In altri casi pur non essendo presenti evidenti sofferenze psichiche alcuni comportamenti sono chiaramente dettati da problematiche inconsce non risolte, che continuano ad influenzare in maniera negativa parole ed azioni dell’individuo, senza che questi si renda conto della sua alterata realtà interiore e soprattutto senza che riesca a gestirla in maniera positiva. Non sempre, infatti, riusciamo a modificare o ad opporci in maniera continua, sostanziale, alle pressioni e ai coinvolgimenti del nostro inconscio.

 

In tutte queste situazioni, come per tanti altri disturbi della psiche che portano sofferenza al soggetto che n’è colpito e alle persone che gli stanno vicino, s’impone, un attento esame psichiatrico o psicologico che tenda a valutare la gravità di tali problematiche ed indichi le terapie più efficaci per risolverle.

 

D’altra parte i problemi dei singoli possono diventare problemi di tutti i componenti il nucleo familiare per cui si ha come conseguenza una famiglia nevrotica nella quale vengono ripetutamente riprodotti i conflitti infantili irrisolti di entrambi i genitori. I bambini ne vengono coinvolti e i ruoli loro assegnati hanno un effetto profondo sullo sviluppo della personalità.[6] 

 

AFFETTO

 

Un buon genitore è affettuoso con i figli.

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“ Se l’educatore non arriva a conquistare il cuore del giovane, la sua opera è vana. Se un giovane non apre il suo cuore all’educatore l’educatore fallisce” P. Lombardo[7]

 

L’affetto è un elemento fondamentale nello sviluppo dell’essere umano.  Noi siamo, viviamo, cresciamo, maturiamo, ci sviluppiamo, in quanto qualcuno ci ha amato e ci ama, qualcuno ci ha voluto bene o ci vuole bene.  Non possiamo fare a meno dell’affetto, come non possiamo fare a meno dell’aria che respiriamo o del cibo che mangiamo. Per Lombardo: “L’affettuosità esprime un aspetto, una dimensione del linguaggio affettivo che rivela l’intensità e la ricchezza del sentire. La persona affettuosa riesce ad esprimere con spontaneità e calore i suoi sentimenti.”[8] 

 

I modi con cui si esprime l’affetto possono essere diversi: le parole, le carezze, la tenerezza, la sensibilità, l’ascolto.

 

Essere sensibili significa capire immediatamente la realtà dell’altro, cercare di dare all’altro quello di cui ha bisogno, per cui la sensibilità è elemento fondamentale nell’educazione di un minore. Le occasioni in cui l’affettuosità può essere espressa dovrebbero essere numerose specie nei confronti dei bambini piccoli, i quali hanno una gran fame di carezze e di coccole da parte di entrambi i genitori.

 

Anche gli animali leccano, accarezzano, abbracciano teneramente i loro cuccioli creando un’atmosfera magica di sentimenti d’amore, affinché la loro crescita sia sana ed equilibrata.

 

Per fare ciò, è necessario che i genitori siano sereni e disponibili, aperti verso il cuore del loro piccolo, ma anche capaci di avvertirne le  esigenze, capaci cioè di esprimere i sentimenti più teneri e caldi dell’amore materno e paterno. A volte ciò non avviene perché i genitori hanno fretta, sono tesi o hanno la mente impegnata altrove: nel lavoro, nelle occupazioni sociali e politiche. Altre volte sono aridi perché non hanno potuto sviluppare dentro di loro le caratteristiche materne e paterne. In tutti questi casi, quello che dovrebbe essere un comportamento istintivo ed immediato, diventa un’occupazione da imparare razionalmente e frettolosamente da un libro di puericultura o da insegnanti prezzolati. In tale tristi situazioni è facile che si stabilisca “una comunicazione non affettiva” per cui il bambino viene bensì allattato, lavato, cambiato, cullato, ma con una minima, se non assente partecipazione emotivo – affettiva.

 

E’ giusto manifestare i sentimenti affettuosi in tutti i modi e quindi anche con le parole; è importante, però, che dietro le parole vi siano dei comportamenti coerenti e adeguati. Non ha quindi molto senso, dire ai figli: “Ti voglio bene”, quando il  loro bene viene trascurato sistematicamente.

 

Per Don Mazzi “E’ indubbio che il cuore dell’uomo non si ciba soltanto di lavoro, di scuola e di ricchezza, ed è indubbio che il cuore dell’uomo è molto più esigente dell’intelligenza dell’uomo stesso.”[9] 

 

Per il bambino è importante essere svegliato al mattino con dolcezza, con tranquillità, senza fretta, mentre la madre o il padre approfittano di quei momenti ricchi di intimità come il vestirsi, il lavarsi, il fare colazione insieme, lo scegliere l’abito più adatto, per dialogare con gioia della notte trascorsa, in modo da allontanare i brutti sogni e gli ultimi fantasmi e nello stesso tempo presentare e programmare insieme la giornata che comincia.

 

Se il bambino va a scuola, l’accompagnarlo non dovrebbe essere un’occupazione da fare in fretta per non fare tardi in ufficio, ma un altro prezioso momento da vivere insieme con serenità e gioia.

 

 Lo stesso dovrebbe avvenire durante e dopo il ritorno da scuola, quando egli può riversare nell’animo del genitore e così confrontarle, le sue nuove esperienze: con gli insegnanti, con i compagni, con la cultura trasmessa in classe.

 

Il pranzo e la cena, durante i quali, la televisione dovrebbe essere bandita, non dovrebbero rappresentare soltanto momenti in cui ci si alimenta, ma occasioni di comunione, di ascolto e dialogo per tutta la famiglia. Momenti in cui le esperienze della giornata si confrontano, si chiariscono, si rivivono insieme a delle persone care.

 

La sera prima di addormentarsi sarebbe bene “rendere piacevole e bella l’ora di andare a letto”[10] , in molti modi. Eseguendo con calma tutto il cerimoniale previsto in questi casi: andare in bagno, lavarsi, spogliarsi, mettere il pigiamino, dire le preghiere e poi ascoltare la favoletta raccontata da uno dei genitori o da entrambi alternativamente. Una favola per sviluppare la comprensione del linguaggio e la cultura, ma anche per offrire al bambino, nella magia della sera, un’altra occasione di intimità, di calore e di carezze.

 

Quando un bambino si fa male è giusto consolarlo. Per Spock: “Talora un genitore che si preoccupa particolarmente che il figlio cresca coraggioso e senza piagnistei teme che consolarlo lo renda una donnicciola.”[11]  La giusta consolazione non rende donnicciole, l’eccesso sì, specie se si trasmettono al bambino le proprie ansie e le proprie paure. Per tale motivo la consolazione dovrebbe essere attuata con serenità e accompagnata da un atteggiamento interiore ricco di forza, coraggio e sicurezza.

 

La dose delle carezze varia da bambino a bambino. “Vi sono bambini che con pochi contatti si sentono appagati e pienamente soddisfatti, mentre ve ne sono altri molto più “coccoloni”, che vanno continuamente alla carica dei propri genitori.”[12] 

 

Ci accorgiamo di questo bisogno fondamentale quando esaminiamo i danni che la mancanza di atteggiamenti affettuosi produce nei bambini, come negli adulti e negli anziani. Nei bambini istituzionalizzati precocemente nei brefotrofi si evidenziano sintomi di varia natura dovuti alle gravi carenze affettive. Quei luoghi tristi, privi di emozioni positive, di calore non riescono a far sbocciare la gioia e l’apertura alla vita nell’anima dei minori a loro affidati, per cui il cuore di questi piccoli, così come la loro vita tende a rattrappirsi e a gridare la sua sofferenza attraverso gli incubi, le paure, i problemi psicologici, a volte anche gravi, le disarmonie nella crescita, l’aumento delle malattie organiche.

 

 Anche il corpo infatti, oltre che l’animo, risente pesantemente della mancanza d’amore e d’affetto.

 

Questi luoghi, che si tende per fortuna a far scomparire, restano poveri affettivamente, anche se possono essere ricchi sul piano del personale che si occupa dei bambini: medici pediatri, puericultori, educatori, assistenti sociali. Spesso, infatti, nonostante la presenza di personale qualificato, poiché all’amore non si comanda, né si può imporre per contratto, rimane la povertà affettiva e relazionale con tutte le sue funeste conseguenze.

 

Non sono le persone più colte, preparate o specializzate i migliori educatori, ma quelle che riescono ad avere con il bambino un legame affettivo profondo, solido, stabile, responsabile e continuo nel tempo.

 

 Le persone più valide, almeno potenzialmente, sono quindi in ordine di importanza: i genitori, i nonni, gli zii, i fratelli e le sorelle, le tate, le baby-sitter, e per ultimo il personale degli asili nido, in quanto questi servizi utilizzano un personale pagato, che fa dei turni e che può variare nel tempo, con il quale il bambino ha difficoltà ad instaurare un legame d’amore stabile e continuo fatto di dialogo, di confidenze, di coccole.

 

Le conseguenze delle deprivazioni affettive sono diverse a seconda dell’età del piccolo, della gravità e durata del problema: aspetto prostrato, abbattuto, triste, frequenti autostimolazioni, ritardo psicomotorio globale, anoressia, turbe del sonno, affezioni respiratorie (asma) o in un’età maggiore oltre i due – tre anni, disturbi del comportamento con instabilità, collera, aggressività, fughe ecc..

 

 “Alcuni bambini, non a caso, comunicano il loro vuoto affettivo, il non sentirsi amati, attraverso comportamenti ribelli ed aggressivi.” [13]

 

“E’ proprio tramite tale fame di carezze che si può passare tutta la vita ad elemosinare la presenza di qualcuno che ci voglia bene o dalla parte opposta isolarsi e rifiutare qualsiasi forma di contatto interpersonale.”[14] 

 

“ La solitudine può essere annullata nella dimenticanza - ebollizione della coscienza di sé, nell’alcool, la droga, gli stati orgiastici, le estasi autoprovocate, gli stati d’ipnosi, la sessualità vissuta per il piacere nell’atto dell’esclusiva genialità, isterismo collettivo (concerti rock, avvenimenti sportivi), l’assordamento, e l’abbrutimento psichedelici e varie forme di vero e proprio fanatismo.”[15]  

 

O ancora mediante “la costruzione di corazze difensive, di vario genere e di diversa intensità…” [16]

 

La controprova si ha allontanando i motivi del disagio e della deprivazione affettiva: il bambino, come se lentamente rinascesse alla vita e al rapporto con gli altri, ritorna a sorridere e ad alimentarsi correttamente, cresce meglio, ritorna a dialogare con i genitori e gli adulti, la relazione con gli altri si fa più ricca e intensa, anche se alcune sequele patologiche resteranno impresse per molti anni, a volte per tutta la vita, nella sua anima.

 

Purtroppo a soffrire delle deprivazioni affettive non sono soltanto gli orfani, i figli di separati o di divorziati o i minori istituzionalizzati. Molti bambini pur avendo entrambi i genitori soffrono degli stessi sintomi in quanto la presenza di essi e le attenzioni a loro rivolte non sono adeguate ai loro bisogni. Si tratta in genere di genitori troppo impegnati, ansiosi, preoccupati e coinvolti in mille faccende, che trascurano o non riescono a vivere con serenità, gioia e donazione la relazione affettiva con i loro figli.

 

DIALOGO

 

Un buon genitore è capace di instaurare un dialogo efficace.

 

La comunicazione è elemento fondamentale per lo sviluppo e la vita relazionale di moltissimi animali, ma soprattutto dell’uomo. Possiamo tranquillamente affermare che la nostra umanità genetica avrà il suo naturale sviluppo e acquisterà completezza, solo e in quanto qualcuno avrà comunicato con noi in modo efficace.

 

Per le madri più sensibili, più disponibili, più attente, più rilassate, più disposte alla relazione, la comunicazione con il proprio piccolo nasce già durante la gravidanza.

 

La presenza del figlio nell’utero materno, avvertita ancor prima dei movimenti del bambino stesso, come presenza di un altro, di altro da sé, ma connesso intimamente con il “sé” materno, porta istintivamente al dialogo, alla comunicazione, all’intesa e al rapporto tra la madre ed il bambino. Rapporto, intesa e comunicazione che si perfezionano e si completano nel momento in cui il nuovo essere umano fa sentire la sua presenza, con i  movimenti del corpo. Molte mamme e padri reagiscono a queste sollecitazioni del figlio con toccamenti e carezze dati al bambino attraverso l’addome. In tal modo comunicano le loro emozioni: la gioia nell’avvertire la sua presenza, il piacere di quell’intesa e attesa.

 

Ma questa comunicazione si completa e diventa molto più intensa, dopo la nascita. Attraverso le espressioni emozionali del viso, con significato di piacere, gioia, rabbia, dolore, disappunto, desiderio, ricerca, il bambino comunica alla madre i suoi bisogni, e non solo.

 

I bisogni di base del bambino li conosciamo molto bene: pulizia, cibo, calore, affetto, attenzione. Ma vi sono dei bisogni che dovrebbero essere altrettanto evidenti, ma che purtroppo, a volte, dimentichiamo: bisogno di dialogo, serenità, equilibrio, protezione; e ancora stimoli per lo sviluppo: stimoli per il linguaggio, per la motilità, l’affettività, la volontà, ecc..

 

Il bambino non chiede soltanto, ma cerca di soddisfare i bisogni dei genitori o di chi si prende cura di lui con amore. Per tale motivo dà generosamente amore, piacere, dialogo ed altre forme di gratificazioni. Fa ciò attraverso la modulazione delle espressioni del viso come il sorriso; attraverso le sue mani: le carezze i toccamenti i gesti; con la sua bocca, mediante i baci e le espressioni verbali. [17]

 

In tal modo si ristabilisce un equilibrio tra ciò che si chiede e ciò che si dà e lo scambio diventa paritario. Come conseguenza di ciò vi è un benessere e un attaccamento reciproco, ed un vincolo emotivo stabile nel tempo.

 

Quando questo non avviene, quando l’intesa non si manifesta e lo scambio non si attua, può succedere quanto descritto da diversi autori: vi è un evitamento degli sguardi, ma anche dei toccamenti, degli abbracci dei sorrisi, con conseguente allontanamento e disagio reciproco. Disagio che può sfociare nella madre in ansia, depressione o aggressività manifesta verso il piccolo.

 

 Il bambino supera il trauma iniziale della nascita, la paura nei confronti del mondo e degli altri, la tentazione a chiudersi in se stesso, attraverso il dialogo. Sono, infatti, le persone che l’accolgono al mondo, soprattutto i suoi genitori e gli altri familiari che, con le loro attenzioni, con le carezze e con i baci, gli fanno avvertire di essere bene accolto. Gli fanno sentire con il loro amore che il mondo gli vuole bene, che il mondo è una cosa buona perché ricco di calore e di disponibilità nei suoi confronti. Quando i genitori, infatti, non riescono a comunicare al bambino attraverso i gesti e le parole il senso caldo dell’accoglienza, dell’affetto, della disponibilità, hanno il sopravvento la tristezza e la paura iniziale che lo possono spingere verso la chiusura e la depressione.

 

In un secondo tempo, sarà sempre il dialogo che permetterà al bambino di crescere e maturare sia nel linguaggio sia nelle capacità intellettive e cognitive. Sarà mediante un continuo scambio di esperienze e di valori che in lui si svilupperà il senso morale.

 

 Quindi l’aprirsi alla vita, la sua crescita e maturazione verrà solo se avrà accanto a sé dei genitori o in ogni caso esseri umani che si pongono nei suoi confronti in un rapporto dialogico stabile e continuo di maternità o paternità. Pur tuttavia, oltre che dei genitori avrà bisogno, per la sua crescita, di altre figure che gradualmente si aggiungeranno, ma non potranno sostituire le prime: i nonni, i fratelli, gli zii, i parenti e poi gli amici, gli insegnanti e infine i conoscenti. Tutti si dovranno rapportare con lui mediante un dialogo efficace.


[1] S.R.Slavson, I gruppi per genitori: l’orientamento centrato sul bambino, Boringhieri, Torino, 1980, p. 291

[2] J. Vanire, La ferita nel cuore dell’uomo, Messaggero, Padova, 1985, p.10.

[3] P. Lombardo, Crescere  per educare, Edizioni dell’aurora, 1994, p. 22.

[4] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 36.

[5] P.A. Osterrieth, Introduzione alla psicologia del bambino, C/E Giunti – G. Barbera, Firenze, 1965, p. 53.

[6] S. Wolf, Paure e conflitti nell’infanzia, Armando Armando Editore, Roma, 1970, p.153.

[7] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 31.

[8] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 35.

[9] Don A. Mazzi G. Zois, Pinocchio e i suoi fratelli, Piemme, III ristampa, 1994, p. 29.

[10] B.Spock, Il bambino, come si cura e come si alleva, Longanesi,e C., Milano, 1968, p.434.

[11] B.Spock, Il bambino, come si cura e come si alleva, Longanesi,e C., Milano, 1968, p.430.

[12] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 43.

[13] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 36.

[14] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 18.

[15] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 31.

[16] P. Lombardo, Crescere  per educare, Edizioni dell’aurora, 1994, p. 62.

[17] Si può facilmente immaginare quanto sia vera dal punto di vista squisitamente tecnico oltre che poetico l’esortazione di Virgilio al fanciullo ancora infante: “Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem”.  Comincia bambinello a mostrare a tua madre di averla riconosciuta sfoggiando un bel sorriso.

 

SINCERITA’ E LEALTA’

Un buon genitore sa instaurare con i figli un rapporto sincero e leale.

 

Sincerità nei confronti dei figli può significare molte cose: come il manifestare l’affetto che si prova, mediante parole e gesti d’amore o esprimere il proprio orgoglio per i comportamenti positivi da loro avuti; ma è anche sincerità esprimere il disappunto, la collera e la tristezza quando i loro comportamenti sono chiaramente criticabili.

E’ invece molto lontano da un comportamento sincero, dire qualcosa, solo per ottenere un certo scopo.  Spesso i genitori, soprattutto con i bambini piccoli, tendono ad essere chiaramente bugiardi, come quando dicono: “Esco per andare dal dottore”, mentre in realtà sono pronti per andare al cinema. “Esco per fare delle compere”, mentre in realtà stanno per uscire con gli amici. In questi come in molti altri casi è preferibile essere sinceri. Non dovrebbe costituire trauma per i figli sereni ed appagati, sapere che i propri genitori, dopo aver fatto pienamente il proprio dovere, si prendono qualche ora di riposo o di libertà, mentre al contrario questi ultimi, saranno giudicati severamente e daranno un pessimo esempio quando cercheranno di camuffare i propri comportamento mediante pietose bugie.

Ancora peggio quando, evidenziano atteggiamenti affettuosi,  dicono “ Ti voglio bene” ai figli, solo per sentirsi “buoni genitori”, mentre i fatti li sconfessano o dentro di loro questo sentimento non è per niente presente. In questi casi “ amore mio”, “tesoro” “dolcezza di mamma” sono parole vuote, che contraddicono il comportamento e a volte anche il pensiero confondendo, irritando e sconvolgendo l’animo del minore.

Lealtà nei confronti dei figli significa mantenere, per quanto umanamente possibile, ciò che è stato promesso. Senza cercare scuse. Sia che la promessa riguardi un giocattolo da comprare, una gita da fare o una minaccia nel caso si sia presentato un comportamento improprio. Mantenere quanto detto o promesso significa stimolare i figli alla linearità, alla lealtà e coerenza, cosa di cui ognuno di noi e ogni società, nel suo complesso, ha gran bisogno.

AUTOREVOLEZZA

Un buon genitore deve essere autorevole

 

“ Per educare occorre sommare la forza della ragione a quella del cuore, perché solo così si assumono i tratti dell’autentica autorevolezza.”  P. Lombardo[1]

Che cosa dà sicurezza a un ragazzo, a un bambino, a un giovane ma anche all’essere umano adulto?

Una cosa che dà sicurezza è sicuramente il sentirsi amato e rispettato. Dà sicurezza sentire che attorno a noi, accanto alla nostra anima, c’è qualcuno che ci ama, qualcuno che ascolta i battiti del nostro cuore, i suoi bisogni e riesce a soddisfarli.  Qualcuno che ci dà tenerezza, dialogo, comprensione e che sa intravedere e rispettare la nostra individualità.

C’è un altro caposaldo della sicurezza, purtroppo spesso trascurato nelle società permissive, ed è quello di sentire che accanto a noi vi è una persona autorevole.

Se l’autorità compete di diritto ad ogni educatore, uomo o donna che sia, poiché, avendo un’età maggiore dell’educando ha dei doveri nei suoi confronti, l’autorevolezza purtroppo non è di tutti gli educatori, giacché necessità di qualità che sono in parte innate, mentre in buona parte si sviluppano ad opera dell’ambiente. In ogni caso sono volute e alimentate dall’individuo stesso. 

 

                                      IL GENITORE AUTOREVOLE

 

  • E’ consapevole dei propri diritti, ma anche dei propri doveri.
  • Ha una grande forza interiore.
  • Rispetta profondamente il figlio e sa dargli un’equilibrata fiducia.
  • Sa farsi rispettare.
  • Ha stima dei figli.
  • Sa dare il giusto spazio alla libertà.
  • Sa dare norme e limiti chiari.
  • Sa essere flessibile ma non elastico.
  • Incarna i valori che propone.
  • E’ una persona matura e saggia.
  • Non ha bisogno della violenza per farsi ubbidire o per affermare le proprie idee.
  • Non ha paura del figlio.
  • Infligge punizioni giuste, equilibrate e limitate nel tempo.

 

 

E’ consapevole dei propri diritti, ma sa che il diritto all’autorità ha per contraltare tutta una serie di doveri.

Ogni genitore ha diritto al rispetto e all’ubbidienza da parte dei suoi figli.

Ma ha anche diritto ad autonome scelte educative che non possono e non devono essere condizionate dagli interventi esterni alla famiglia se non in minima parte. 

Purtroppo negli ultimi decenni il peso di questi interventi, nati per risolvere problematiche particolari e situazioni limite, si è fatto via via sempre più pesante, sia sul piano dei rapporti tra i coniugi che sulla gestione familiare e sui mezzi e strumenti educativi, esautorando, di fatto, i genitori di molti diritti gestionali senza dare, ed era pura illusione pensare di poterlo fare, risposte alternative giuste ed efficaci.

Si è creata attorno alla famiglia una babele e una selva di leggi, regolamenti e sentenze che non solo ne limitano la funzionalità ma impediscono il sereno svolgersi della vita familiare, creando intensa conflittualità tra i coniugi e nell’animo dei giovani perplessità, incertezze, dubbi e in definitiva paura ed ansia nei confronti dell’istituto matrimoniale e familiare.

Lo stesso stato e gli stessi giudici che discutono se un padre o una madre possono o no dare uno scappellotto al loro figlio ribelle non sembrano poi curarsi molto delle violenze che giorno dopo giorno, ora dopo ora si abbattono sui minori. Violenze che, come abbiamo già visto e vedremo nei prossimi capitoli, nascono dall’invadenza e dai condizionamenti della pubblicità, dall’azione diseducativa e lesiva dei mass media e  della rete internet, dal capillare spaccio di droga, dalle carenze affettive e così via.

Per quanto riguarda i doveri, ogni genitore ha:

 

  • dovere di “servizio” nei confronti dei figli; [2]
  • dovere alla linearità e alla coerenza tra ciò che l’educatore dice e ciò che fa;
  • dovere di intraprendere insieme all’educando un cammino comune, lento, faticoso, a volte doloroso, ma che si assume nella consapevolezza di un fine importante;[3]  
  • dovere di una posizione che non può essere allo stesso livello dell’educando, giacché la necessità di essere ascoltati e ubbiditi gli impone comportamenti e atteggiamenti che non devono confonderlo con il figlio.
Il genitore autorevole ha grande forza interiore.

La forza interiore è fondamentale in mille occasioni della vita: per affrontare i problemi e le mille difficoltà d’ogni giorno, per vincere i dubbi e le incertezze nelle scelte, per chiarire dentro di sé le istanze interiori, per superare la tristezza e il dolore. Dolore e lutto per la perdita di persone care o che rappresentavano molto per la nostra esistenza. Non è pensabile, infatti, eliminare dalla vita la perdita delle persone care, come non è possibile eliminare gli elementi negativi che ci fanno soffrire: la frustrazione per qualcosa a cui si ha diritto e non ci è accordato; per qualcosa che volevamo o potevamo raggiungere e non abbiamo ottenuto. Non è possibile, abbiamo detto, ma forse non sarebbe neanche utile.  Servono le frustrazioni, per spingere più in alto il nostro sguardo, per stimolare le migliori capacità dell’uomo, in modo tale da superare noi stessi e le miserie della vita.

Anche le ansie, sono un elemento comune e inalienabile dalla vita. Soltanto una gran forza interiore ci potrà far superare l’ansia dell’attesa, di qualcosa che si desidera o che si vuole raggiungere. L’ansia come preoccupazione per le persone che ci sono care.

Così come ci vuole una gran forza interiore per vincere le delusioni: per un lavoro che non riusciamo ad ottenere, per qualcosa di noi che gli altri non rispettano, per una bocciatura o per le tante ingiustizie che si incontrano in ogni piega della società e che spesso non si possono eliminare o allontanare, per cui bisogna soltanto saperle affrontare. Anche l’aggressività degli altri è una realtà inalienabile. Non possiamo illuderci che il giovane e poi l’uomo possano vivere in un Eden fatto solo d’amore.

Quando i genitori hanno dentro di sé questa forza interiore, possono affrontare serenamente i mille problemi della vita quotidiana e soprattutto possono trasmetterla ai figli. Quando invece prevalgono la fragilità, la paura, l’inquietudine, l’emotività, l’autosvalutazione, per cui troppo spesso si pensa di commettere degli errori o di aver fallito, allora diventa veramente difficile essere genitori ma anche trasmettere all’altro qualità che non si possiedono, caratteristiche che non si hanno.

 Il genitore autorevole rispetta profondamente il figlio e sa dargli un’equilibrata fiducia

 Il genitore autorevole sa rispettare, nel cammino verso la maturità e l’autonomia, la personalità e individualità, la libertà di giudizio del figlio. Non abusa della sua fiducia e credulità. Lo considera importante e ha stima di lui. Ha fiducia nelle sue capacità, possibilità e potenzialità.

Attenzione, però: non è fiducia l’incoscienza. Non è fiducia mettere la testa sotto la sabbia come lo struzzo, non vedere il pericolo, il rischio, o le gravi difficoltà in cui noi adulti lasciamo i nostri ragazzi soprattutto adolescenti. Non è prova di fiducia, dare più libertà di quanto un giovane possa utilizzare in maniera corretta, possa essere in grado di gestire.

La gestione della libertà è difficile e dipende da molti elementi: il tempo da gestire, la maturità dell’individuo, il luogo in cui bisogna gestirla, le persone che ci aiuteranno e così via.

 
Un genitore autorevole rispetta il figlio, ma sa farsi rispettare.

Il cercare a tutti i costi di “essere amici dei figli”, nasconde spesso la debolezza di carattere di un genitore. Se per amicizia intendiamo confidenza, dialogo, rispetto, possibilità di aprirsi all’altro, l’amicizia con il figlio è un bene; ma accanto a questi elementi relazionali deve permanere sempre, da parte del genitore, la funzione di guida e di sostegno morale.

E’ invece veramente preoccupante l’amicizia quando viene a mancare l’autorità. In questi casi il genitore tende a adattarsi al figlio, vivendo le sue stesse esperienze e condividendole, venendo così ad assume un artefatto ruolo giovanile. Volendo imitare e conquistare il figlio, rincorre i suoi atteggiamenti più moderni e spregiudicati, come il farsi chiamare per nome, dimenticando che ogni età ha la sua dimensione, la sua bellezza, i suoi doveri.

I genitori oggi esigono talmente poco rispetto per la propria persona che rischiano la stima dei figli.  Se si conoscono i propri limiti ci si sente sicuri e si stima la persona che responsabilmente dà quei limiti. In caso contrario nasce l’insicurezza e la disistima.

Il rispetto degli altri, soprattutto verso chi ha una funzione pedagogica e quindi di guida, ed in particolare modo dei genitori, degli insegnante, dei leader, è essenziale per una buona crescita educativa; quindi è necessario fare rispettare il proprio ruolo, non ammettendo che sia canzonato o svilito. E’ giusto fare rispettare la maggiore età ed esperienza, poiché stimola il minore ad accettare i propri limiti e i ruoli che sono fondamento d’ogni vivere civile e quindi lo spinge ad impegnarsi e prepararsi ad assumere lui stesso un giorno un ruolo con maggiori onori ma anche con maggiori responsabilità.

Se il ruolo degli educatori è svilito, evidentemente quest’obiettivo non sarà più presenta nell’animo e nella mente del giovane. Saremo amici, uguali ad altri amici, compagni uguali ad altri compagni. Per qual motivo un ragazzo dovrebbe cercare maggiori responsabilità ed oneri se questi non hanno alcuna contropartita? Dove può trovare la spinta maturativa e il desiderio di abbandonare il ruolo infantile ed adolescenziale trovando negli adulti le stesse caratteristiche degli amici?

 

 Il genitore autorevole ha stima dei figli.

 

La stima di sé è elemento indispensabile di sicurezza, gioia, forza interiore; quando qualcuno ha una buona stima di noi ci sentiamo più forti, più coraggiosi, più disponibili a dare e a ricevere, più aperti e intraprendenti, più ricchi. Quando invece qualcuno, soprattutto le persone a noi più care e più vicine come i nostri genitori, hanno poca stima nei nostri riguardi, la tristezza, l'inquietudine, l'insicurezza ci assale. Ci sentiamo piccoli e indifesi per cui reagiamo con la chiusura, con l'apatia, con il disinteresse, oppure con aggressività verso chi ci ha fatto provare questa sensazione negativa. Il risentimento può allargarsi anche ad altre persone, che nulla hanno a che vedere con il nostro stato d'animo ma che sono coinvolte in questa situazione di malessere.

E' giusto e sacrosanto criticare gli atteggiamenti ed i comportamenti inadeguati o poco consoni al vivere civile, ma bisogna farlo senza "togliere la propria considerazione per il valore della dignità altrui.”[4]  In caso contrario l'altro si considererà un poco di buono, un fallito, un incapace, un essere inutile e spregevole. Sono da evitare, inoltre, l'ironia ed il dileggio: sono molto meglio “le critiche costruttive.”[5]

E’ giusto ed è utile anche confermare, approvare e “lodare non solo i buoni risultati ma mettere in evidenza soprattutto gli sforzi di crescita cui possono seguire esiti negativi.”[6]   Quando un ragazzo s’impegna pienamente nello studio o nel lavoro ma, per motivi non dipendenti dalla sua volontà, non riesce a raggiungere i risultati voluti, è bene che trovi accanto a sé, il cuore dei suoi genitori che lo confortano e lo incoraggiano ad andare avanti, apprezzando il suo impegno e gli sforzi della sua volontà.

I genitori però non possono limitarsi a dire: “Bravo” o “Sono orgoglioso di te”, devono anche fare in modo che lo siano veramente, con il loro impegno, aiuto e abnegazione. Purtroppo ciò spesso manca nei genitori d’oggi, i quali sono pronti a difendere il proprio figlio con le unghie e con i denti di fronte ad insegnanti e educatori che evidenziano in lui problemi e difficoltà ma poi fanno poco o nulla affinchè egli le superi.

Il genitore autorevole sa dare il giusto spazio alla libertà.

 

Poiché l’autorità non è in contrasto con la libertà; anzi, aiuta ad acquisire quella vera, egli ama la libertà e sa che questa è fondamentale nella crescita e nello sviluppo di qualsiasi essere vivente. Uno dei fini basilari dell’educazione è di fare del bambino “un uomo libero. “ Cioè un individuo padrone di se stesso. Capace di effettuare scelte consapevoli e di assumersi le responsabilità del suo stato.  Libero da condizionamenti, soprattutto interiori e quindi libero da complessi, traumi, conflitti all’interno della propria coscienza e del proprio Io; libero da un eccessivo orgoglio, dalla superbia, dall’egoismo; libero di realizzare i valori più alti dell’umanità.

 Per tali motivi, è indispensabile che il figlio apprenda a far buon uso di tale libertà operando delle scelte attente e responsabili tra i suoi molteplici desideri mentre deve riuscire a comprendere gradualmente e ad accettare i limiti della propria indipendenza sia nel personale interesse che, responsabilmente, negli interessi della società.

Il bambino, quindi, ha bisogno di spazio. Lo spazio fisico gli permette di muoversi, di giocare, di correre, di scoprire, di inventare, di creare; quello psicologico gli permette, mediante delle scelte libere e consapevoli, di cercare, scoprire e trovare nella vita una strada propria, da percorrere insieme a compagni di viaggio che saranno prima i suoi familiari, poi gli amici e quindi, da adulto, la persona da amare e con cui formare una famiglia.

Questo spazio psicologico può essere percorso e vissuto meglio e più facilmente approfondito se sono accettate ed osservate due condizioni di base.

 

  1. La prima è che sia proporzionale all’età e allo sviluppo. Un bambino piccolo può utilizzare bene uno spazio molto ristretto, fatto inizialmente soltanto dei suoi genitori: si perderebbe o si confonderebbe nel muoversi in uno spazio troppo ampio. Un bambino più grande, con più esperienza e maturità, riesce a padroneggiare uno spazio maggiore nel quale fanno parte anche i suoi parenti più stretti e poi gli amici del cuore, senza danno, senza inquietudine e ansia. Pertanto, con molta gradualità, il ragazzo ed il giovane potranno avvicinarsi senza molti problemi anche agli estranei.
  2. La seconda è che questo spazio abbia caratteristiche utili per l’educando. E’ necessario, pertanto, valutare attentamente rischi e benefici dei luoghi psicologici in cui si muove il minore e delle persone che frequenta. Se egli si muove e vive in un ambiente inquinato e quindi a rischio, anche quando avrà buone capacità di critica, la possibilità di fare o di farsi del male sarà sempre presente e attuale. Vi sono, nella nostra società del benessere, oggi, molti spazi neutri. Spazi in cui non si evidenzia né una chiara utilità né un preciso danno; anche questi è giusto che siano percorsi ma in maniera molto limitata.  L’assenza di finalità educative di queste realtà e quindi la mancanza di un loro specifico apporto positivo, si traduce lo stesso, se frequentati eccessivamente, in un danno per i minori.
 
Il genitore autorevole sa dare norme e limiti chiari. Sa essere flessibile ma non elastico.

Poiché il concetto di libertà implica automaticamente quello di responsabilità, compito dell’educatore è fare in modo che il bambino che sta crescendo e l’uomo che si sta formando siano responsabili e quindi capaci di controllare i propri istinti, desideri e bisogni senza soffrire eccessivamente per le costrizioni che il mondo reale necessariamente darà. Un bambino è libero quando sa utilizzare e mettere al frutto questa libertà, sa rispettare quella degli altri, sa porsi dei limiti, sa accettare i limiti che gli altri gli pongono. E' libero quando sa chiedere ma nello stesso tempo sa limitare le richieste, sa accontentarsi, riesce a postergare la soddisfazione dei suoi bisogni.

L’educatore autorevole amando la libertà sa che per poterla vivere pienamente essa ha bisogno di limiti, regole e norme ben precise.

 “La disciplina è fondamentale nell’educazione dei figli: la verga e la riprensione sono ciò che dà sapienza; ma il ragazzo lasciato senza freno farà vergogna a sua madre” (proverbi 29; 15) Il termine biblico “verga” indica il bastone che guida il gregge non ha quindi il senso della violenza sui minori quanto quello di una guida e una disciplina attenta ed efficace.

Le regole e le norme sono indispensabili per rispettare gli altri e se stessi. Poiché fanno parte di un progetto educativo globale, che i genitori e gli educatori vogliono far percorrere all’educando, essi variano notevolmente in base all'età, alle qualità, alle caratteristiche di quest’ultimo e dell’ambiente che lo circonda.

 Il bambino deve sapere con chiarezza e certezza, ciò che è giusto fare e ciò che non è giusto. Distinguere ciò che è possibile, da ciò che non lo è. Ciò che è bene da ciò che è male. Ciò che è utile a lui, alla famiglia, ai genitori, alla società da ciò che non lo è. Ciò che è indifferente, quindi né utile né inutile, da ciò che è dannoso, quanto è dannoso e perché è dannoso.

Poiché è bene che l’educando sappia distinguere esattamente ciò che può fare da ciò che non può fare, ciò che gli è utile da ciò che non lo è, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, sono necessari dei “sì” chiari, precisi e definitivi ma anche dei “no”, altrettanto netti e chiari, anche se detti con amorevolezza e gentilezza. Dei “no”, che abbiano il valore di un limite, di una norma, e quindi non si modifichino solo perché il figlio piange o protesta energicamente ma, eventualmente, siano adattati, in base alle circostanze e alla maturità di lui, con la giusta flessibilità.

Bisogna invece evitare di esser elastici; cosicché una norma possa essere interpretata in modo eccessivamente difforme o possa essere sconvolta nella sua interpretazione; quindi le regole, le norme, le indicazioni, devono essere fatte rispettare senza rigidità eccessiva, ma anche senza troppa elasticità che le renderebbe povere, non congruenti e ne svilirebbe il contenuto.

Se diciamo ad un figlio adolescente di ritornare a casa alle otto, ciò non significa che alle otto e un minuto, debba scattare la punizione, il rimprovero, o la reprimenda. Ma è altrettanto utile però stimolarlo alla puntualità e sostanziale accettazione e rispetto della norma, per cui non è accettabile, che il figlio si presenti  mezzora o un’ora più tardi, perché questo significherebbe stravolgere l’indicazione data, non abituarsi alla puntualità, alla lealtà, alla coerenza.

Questi “no” non dovrebbero essere numerosi. Ciò per permettere all’educando ampie possibilità di scoperte, di scelte e l’assunzione graduale di sempre maggiori responsabilità.

Un sano ed equilibrato rapporto educativo è possibile solo se, il genitore autorevole è sostenuto e confortato dall’ambiente familiare e sociale che lo circonda. Quando questo non avviene, per cui l’altro coniuge, gli altri educatori o l’ambiente sociale in cui la famiglia vive, tendono a svilire, svalutare o peggio contrastare una linea educativa autorevole, diventa estremamente difficile ottenere l’ubbidienza o proporre norme e limiti.  Come conseguenza di ciò ritroviamo o una frattura del rapporto con i figli, con il coniuge e gli altri educatori o, quel che è peggio, un abbandono dell’impegno educativo che si traduce in un aumento della vasta schiera dei genitori assenti o permissivi.

L'altro genitore, familiare o gli altri adulti dovrebbero fare proprie queste norme e aiutare i minori a rispettarle, in modo tale che possano tradursi in punti fermi, in paletti entro cui essi possano muoversi liberamente, sapendo di agire bene e correttamente, sia nei confronti di se stesso che verso gli altri. Quando queste circostanze si verificano i limiti e le norme potrebbero essere molto pochi ed essere necessarie soltanto nella fase iniziale del processo educativo; successivamente potrebbero scomparire quasi completamente, perché già interiorizzati dal soggetto e incarnati in tutti i suoi comportamenti.[7]

Ciò attualmente è molto difficile da ottenere, giacché il ventaglio degli atteggiamenti da parte dei genitori e degli educatori non solo è troppo ampio e confuso, ma soprattutto è spostato nettamente in senso permissivo, conseguentemente non si riesce a trovare nell’ambiente sociale, ma spesso anche in quello familiare, un atteggiamento educativo uniforme che giustifichi e sostenga limiti e norme.

Il “no” può e deve nascere quando la richiesta può comportare per il figlio una situazione di reale rischio fisico, morale o sociale. Questa condizione è la più facilmente compresa e accettata dal minore. Più difficile da comprendere, e quindi da accettare, è la necessità di portare avanti un progetto formativo che sviluppi le varie capacità e potenzialità del minore.

Se, per esempio, diciamo ad un giovane che siamo contenti che vada ogni tanto ad una festa, difficilmente potrà capire il perché molte feste non sono utili. Se una festa è un bene, tante feste dovrebbero essere ancora meglio. E’ difficile che comprenda, e forse non è neanche il caso di spiegarlo, che il nostro scopo è anche quello di aiutarlo a conservare il piacere del nuovo, del diverso, dell’eccezionale, del bello, del meraviglioso, della scoperta, facendo in modo che non sia banalizzata “la festa.” E’ difficile che il giovane riesca a capire che una limitazione o un ostacolo al desiderio,  esalta l’oggetto del desiderio stesso, lo rende ancora più bello, più splendido, lo fa gustare ancora di più; com’è difficile che riesca a capire che ci sono delle limitazioni che servono a sviluppare la sua volontà, a forgiare il suo carattere o a dare stimoli all’autonomia e all’indipendenza. Le limitazioni, infatti, se non sono eccessive, rafforzano e danno maggiore grinta all’essere umano, lo aiutano a crescere ed a porsi su un piano di maggiore consapevolezza, liberandolo dalle dipendenze infantili.

I “no” vanno se possibile spiegati all’educando, pur sapendo che non sempre egli è in grado di capire o di accettare le motivazioni. A volte non è in grado di capire per motivi legati all’età o all’immaturità. La differenza tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra il bello ed il brutto, tra il vero e il falso si conquista gradualmente negli anni. Altre volte, è difficile per l’educando capire in quanto si trova in una situazione ed in un ruolo in cui gli sfugge la complessità del progetto formativo dei genitori. Dal suo punto di vista, i nostri scopi appaiono troppo lontani, indefiniti, oscuri.

In altri casi, i nostri obiettivi e valori si scontrano con quelli di una società che n’è priva o porta avanti esigenze e bisogni opposti a quelli utili e necessari ad una sana educazione. Quest’incomprensione non deve limitare e bloccare il nostro agire, per tale motivo nonostante ciò, dobbiamo ugualmente porli e farli rispettare. Se io dico ad un bambino piccolo che non ha ancora avuto la dolorosa esperienza della scottatura, che il fuoco brucia e che può farsi del male, il bambino non capirà o capirà solo parzialmente che il fuoco è pericoloso. Fargli fare l'esperienza del fuoco che fa male e che brucia potrà sì essere una lezione, ma questa lezione potrebbe lasciare indelebili cicatrici! Lo stesso avviene se mettiamo dei limiti al tempo libero di un adolescente. Difficilmente questi potrà capirne lo scopo, o gli scopi dell'educatore come quelli di evitare rischi inutili, aiutarlo a concentrare la sua attenzione sugli impegni e non solo sulle attività piacevoli, stimolare la sua crescita, responsabilità, condurlo a valorizzare gli elementi piacevoli della vita evitando quindi di banalizzare gli incontri, le feste, l’amore, il sesso.

 

Un genitore autorevole incarna i valori che propone.

L’autorità educativa si evidenzia non solo nel proporre princìpi etici, religiosi o sociali, ma anche e soprattutto nell’incarnare tali valori. Ad esempio ciò che un educatore dice riguardo all’onestà è importante, ma se dimostra, anche nelle piccole occasioni d’essere onesto è molto meglio. C’è sempre uno scarto tra princìpi e valori che si propongono e quelli che si riesce a vivere concretamente, ma non vi è dubbio che quanto più questo scarto è ridotto, tanto meglio e più profondamente si riesce a seminarli e farli crescere nell’animo di un giovane.

Il genitore autorevole è anche una persona matura e saggia.

Essere maturi significa aver fatto un percorso di vita, che rende possibile capire gli altri, farsi capire dagli altri, essere capaci di guida, di ascolto e di conforto, poiché si è pervenuti ad un buon livello di crescita e d'integrazione tra le varie componenti della personalità. La saggezza è invece, una ricchezza interiore che ci permette di dare la nostra esperienza, il nostro sostegno, consiglio e incoraggiamento nei modi e nei tempi più opportuni. Queste doti facilitano i processi d’identificazione, ma anche di confronto, quando è necessario. 

I nostri giovani che stanno molte ore con gli altri coetanei, con questi potranno sicuramente giocare e divertirsi, ma il confronto è parziale e limitante, giacché si ritrovano tra persone che hanno problemi, esigenze, livelli di maturazione molto simili. Per tale motivo, i coetanei difficilmente potranno essere guida efficace, fonte d’esperienza, sostegno ed identificazione. Queste qualità si possono soltanto ritrovare in un adulto maturo, responsabile e saggio.

Un genitore autorevole non ha bisogno della violenza per farsi ubbidire e per affermare le proprie idee.

Basta poco alla persona autorevole per farsi ubbidire. Il rispetto, il fascino, la fiducia, la serenità, l’autorità che emana, la capacità di essere comprensive e ferme nello stesso tempo, permette a queste persone di ottenere obbedienza senza bisogno di utilizzare la violenza e limitando al massimo le punizioni, i ricatti, le minacce. Spesso esse non hanno bisogno neanche di alzare la voce per ottenere quanto richiesto.

I genitori autorevoli non hanno paura del figlio.

I genitori psicologicamente più labili, emotivamente più fragili, spesso hanno paura dei comportamenti aggressivi e distruttivi del figlio, per cui sono costretti a subire continui ricatti. Le minacce possono essere esplicite: “Se non mi concedi questo vado via di casa”, “non ti parlo più”, “mi metto a gridare”, “non studio”, “non vado a scuola”, “non mangio”; oppure, il più spesso, implicite mediante l’utilizzazione di comportamenti e d’atteggiamenti con i quali l’esperienza gli ha dimostrato che può ottenere quanto desiderato.

In tutti i casi cedere significa incamminarsi in una strada fatta di concessioni in seguito a continue pressioni e ricatti. Un buon genitore dovrebbe riuscire, anche con notevole sacrificio e sofferenza, a respingere ogni tentativo di questo genere.

Un genitore autorevole infligge punizioni giuste, equilibrate e limitate nel tempo.

Per quanto riguarda le punizioni è un’illusione tragica il pensare che si può non usarle mai nell’educazione d’un bambino, d’un giovane o d’un adulto. In ogni caso se vi sono dei limiti e delle norme da far rispettare, è indispensabile che chi non li rispetta nonostante li conosca e sia maturo per farlo, ne paghi le conseguenze; anche perché la punizione, se è giusta e non eccessiva, ristabilisce l’equilibrio e controbilanciando la mancanza; essa pertanto evita sensi di colpa e d’indegnità nei minori come negli adulti e aggressività repressa nell’educatore. La persona saggia e autorevole sa però che le punizioni sono necessarie solo se l’educando ha la consapevolezza della mancanza fatta, ed è in grado di controllare efficacemente le proprie azioni; quindi non ha senso castigare i bambini piccoli se ancora non hanno raggiunto la consapevolezza dei loro comportamenti o se non possono averne il controllo. Se un bambino maneggia ancora in maniera maldestra gli oggetti, non è sicuramente colpevole se lascia cadere e, quindi, rompe qualcosa che, incautamente, gli abbiamo lasciato tra le mani. In questo caso i responsabili siamo noi e non lui; se non v’è ancora il concetto di proprietà, che matura dopo i tre - quattro anni, non vi può essere una punizione per furto. Lo stesso vale per le bugie di un bambino negli anni della prima infanzia, periodo in cui ancora la fantasia si confonde con la realtà.  In questi casi è giusto soltanto un richiamo e un lieve rimprovero, per iniziare a far comprendere, accettare e far propri gradualmente i principi e i valori etici. Né ha senso la punizione quando il soggetto non aveva alcuna volontà di eludere la norma o la richiesta. Ad esempio quando il fatto è avvenuto per il verificarsi di un evento occasionale. “Io avevo fatto di tutto per tornare in orario ma un guasto (reale!) alla macchina me l’ha impedito.” Come è giusto perdonare o trattare benevolmente un’unica mancanza, mentre è corretto essere più severi quando la mancanza si ripete: “Errare humanum est, perseverare diabolicum.”

Per essere giusta ed efficace la punizione deve inserirsi in un disegno educativo sereno e lineare,   non dovrebbe nascere dallo sfogo di un malumore, da un momento di collera, né da paure o ansie immotivate dell’educatore.

Le punizioni date in un momento immediatamente successivo alla colpa sono meglio collegate a questa. Se un genitore castiga troppo frequentemente o impone punizioni eccessive, quasi sicuramente troveremo qualcosa che non va nelle sue capacità educative o nello sviluppo del bambino. Quando un genitore è autorevole e la sua linea educativa è chiara, precisa e ferma, quest’evenienza si presenterà raramente.

Se, ad esempio si è dato un orario ben preciso, si è spiegato il motivo per cui è necessaria la puntualità ed è chiara anche l’eventuale punizione, il bambino, il ragazzo, il giovane ha tutti gli elementi per controllare i suoi comportamenti.  Sa che cosa deve fare, perché deve farlo e qual è l’eventuale punizione. Conosce anche in positivo, l’accettazione dei genitori e lo spazio che ha a disposizione. “ I miei genitori sono contenti che io esca, perciò è una cosa buona uscire, è bello parlare e divertirsi con gli amici in modo sano e costruttivo.” La certezza e la chiarezza dei diritti, come delle norme, dei limiti e delle pene, fa diminuire notevolmente il numero delle infrazioni.

Ciò sanno bene i nostri amici giuristi. 

Invece, il non conoscere i propri diritti o il sottostare a  pene aleatorie scritte solo sui codici ma raramente applicate, fa aumentare notevolmente il numero e la gravità dei reati e porta a comportamenti sempre più devianti e deviati. Per tale motivo, un rimprovero chiaro, netto o un piccolo castigo applicato senza tentennamenti o marce indietro, nel momento opportuno, evita mille rimbrotti, rimproveri e castighi notevolmente più gravi e numerosi in futuro.

L’ultima cosa che vogliamo dire a questo riguardo è di non utilizzare, se non raramente e in situazioni eccezionali, le armi affettive con le quali gli educatori cercano di ottenere qualcosa o di infliggere una punizione stimolando il senso di colpa. “Se tu fai questo mi fai soffrire, morire, dispiacere, mi fai stare male, uccidi tua madre.” Le armi affettive tendono a provocare disagio interiore, ansia, sensi di colpa che possono accentuare piuttosto che risolvere i problemi di comportamento.

Dove stanno i padri autorevoli?

Già da qualche anno, sempre più frequentemente gli psicologi, i sociologi, i pedagogisti, esprimono a gran voce, dopo ogni segno di follia giovanile, la necessità che i genitori, soprattutto i padri, seguano i figli con autorevolezza.

“A.A.A. Padri autorevoli cercasi” è l’appello che viene costantemente ma invano lanciato, anche perché sembra che di questi genitori o padri autorevoli ne sia scomparsa ogni traccia. Purtroppo se non sono evidenziate e risolte le cause che portano a questa quasi estinzione, pensiamo che l’appello continuerà a cadere costantemente nel vuoto.

 “A.A.A. Padri autorevoli cercasi”, dovrebbe trasformarsi in “A.A.A. Società responsabile, attenta e coerente cercasi.” Chi se non una società responsabile e attenta potrebbe dar vita a padri ed educatori autorevoli? La loro scomparsa è stata provocata da una serie d’interventi assolutamente irresponsabili da parte di molti settori di quella stessa società che adesso, nei momenti in cui avverte più intensa la crisi delle giovani generazioni, li richiede a gran voce.

Per troppi decenni in maniera massiccia, da parte dei legislatori, dei mass - media, dei politici e degli stessi sociologi, psicologi e pedagogisti che adesso richiedono a gran voce padri autorevoli, le caratteristiche sopra descritte sono state tradotte e presentate in maniera negativa.

 

COME SI DISTRUGGE L’AUTOREVOLEZZA

  • La maturità e la saggezza sono state viste come saccenteria e vecchiaia.
  • Gli atteggiamenti responsabili, come interventi fuori del tempo e della storia, lontani dalla realtà del 2000.
  • La serenità è stata vista come freddezza, insipienza e noia.
  • La virilità nei comportamenti come maschilismo ed oscurantismo.
  • La linearità come rigido militarismo.
  • I limiti e le norme come offesa alla libertà e ai sacrosanti diritti individuali e collettivi. “Per carità non irreggimentiamo i nostri giovani, non li facciamo diventare come dei soldatini”, è stato per anni il ritornello degli specialisti di turno.
  • La coerenza e la fermezza sono state viste come autoritarismo, aggressività, dittatura del padre padrone; quindi, se i figli ubbidiscono, sono visti come delle marionette in mano ai loro genitori tiranni; se non lo fanno, ne hanno molti buoni motivi.
  • Sia che venisse dai professori, dai politici o dai genitori, ogni atteggiamento che chiedeva responsabilità, attenzione, coerenza è stato bollato di autoritarismo.
  • Le punizioni come gratuita violenza esercitata sui minori.

 

Sappiamo per certo invece e non da ora, ma dall’inizio dei tempi, che l’unire l’affetto, la dolcezza, la sensibilità, la tenerezza, alla fermezza e alla sicurezza, non è un controsenso.

 E’ ciò che ogni buon genitore ha fatto, ogni genitore può fare, deve fare. Non facciamo quindi mancare ciò che è indispensabile: non facciamo mancare dei genitori e degli educatori autorevoli accanto ad ogni bambino, così come accanto ad ogni giovane.

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 



[1] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 25.

 

[2] P. Lombardo, Crescere  per educare, Edizioni dell’aurora, 1994, p. 37.

[3] P. Lombardo, Crescere  per educare, Edizioni dell’aurora, 1994, p. 61.

 

[4] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 134.

[5] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 135.

[6] P. Lombardo, Educare ai valori, Edizioni Vita Nuova, 1997, p. 134.

 

[7] P. Le Moine, Educare, il grande mestiere, Edizioni San Paolo, 1995, p.102.

 

 Tratto dal libro di E. Tribulato "L'educazione negata" Edizioni E.D.A.S.

 

 

 

Gli scopi del dialogo genitori - figli

 

Conoscenza

Il dialogo dovrebbe portare alla conoscenza.


Attraverso il dialogo il genitore conosce il figlio. Scopre i suoi pensieri e desideri, i bisogni ed i problemi, le necessità e le paure. Questa conoscenza non può essere limitata nel tempo, perché l’essere umano è in continuo divenire e quindi anche la conoscenza deve essere continua, perenne. Non si può pensare di conoscere il figlio in un certo momento del suo sviluppo e basta. Bisogna che questa conoscenza si applichi al suo divenire. Quel figlio di un anno non ha pensieri, caratteristiche, problemi uguali a quando, di anni, ne avrà tre o cinque o dieci. I problemi ed i bisogni di un bambino sono diversi da quelli di un adolescente o di un giovane.

Pertanto discende la necessità di capire l’educando nella sua crescita e nella sua evoluzione; nelle sue gioie, gratificazioni e conquiste, come nei suoi turbamenti; nei suoi momenti più esaltanti e gratificanti come nelle sue crisi, tristezze e ansie. Tali conoscenze sono indispensabili per rapportarsi con lui nella maniera più giusta e corretta. Sono indispensabili per fornirgli gli strumenti di conoscenza e di cultura adatti alla sua età ed ai bisogni.

Comunicazione

Il dialogo è un mezzo per comunicare con i figli.

E’ un mezzo per scambiare con i figli sentimenti, emozioni, gioie, paure, disappunto; ma anche conquiste, amore, tenerezze.

Ogni genitore ha bisogno di sentire quello che i figli pensano di lui, quello che sentono, vogliono e cercano da lui, e da lui si aspettano. Ma anche un figlio ha bisogno di capire i bisogni dei suoi genitori ed educatori. Sono bisogni di tenerezze, di calore, d’affetto. Sono bisogni di ubbidienza e di collaborazione, senza i quali nessun genitore sarebbe in grado di assolvere il ruolo educativo. Sono bisogni di comprensione delle difficoltà che il ruolo di genitore o educatore comporta.

Ciò è ancora più pressante in una società come la nostra che sembra aver rinunciato in molte istituzioni, al suo ruolo educante. Una società che rifiuta di aiutare, sostenere e salvaguardare il ruolo genitoriale e le valenze educative della famiglia in senso lato, abbandonandola al suo destino come fosse un vecchio residuo d’altri tempi.

 Una società che trascura da decenni la famiglia a favore di servizi pubblici, cosiddetti sostitutivi o alternativi o integrativi, che tutto dovrebbero recepire, tutto dovrebbero saper affrontare e risolvere, ma che in realtà hanno per loro stessa natura e non per carenze di personale o di qualificazione di questi, difficoltà ad affrontare e risolvere anche le esigenze più banali, semplici ed immediate, molto lontane dalla complessità delle esigenze educative di un bambino.

La stessa società è, però, pronta a scaricare sui genitori stessi e sulle famiglie le conseguenze di tali incapacità quando la cronaca porta alla ribalta i fallimenti educativi: droga, omicidio, suicidio, malessere giovanile, immaturità ecc..

Se la comunicazione genitori – figli è fondamentale in un processo educativo, è vero anche che non sempre si può dire tutto, si può comunicare di tutto con i figli. Questo perché non sempre i figli possono capire tutto.  Non sempre possono capire i motivi profondi che sottostanno ad un atto, un diniego, un comportamento dei genitori. Non sempre sono in grado di valutarlo in maniera corretta, non sempre sono in grado di viverlo in maniera opportuna.

Ci sono delle cose che sono appannaggio degli adulti e devono rimanere nell’ambito degli adulti. Ci sono degli argomenti e delle situazioni in cui i figli non dovrebbero essere coinvolti, sia perché non sarebbero in grado di capire, sia per le impressioni sfavorevoli che potrebbero avere su persone che dovrebbero rispettare e amare. Pensiamo, per esempio, alle avventure sentimentali e sessuali che i genitori separati o le ragazze madri tendono a comunicare ai figli per “farli partecipi.”

Spesso l’impressione che i figli ne ricavano è quella di non avere accanto a sé dei genitori maturi e responsabili ma dei coetanei che giocano con i sentimenti, con il sesso e con l’amore. Il giudizio sui genitori e sugli adulti in genere, diventa inoltre negativo, quando si fanno partecipi i figli delle liti e delle beghe in cui i genitori spesso sono coinvolti. Soprattutto quando si mettono in piazza giudizi che offendono, sviliscono e minano l’attendibilità di persone importanti per il bambino: come gli insegnanti, i parenti, gli zii, i nonni, o i genitori degli amici.

Quindi se c’è una mancanza di dialogo, ci può essere all’opposto, un eccesso d’informazione o un’impropria comunicazione. Il mondo dei bambini è un mondo che deve essere preservato dalle battaglie o dalle guerre degli adulti, perché la loro fiducia negli altri e nel mondo ha maggiore valenza che non le nostre beghe, i nostri bisticci, i nostri dissapori.

A volte, come nel bambino piccolo, c’è un eccesso di spiegazioni che porta ad una continua sensazione di pericolo imminente. “Non fare questo perché è pericoloso” “Non fare quest’altro perché puoi morire o fare morire i tuoi genitori.” E’ un continuo mettere il bambino in una situazione di allarme per un evento luttuoso o disastroso. Molto meglio come dice B. Spock,   distrarlo oppure dire di no o dargli delle spiegazioni non catastrofiche. 

E’ bene, inoltre, evitare di ripetere spiegazioni all’infinito. Spiegazioni che già si sono date numerose volte. In questo caso l’impressione che ne hanno i minori è che gli adulti hanno la necessità di giustificarsi: per il rimprovero o castigo dato; per le richieste fatte; per le decisioni prese. In definitiva, l’impressione che ne ricavano è quella di avere dei genitori insicuri, ansiosi, emotivamente fragili.


Scambio

Il dialogo è scambio.

Si può e si deve scambiare, non soltanto con persone della stessa età, cultura e sesso, ma si può e si deve scambiare anche quando l’età, il sesso e la cultura sono diverse.

C’è sempre qualcosa che un genitore od un educatore può dare a un fanciullo, c’è sempre qualcosa che questi può dare ai suoi genitori e educatori.

Lo scambio può riguardare le conoscenze, le idee, i modi di essere, le esperienze, ma può e deve riguardare anche il mondo degli affetti e dei sentimenti indispensabili ad entrambi. E’ attraverso lo scambio che avviene l’arricchimento reciproco per cui, quando questo viene a mancare, ci impoveriamo ogni giorno di più, ogni giorno di più moriamo.

Attenzione però a non utilizzare questo scambio in modo paritario. Un figlio non è un marito o un amico o un confessore, cui possiamo confidare ogni nostro pensiero e da cui ci possiamo aspettare delle risposte e degli aiuti che solo degli adulti e degli adulti maturi che hanno un ruolo specifico potrebbero dare. Questo caricare l’educando di ruoli e compiti non propri è un errore frequente specialmente nel nostro periodo storico in cui le coppie sono spesso spezzate dalla separazione, dal divorzio o dalle incomprensioni e la solitudine attanaglia gli animi di molti genitori. Si tende a dare ai figli ruoli, compiti e responsabilità che non sono loro o ai quali non possono far fronte. Figli che dovrebbero sostituire un marito o una moglie che ci ha lasciato o tradito. Figli al posto dell’amica del cuore che si è allontanata da noi. A questi figli spesso riversiamo confidenze intime, insoddisfazioni e bisogni; confidando forse che un miracolo li trasformi, per incanto, da esseri bisognosi d’aiuto, protezione, assistenza, in adulti capaci di caricarsi e gestire le nostre pene, i nostri bisogni, le nostre frustrazioni.

Dono

Il dialogo è dono.

Possiamo aiutare i nostri figli in molti modi. Il cibo che compriamo per loro, il tetto sicuro che offriamo, le scuole o le altre attività formative che permettiamo loro di frequentare. Ma c’è un dono più grande e prezioso che noi possiamo dare ad i figli ed è la nostra presenza dialogante.

Le parole, gli incoraggiamenti, i pensieri, o anche i rimproveri e i biasimi, li possono aiutare a capire e a comportarsi in maniera corretta, responsabile, attenta. Possono contribuire alla maturazione dei figli e allo sviluppo della loro personalità. Ciò possiamo ottenere dicendo la parola giusta al momento giusto, dando il nostro sostegno, il nostro conforto e soprattutto valorizzandoli. Ognuno di noi ha bisogno che qualcuno valorizzi le nostre qualità e capacità. Questo ci fa sentire bene, ci dà sicurezza, forza, coraggio, ci fa affrontare meglio, con più grinta, la vita. La disistima da parte dell’altro, soprattutto se di un genitore, porta i figli alla chiusura, alla tristezza, all’abbandono, allo sconforto, alla rinuncia. Anche il semplice ascolto, quando si riesce a mettersi nella  stessa lunghezza d’onda, mettendo il nostro cuore accanto al loro, è capace d’aiuto, in quanto permette di aprire il cuore dei figli al nostro, di scambiare e trovare nel nostro animo, conforto, sostegno comprensione, amore.

 

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

Il dialogo genitori - figli

 

Un buon genitore è capace di instaurare un dialogo efficace. 


La comunicazione è elemento fondamentale per lo sviluppo e la vita relazionale di moltissimi animali, ma soprattutto dell’uomo. Possiamo tranquillamente affermare che la nostra umanità genetica avrà il suo naturale sviluppo e acquisterà completezza, solo e in quanto qualcuno avrà comunicato con noi in modo efficace.

Per le madri più sensibili, più disponibili, più attente, più rilassate, più disposte alla relazione, la comunicazione con il proprio piccolo nasce già durante la gravidanza.

La presenza del figlio nell’utero materno, avvertita ancor prima dei movimenti del bambino stesso, come presenza di un altro, di altro da sé, ma connesso intimamente con il “sé” materno, porta istintivamente al dialogo, alla comunicazione, all’intesa e al rapporto tra la madre ed il bambino. Rapporto, intesa e comunicazione che si perfezionano e si completano nel momento in cui il nuovo essere umano fa sentire la sua presenza, con i  movimenti del corpo. Molte mamme e padri reagiscono a queste sollecitazioni del figlio con toccamenti e carezze dati al bambino attraverso l’addome. In tal modo comunicano le loro emozioni: la gioia nell’avvertire la sua presenza, il piacere di quell’intesa e attesa.

Ma questa comunicazione si completa e diventa molto più intensa, dopo la nascita. Attraverso le espressioni emozionali del viso, con significato di piacere, gioia, rabbia, dolore, disappunto, desiderio, ricerca, il bambino comunica alla madre i suoi bisogni, e non solo.

I bisogni di base del bambino li conosciamo molto bene: pulizia, cibo, calore, affetto, attenzione. Ma vi sono dei bisogni che dovrebbero essere altrettanto evidenti, ma che purtroppo, a volte, dimentichiamo: bisogno di dialogo, serenità, equilibrio, protezione; e ancora stimoli per lo sviluppo: stimoli per il linguaggio, per la motilità, l’affettività, la volontà, ecc..

Il bambino non chiede soltanto, ma cerca di soddisfare i bisogni dei genitori o di chi si prende cura di lui con amore. Per tale motivo dà generosamente amore, piacere, dialogo ed altre forme di gratificazioni. Fa ciò attraverso la modulazione delle espressioni del viso come il sorriso; attraverso le sue mani: le carezze i toccamenti i gesti; con la sua bocca, mediante i baci e le espressioni verbali.  

In tal modo si ristabilisce un equilibrio tra ciò che si chiede e ciò che si dà e lo scambio diventa paritario. Come conseguenza di ciò vi è un benessere e un attaccamento reciproco, ed un vincolo emotivo stabile nel tempo.

Quando questo non avviene, quando l’intesa non si manifesta e lo scambio non si attua, può succedere quanto descritto da diversi autori: vi è un evitamento degli sguardi, ma anche dei toccamenti, degli abbracci dei sorrisi, con conseguente allontanamento e disagio reciproco. Disagio che può sfociare nella madre in ansia, depressione o aggressività manifesta verso il piccolo.

 Il bambino supera il trauma iniziale della nascita, la paura nei confronti del mondo e degli altri, la tentazione a chiudersi in se stesso, attraverso il dialogo. Sono, infatti, le persone che l’accolgono al mondo, soprattutto i suoi genitori e gli altri familiari che, con le loro attenzioni, con le carezze e con i baci, gli fanno avvertire di essere bene accolto. Gli fanno sentire con il loro amore che il mondo gli vuole bene, che il mondo è una cosa buona perché ricco di calore e di disponibilità nei suoi confronti. Quando i genitori, infatti, non riescono a comunicare al bambino attraverso i gesti e le parole il senso caldo dell’accoglienza, dell’affetto, della disponibilità, hanno il sopravvento la tristezza e la paura iniziale che lo possono spingere verso la chiusura e la depressione.

In un secondo tempo, sarà sempre il dialogo che permetterà al bambino di crescere e maturare sia nel linguaggio sia nelle capacità intellettive e cognitive. Sarà mediante un continuo scambio di esperienze e di valori che in lui si svilupperà il senso morale.

 Quindi l’aprirsi alla vita, la sua crescita e maturazione verrà solo se avrà accanto a sé dei genitori o in ogni caso esseri umani che si pongono nei suoi confronti in un rapporto dialogico stabile e continuo di maternità o paternità. Pur tuttavia, oltre che dei genitori avrà bisogno, per la sua crescita, di altre figure che gradualmente si aggiungeranno, ma non potranno sostituire le prime: i nonni, i fratelli, gli zii, i parenti e poi gli amici, gli insegnanti e infine i conoscenti. Tutti si dovranno rapportare con lui mediante un dialogo efficace.


LA COMUNICAZIONE MATERNA

La comunicazione è efficace solo se avviene in un certo momento e con certe caratteristiche. Non può essere postergato ciò che deve avvenire in una certa fase della sua vita. Alla nascita, ad esempio, è fondamentale un rapporto empatico tra madre e figlio. Un rapporto fatto più d’emozioni che di parole, da parte di una donna capace di non farsi trascinare dalla fretta e dalla convulsa vita moderna, ma in grado di mettersi in ascolto delle sensazioni, dei pensieri, delle emozioni dell’animo del bambino. Una donna, quindi, capace di mettere il proprio cuore accanto a quello del figlio, per capirlo e amarlo prima di tutto, dando delle risposte verbali e non verbali, affettivamente e razionalmente valide. Il bambino come tutti i cuccioli ha un gran bisogno della presenza della madre che lo coccoli, l’abbracci, lo culli, lo rassicuri, lo tenga vicino, come ha bisogno che qualcuno comunichi con lui, gli parli, l’aiuti ad allontanare con la sua confortevole realtà la paura del buio e del mistero.

La comunicazione materna dovrebbe essere calda, dolce, ricca di sentimenti amorosi e di vezzeggiamenti affettuosi, in modo tale da dare al bambino il senso della tenerezza, della sicurezza e dell’accoglienza. Dovrebbe inoltre poter sviluppare nel figlio quel ventaglio di sentimenti e di emozioni che ci rendono sensibili alle sofferenze altrui, partecipi delle difficoltà e dei problemi di chi ci circonda, disponibili all’aiuto a al sostegno reciproco.

La comunicazione materna inoltre così ricca d’elementi verbali dovrebbe poter trasmettere ai figli i bisogni, la storia, i valori e la cultura delle generazioni che ci hanno preceduto.

Il pianto è il primo mezzo di comunicazione del bambino, vi saranno poi altri strumenti di comunicazione più efficaci come i gesti, le espressioni del viso, le parole.

Attraverso il pianto il bambino comunica la fame o la sete, la sofferenza fisica e quella psicologica. La comunicazione che sottostà al pianto dovrebbe essere decodificata abbastanza facilmente da una madre capace e serena. In genere una buona madre capisce il suo bambino anche perché è già da vari mesi, molto prima che nasca, in comunicazione con lui.

 Una madre attenta e consapevole, infatti, sa entrare in empatia con il suo bambino, regredisce e comprende come se fosse lei stessa piccola come lui, per cui la risposta può essere la migliore possibile, la più pronta, la più efficace e coerente.

Eppure nella nostra civiltà della comunicazione molte madri non sembrano capire i bisogni del loro bambino, neanche quando questi bisogni sono espressi in modo chiaro ed esplicito, perciò le risposte sono spesso non coerenti con le richieste, contrastanti, molteplici, ricche d’ansia, ed in definitiva poco consone al problema e quindi poco produttive. Queste madri si comportano come quei cacciatori che sparano a tutto ciò che si muove senza colpire mai il bersaglio giusto.

Perché una madre può non capire?

L’immaturità.

Non aver raggiunto la maturità per essere madre, può essere un motivo. L’immaturità può essere causata da un’eccessiva giovinezza, da problemi psicoaffettivi che bloccano o fanno tardare lo sviluppo psicologico, da mancanza di esperienze e conoscenze dell’animo dei piccoli; anche nel mondo degli animali la femmina che diventa madre troppo giovane, o che non ha avuto le indispensabili esperienze e conoscenze da parte dei genitori e o degli altri animali del branco, spesso non riesce ad essere una buona madre, e quindi non riesce a capire e soddisfare i bisogni della prole.

Non avere la serenità necessaria per mettersi in ascolto e per entrare in empatia.

Anche questo dato si può ricavare dallo studio del comportamento animale.  Quelli di loro, che subiscono notevoli stress perché catturati, che vivono in gabbia o sono inseriti al di fuori del loro ambiente naturale, non sono nelle condizioni migliori per allevare i loro cuccioli.

La mancanza di serenità negli esseri umani, può nascere da problematiche inconsce

 non risolte, da carenze affettive, da esperienze infantili traumatizzanti o da problemi relazionali attuali che possono riconoscere come causa i dissidi o le difficoltà di intesa con il coniuge, i figli, gli altri parenti, i vicini.

I problemi o le necessità lavorative.

 Un eccesso di problemi e d’impegni può causare nella madre difficoltà nella comunicazione con i figli, a causa della focalizzazione del pensiero e dell’attenzione sulle attività e problemi connessi con il mondo del lavoro: contrasti con il datore di lavoro o con i colleghi, doveri cui far fronte, rendimento, qualità e quantità del lavoro da garantire, paura del licenziamento.

Scarsità di aiuto esterno nell’allevamento dei figli.

La scarsità o la mancanza di sostegni esterni, che dovrebbero proteggere e aiutare la madre che ha partorito e che affronta, soprattutto per le prime volte, il rapporto con un bambino piccolo, può portare a difficoltà nella relazione. Gli apporti esterni di tipo affettivo e culturale, sono indispensabili alla giovane madre in quanto la rendono capace, disponibile e pronta alla comunione e all’intesa, con il proprio bambino. Questi apporti dovrebbero venire da parte di un marito comprensivo, affettuoso, ma anche sereno e sicuro di se; così come anche da parte dei genitori, specie della propria madre, ci si aspetterebbe una presenza rassicurante, una guida serena, uno scambio prezioso di esperienze.

Nella nostra società, che vive convulsamente anche i rapporti più basilari e teneri, manca spesso l’apporto del marito a causa degli orari di lavoro rigidi o prolungati, come è carente il sostegno dei genitori d’origine, reso problematico a causa della loro lontananza fisica: spesso ciascuna delle due famiglie abita nella parte opposta della città o in una città diversa.

Si assiste, inoltre, al progressivo deterioramento dell’intesa e dell’aiuto tra le varie generazioni, che sarebbero invece importanti nella famiglia umana. Così come i giovani snobbano e rimangono lontani ed indifferenti nei confronti dei genitori per anni, a loro volta questi non si sentono coinvolti, come avveniva nelle famiglie molto unite, nell’aiuto e nel sostegno alle giovani coppie. “Se poco si dà, poco si ha.”

Mancanza o scarsa abitudine all’ascolto profondo.

Ciò, nella nostra civiltà, è spesso dovuto alla quantità e qualità di informazioni cui fin dalla più tenera età le giovani generazioni vengono sottoposte. Molto spesso le informazioni, numericamente eccessive, si sovrappongono l’una all’altra nella coscienza senza che l’ascoltatore abbia il tempo di analizzarle e sottoporle a critica efficace.  Inoltre, troppo intense, grossolane e superficiali nella loro qualità, non sono in grado di sviluppare le capacità di ascolto e di comunicazione delicate, sottili e profonde, necessarie per l’ascolto emozionale di un bambino piccolo.

  Le conseguenze del mancato ascolto.

Le conseguenze che si hanno quando un bambino piccolo non viene ascoltato o non si risponde in maniera corretta ai suoi bisogni ed esigenze, sono numerose.

Si va da una maggiore irritabilità e quindi un aumento del pianto e delle manifestazioni di insofferenza, alla chiusura, alla depressione, all’apatia o a disturbi psicologici di varia natura e gravità. Come hanno dimostrato varie ricerche, anche i cuccioli degli animali, se non capiti dalla madre, rifiutano il cibo, diventano irritabili, aggressivi o nei casi più gravi si lasciano morire. L’attaccamento ed il dialogo profondo madre - bambino è pertanto essenziale alla crescita sana e vigorosa di ogni essere complesso che si affaccia alla vita.


LA COMUNICAZIONE PATERNA

 Accanto alla comunicazione materna è da sottolineare quella paterna molto spesso misconosciuta, ma ricca di grandi valenze educative.

La comunicazione paterna è diversa nello stile: più asciutta, lineare, sostanziale, va diritta allo scopo.  E’ diversa nell’utilizzazione degli strumenti: l’uso del linguaggio è più scarno, meno ricco e variegato, rispetto a quello della madre, ma più sostanziale. I messaggi sono spesso trasmessi mediante l’uso di gesti, comportamenti, esempi da imitare.

E’ diversa negli scopi e negli obiettivi. Il padre stimola soprattutto all’azione, all’intraprendenza, alle attività competitive. Guida nella ricerca dell’essenzialità sia nell’esame dei problemi che delle situazioni. Cerca di sviluppare nei figli il coraggio, la lealtà, la coerenza, la determinazione, il senso dell’onore. Stimola il figlio alla necessità di ubbidire alle regole e norme sociali e familiari.

Il padre, inoltre, vuol far partecipe il figlio di necessità fondamentali per un essere umano, come il controllo delle emozioni, attraverso l’uso della razionalità e la necessità del sacrificio; amplia la sua visione ristretta ai bisogni attuali con la comprensione delle esperienze del passato e le necessità future; infine lo allena e gli dà gli strumenti necessari per raggiungere quella forza interiore indispensabile ad affrontare le frustrazioni e le difficoltà della vita.

La persona che comunica.

La persona che comunica è fondamentale, per l’efficacia della comunicazione stessa. Nei primi anni del suo sviluppo, una richiesta e uno stimolo proposti dalla mamma e dal papà avranno una valenza diversa rispetto a quello di altre persone, sia pure di altri familiari come i nonni, gli zii o altri parenti. Sicuramente molto diversa da quelle proposte da una persona estranea o da altri operatori.

E’ fondamentale, infatti, nell’acquisizione di un comportamento il legame affettivo sottostante e la continuità del rapporto stabilito con il bambino.

Gli strumenti utilizzati per la comunicazione sono diversi.

 L’essere umano accetta e ama tutti i mezzi di comunicazione: le parole, i gesti, i comportamenti, ma, a seconda del suo sviluppo, avrà più bisogno di un certo tipo di comunicazione rispetto ad un altro; quindi nel tempo cambiano gli attori primari della comunicazione o se n’aggiungono altri. Cambiano i mezzi di dialogo o altri se n’aggiungeranno. Cambiano i contenuti e gli obiettivi.

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

I fratelli e l'educazione

 

L’educazione attuata direttamente o indirettamente dai fratelli è fondamentale, ma è stata molto trascurata dalla psicologia in quanto questa, influenzata dalla psicoanalisi freudiana, ha soprattutto sottolineato la rivalità e gelosia esistente tra questi, trascurando gli elementi dinamici positivi.

Essere fratelli significa rapportarsi con nostri pari con cui si condivide anche una stessa realtà biologica, un medesimo ambiente fisico ed educativo, fatto da adulti (genitori, nonni, zii), con cui vi sono dei legami di parentela molto stretti. Essere fratelli significa quindi vivere, partecipare ed affrontare insieme, ogni giorno e per molti anni, molteplici realtà: liete e felici, oppure tristi e drammatiche.

Sicuramente questi vissuti non possono essere indifferenti sul piano educativo.

Condividere una stessa realtà biologica, essere, come volgarmente viene detto, dello “stesso sangue”, significa avvertire attorno ed accanto a sé una presenza similare e rassicurante, di notevole impatto emotivo. Rapportarsi giorno dopo giorno ed in uno stesso ambiente, con altri minori con cui si stabilisce una grande valenza affettiva, fa sicuramente sorgere contrasti, conflitti, rivalità. E’ bene, però, ricordarsi che nell’infanzia sono fondamentali le esperienze ed il tirocinio effettuati in un contesto protetto, solido, affettivamente positivo.

Questo tirocinio farà sì che i sentimenti, le emozioni, e i momenti di conflittualità che si incontreranno poi al di fuori della famiglia e quindi in una situazione molto più difficile da affrontare, risultino facilmente superabili.

Per tale motivo anche i conflitti, se ben gestiti dalla presenza serena, rassicurante e dialogante dei genitori sono occasione e momento di crescita. L’esistenza di fratelli obbliga inoltre il bambino a confrontarsi con la realtà esterna, lo incentiva a liberarsi dagli atteggiamenti egocentrici per assumere comportamenti più elaborati e aperti. Mediante il tirocinio di semplici pratiche sociali, in virtù delle quali si abitua a stabilire un giusto equilibrio tra se stesso ed il mondo circostante, egli apprende ad equilibrare le sue richieste con quelle degli altri ed ad assumere atteggiamenti di indipendenza ed autonomia. 

Tra l’altro, se è vero che esiste il conflitto tra fratelli, sono presenti sicuramente tra loro altri sentimenti più caldi e rassicuranti come il dialogo, il piacere della comunanza, il senso di protezione e di sicurezza.

Avere dei fratelli dà, inoltre, la possibilità di frequenti e basilari momenti di confronto, di gioco e d’emulazione.

Il gioco è uno dei mezzi usati spontaneamente dai bambini per effettuare un’azione autoeducatrice ed autoterapeutica. I minori se ne servono per creare, per crescere e sviluppare tutte le potenzialità umane, ma anche per compensare le sconfitte, le sofferenze, per liberarsi dalle frustrazioni e dai traumi subìti. Nel gioco vengono liberate tendenze represse come l’aggressività, la distruttività, la gelosia, ma anche i bisogni: d’amore, di tenerezza, d’ascolto che i bambini provano difficoltà a manifestare o che si vergognano di esprimere.

Tra fratelli, quando la differenza di età non è notevole, il gioco non è un fatto episodico od occasionale ma diventa parte integrante di molti momenti della giornata. Sicuramente, insieme al gioco, c’è il confronto, la rivalità, lo scontro, ma questi, se a volte fanno parte del gioco stesso, quando hanno caratteristiche di veri scontri e di vere rivalità permettono di rafforzare il  carattere dei minori per meglio affrontare le difficoltà della vita.  

Avere dei fratelli di sesso diverso significa inoltre poter vivere, conoscere, sperimentare e confrontarsi, giorno dopo giorno, con una realtà sessuale diversa dalla propria. Per un fratello vivere con una sorella significa scoprire e capire la femminilità, abituarsi a relazionare con lei. Al contrario per le femminucce.

Per quanto riguarda il confronto, un fratello maggiore è qualcuno da imitare perché più grande, più forte, ed è portatore di un’esperienza che, a differenza di quella dei genitori e degli adulti, è molto vicina ed è legata all’attualità. Quest’esperienza però, a differenza di quella dei compagni è più protettiva e si pone in modo più responsabile e attento.

Un fratello maggiore tende a difendere, ad essere solidale, a proteggere dai pericoli. D’altra parte per un fratello maggiore un fratellino o una sorellina da accudire e seguire, permette esperienza di cure, tirocinio educativo e relazionale, indispensabili per la sua maturazione. C’è un cucciolo d'uomo nella casa, e partecipare, insieme ai genitori, alla sua crescita in modo attivo è fondamentale nell’acquisizione delle metodiche e delle tecniche educative e di cura. L’occuparsi dei fratelli insegna un elemento fondamentale dell’esistenza umana e cioè che le nostre azioni individuali non si esauriscono in noi stessi, ma devono essere proiettate sugli altri sotto forma di aiuto e di sostegno. 

Molte ragazze e molti ragazzi oggi diventano padri e madri senza avere vissuto questo tirocinio ed i risultati sono disastrosi sia sul piano della cura materiale, sia sul piano relazionale e educativo. E’ come se un giovane si mettesse alla guida senza aver fatto prima un buon tirocinio sulla strada con la macchina di papà o con la scuola guida.

 

Tratto dal libro "L'educazione negata" di Emidio Tribulato. Per richiedere questo libro clicca qui. 

 

 

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